L’ora nebbiosa dell’alba – Note sull’operazione anti-anarchica in Trentino

Il testo che segue comparirà nel prossimo numero della rivista anarchica “i giorni e le notti”, che verrà stampato a breve. Siccome diversi compagni e compagne ci hanno chiesto delle valutazioni a proposito della recente operazione repressiva in Trentino, abbiamo deciso di fare uscire in anticipo e come testo autonomo queste note. Ne approfittiamo per una comunicazione ai distributori de “i giorni e le notti”. Durante le perquisizioni e gli arresti del 19 febbraio, Digos e Ros ci hanno sequestrato anche i soldi per stampare la rivista e l’indirizzario dei distributori. Siamo ricorsi a un indirizzario meno aggiornato. Chiediamo a compagne e compagni di darci conferma degli indirizzi a cui spedire le copie, nonché del quantitativo richiesto.

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L’ora nebbiosa dell’alba – Note sull’operazione anti-anarchica in Trentino

Le informative della polizia politica e le ordinanze di custodia cautelare – con cui sempre più spesso ci vengono portati via compagni e compagne – non sono solo materia da avvocati. Certo, l’amore, l’azione, la vita sono altrove. Ma quelle carte vanno lette, e con attenzione. Come se fossero allo stesso tempo un manuale tecnico del nemico e una sintesi in gergo burocratico dell’ideologia dominante. Vanno lette, cioè, per capire come si muove lo Stato e con che mezzi, sapendo che tra questi ultimi rientrano non solo gli strumenti del controllo tecnologico o le tecniche investigative, ma anche la costante ristrutturazione della giurisprudenza. Partendo dal sano presupposto materialista secondo il quale il Diritto non fa altro che formalizzare i rapporti di forza all’interno della società, gli articoli del codice penale contengono, come loro rovescio, le lotte. Con queste note vogliamo analizzare sia il piano generale della legislazione “antiterrorismo” in Italia sia gli aspetti più specifici dell’ultima operazione in Trentino.

La magistratura ha, almeno dagli anni Novanta, una difficoltà: applicare gli impianti associativi all’informalità anarchica. L’eredità giuridica è l’“associazione sovversiva” già presente nel codice fascista. Il ministro della Giustizia Alfredo Rocco – giurista dello Stato totalitario e poi razziale – aveva di fronte le forme organizzative del movimento socialista, comunista e anarchico. Definire l’“associazione sovversiva” come «legame formalmente distinto dai singoli partecipanti» rispondeva sia all’esigenza di fare cadere nelle maglie dell’attentato alla sicurezza dello Stato la combattività operaia sia alla possibilità di forzare in tal senso l’associazionismo proletario e rivoluzionario: comitati centrali per le forme autoritarie e commissioni di corrispondenza per quelle libertarie. Cariche elettive, liste di associati, organi fissi attraversavano sia il mondo sindacale sia quello più propriamente sovversivo. Sullo sfondo c’erano ancora i caratteri dell’Internazionale e del cospirazionismo risorgimentale. Il livello del conflitto sociale, poi, rendeva particolarmente espliciti programmi rivoluzionari e intenzioni insurrezionali. Gli anarchici, in particolare, avevano la necessità di precisare – nella pubblicistica e nella propaganda di piazza – in cosa una rivoluzione sociale fondata sul ruolo propulsivo di una minoranza agente e sulla libera autorganizzazione delle masse si distinguesse radicalmente dalla “conquista dei pubblici poteri” – che questa avvenisse attraverso la schermaglia parlamentare oppure grazie al colpo di mano in stile bolscevico. Se non tutti gli anarchici si riconoscevano nelle forme permanenti di organizzazione, l’accusa di “associazione di malfattori” li aveva colpiti indistintamente già in epoca liberale – nella quale, peraltro, i tentativi insurrezionali erano dei fatti e non solo degli orientamenti teorici e propagandistici. Il fascismo, dal canto suo, non aveva certo il problema di rispettare formalmente gli articoli del codice. Quando si arriva a fondare il tribunale speciale per la difesa dello Stato, sotto il maglio della repressione cade ogni forma di dissenso (abbia questo le forme del partito comunista o dell’arcipelago anarchico, dell’agitazione di fabbrica o della cospirazione di Giustizia e Libertà). Per tale motivo il codice Rocco si può permettere formulazioni formalmente più garantiste e, tutto sommato, più oneste. Più garantiste perché l’“associazione” colpita deve essere “idonea” a sovvertire lo Stato (non basta, cioè, la mera intenzione); più oneste perché ai sovversivi si contesta di volere cambiare con la violenza un determinato ordine sociale, economico e politico, di cui lo Stato è il gendarme. Si pensi, ad esempio, al reato di “istigazione all’odio fra le classi”, con il quale il legislatore riconosce la natura classista della società.

Non solo l’ “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” – introdotta dalla democrazia con la “legge Cossiga” del 1980 (art. 270 bis) – aumenta le pene in modo significativo rispetto all’“associazione sovversiva” di epoca fascista, ma mistifica fino al parossismo la realtà. Vera e propria cerniera di questo passaggio è la nozione di “terrorismo” (è sempre nella “legge Cossiga” che compare l’articolo 280: “attentato con finalità di terrorismo”). Cade il riferimento ad un preciso ordine sociale – classista e statale – e spunta il pericolo per una generica popolazione che non si distingue in nulla e per nulla dallo Stato. Come nel Leviatano di Hobbes – distopia totalitaria come poche –, la popolazione è il corpo dello Stato e il governo la sua testa. Va da sé che tutto ciò non è una problema di giurisprudenza, ma la solidificazione di una controrivoluzione dispiegata in tutti gli ambiti («una seminagione a piene mani di infamia, indegnità e corruzione», sintetizzarono bene alcuni compagni all’epoca). Così come risulta piuttosto chiaro che questa pretesa totalitaria del sistema demo-capitalista è stata favorita dal ruolo neutro attribuito allo Stato sia dalla socialdemocrazia sia dallo stalinismo (lo slogan del PCI «il proletariato salverà lo Stato» è stato probabilmente il più punto più alto e più ignobile di questo ieri che anticipa così bene il nostro oggi). Ancora negli anni Settanta – quando la “lotta armata” era la prospettiva dichiarata da tutta la sinistra extraparlamentare – in qualche dizionario in circolazione si poteva trovare la seguente definizione di “terrorismo”: «uso indiscriminato della violenza al fine di conquistare, consolidare o difendere il potere politico».

Nulla, insomma, che si potesse applicare al movimento rivoluzionario (né alle sue componenti autoritarie, che pur mirando alla conquista del potere politico non adottavano pratiche di violenza indiscriminata, né, tanto meno, a quelle libertarie, che negavano entrambe le caratteristiche del “terrore”). D’altronde, “terrorismo” è una parola inventata da Babeuf nel 1792 proprio per denunciare la repressione generalizzata attuata dal governo di Roberspierre e soci. Si può dire che il capovolgimento di senso della nozione di “terrorismo” – vòlto alla mostrificazione del sovversivo – è stato anticipato e accompagnato dallo stragismo statale attuato grazie alla manovalanza fascista. Prima di diventare la falsa rappresentazione del conflitto rivoluzionario, il terrorismo è stato un vero piano dello Stato. Fallito l’esperimento iniziale – le bombe di piazza Fontana da attribuire agli anarchici –, ci volle un decennio di mistificazione democratica operata soprattutto dal PCI e dalla CGIL, senza scordare ovviamente la martellante propaganda mediatica e il consistente lavoro dell’industria culturale (dalla saggistica alla letteratura, dal teatro al cinema). Fondamentale fu il ruolo dell’opportunismo e della falsa coscienza interni al movimento rivoluzionario. Le pratiche armate – teorizzate da tutte le formazioni extraparlamentari, non solo attraverso gli slogan roboanti, ma con congressi, giornali, volantini – divennero di punto in bianco una follia, un’aberrazione, la negazione del “creativo biennio 1968-’69”. Scomparvero i sabotaggi, l’“antifascismo militante”, gli attacchi a padroni e capetti, il “prendiamoci la città” per creare le “basi rosse” della “guerra di popolo”, le accese discussioni nelle fabbriche, nelle scuole, nelle osterie a proposito dei “compagni combattenti”, di questa o quella azione, persino di questo o quel ragionamento presente nei documenti di rivendicazione. Il punto, qui, non è ragionare sugli obiettivi e le modalità organizzative delle strutture armate, ma sottolineare il passaggio per cui dei “compagni” diventano dei “terroristi”. Il cambiamento avvenne poi anche a livello di giurisprudenza. Non solo, come si è detto, aggravando le pene, ma anche rendendo meno rigida rispetto al codice fascista la definizione di “associazione”. Se la struttura della maggior parte dei gruppi combattenti rientrava nelle griglie della “banda armata”, l’“associazione sovversiva con finalità di terrorismo” (passato il teorema hobbesiano per cui Stato e società civile sono la stessa cosa) serviva ora per allargarsi all’autonomia e via via a chiunque praticasse – anche senza sigle, dirigenti, bollettini di collegamento – il sabotaggio, la rappresaglia proletaria, l’esproprio. Ovviamente questa storia non è separabile dal piombo poliziesco, dalle carceri speciali, dalla tortura (e nemmeno dall’abiura e dalla delazione). La stessa legge che nel 1980 introduce il reato di “terrorismo” prevede non a caso anche dei significativi sconti di pena per i “terroristi” che collaborano, per i “pentiti”.

Con il concetto di “contiguità”, tipico dello stalinismo e delle sue propaggini tribunalizie, si arrivò nello stesso periodo ad arrestare parenti, amici, semplici conoscenti. I fatti commessi evaporavano in una nuvola di Emergenza, lasciando a terra la sola cosa che interessasse allo Stato: sei un nemico o un amico della democrazia? Tipico della democrazia è negare ogni dimensione “politica” al conflitto rivoluzionario, per cui i reati diventano di mera criminalità, ma aggravati dal “terrorismo”, che ne aumenta esponenzialmente il prezzo. Questa panoplia di strumenti giuridici non scompare con una certa fase del conflitto sociale. Rimane, e si aggrava. Anzi, più s’infittisce il silenzio sulla cosa (la questione sociale, il conflitto di classe, la rivoluzione), più lo Stato può permettersi delle vere e proprie perle di ignominia: ad esempio inserire l’ostatività dell’accusa di 270 bis per l’ottenimento degli arresti domiciliari in un decreto… sugli stupri.

Dagli anni Novanta in poi le inchieste per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” colpiscono per lo più – ma certo non esclusivamente – gli ambienti anarchici informali. E qui emergono un po’ di grattacapi per Digos, Ros e magistratura. Come applicare una struttura che prevede stabilità, organigrammi, ruoli a quella galassia anarchica che rifiuta non solo di fatto ma anche per metodo i «legami formalmente distinti dai singoli partecipanti»? Le inchieste degli ultimi trent’anni sono il tentativo di aggiustare continuamente il tiro. Un certo giudice Marini – correva l’anno 1996 – non solo definiva l’anarchismo informale secondo il modello delle Brigate Rosse, ma doveva inventarsi anche una “Organizzazione Rivoluzionaria Insurrezionalista Anarchica” che, non esistendo, non aveva mai rivendicato alcunché. In modo non dissimile la Digos di Trento scriveva e parlava, ancora durante l’operazione “Ixodidae” del 2012, di un “Gruppo Anarchico Insurrezionalista Trentino” (di cui compare la menzione anche in quest’ultima inchiesta) per creare attraverso la magia degli acronimi ciò che non riesce ad afferrare nella realtà.

Nel frattempo, nel 2002, il Consiglio d’Europa adotta una “decisione quadro” sulla “lotta contro il terrorismo”. Grazie al clamore degli attentati jihadisti, gli Stati procedono ad affinare gli strumenti contro il conflitto sociale. Un affinamento, va detto, a carattere preventivo (i padroni sanno che il loro reame, apparentemente inscalfibile, scricchiola per le gigantesche contraddizioni che lo attraversano). I ministri della Paura italiani affermano che loro una legislazione “antiterrorismo” ce l’hanno già – il che chiarisce, a contrario, chi sia davvero il nemico –, ma ne approfittano per allungare, nell’arco di cinque anni, la lista dei “270”: dal bis al sexies. Già che ci sono, introducono anche il 280 bis: «atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi», applicabile – a differenza del 280 («attentato con finalità di terrorismo») – anche nei casi in cui non è possibile addurre il rischio per l’incolumità delle persone. Il passaggio più significativo è senz’altro quello rappresentato dal 270 sexies, che compare nel “decreto Pisanu” del 2005. Dopo l’«l’assistenza agli associati», l’«arruolamento» e l’«addestramento», è ora la volta delle «condotte con finalità di terrorismo», cioè di tutte quelle condotte che «costringono i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto». La vera domanda – a questo punto lo si sarà capito – non è: “cos’è il terrorismo?”. Bensì: “cosa fanno le lotte?”. Quando superano il livello tollerato e tollerabile – la cui asticella è invero sempre più bassa – della “protesta legittima” (leggi: inoffensiva) le lotte si oppongono a questa o quella opera, a questa o quella riforma, a questa o quella misura padronale. Finita l’epoca delle “grandi narrazioni” (come annunciato con servile entusiasmo dai teorici del post-moderno), i problemi si fanno più circoscritti e la durata del conflitto altrettanto: TAV, TAP, inceneritori, riforme delle pensioni e del lavoro, contratti di primo impiego, piani scolastici. Il passaggio dalla “protesta legittima” al blocco reale può essere repentino, le strutture organizzative assai fluide. Gli analisti stipendiati dal potere la chiamano non a caso «natura informale dei conflitti». Per questo la nuova definizione di “terrorismo” è tale da essere potenzialmente applicabile a tutti i movimenti di massa che esprimano un “NO” di una qualche consistenza. Bloccando ruspe e cantieri, o i magazzini di una multinazionale, cosa si fa se non costringere la controparte «a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto»? Rimarrebbe fuori dal “terrorismo” solo la protesta simbolica. Ma un conto è la lettera del codice e un conto è lo spirito dell’epoca. Lo Stato sperimenta queste nuove definizioni (che solidificano nel gergo burocratico-giudiziario un quotidiano lavorìo socio-culturale) contro alcune minoranze e a partire da determinati episodi. È ciò che è successo con i compagni “del compressore” per l’attacco al cantiere chiomontino del TAV. In sede processuale l’aggravante di “terrorismo” è caduta – grazie senz’altro alla mobilitazione di solidarietà –, ma la tendenza, come vedremo, è ormai quella di integrare le «condotte con finalità di terrorismo» sia nel 270 bis, sia nel 280 e 280 bis. Più ampio è il ventaglio delle “finalità di terrorismo”, più sovversivi riuscirò ad imprigionare. Più sposto l’accento sulle “finalità”, più la questione dei mezzi diventa irrilevante. Se “terrorismo” è costringere il governo o un partito o una banca a non fare quello che fa, poco importa che ad “incorporare” quel fine sia un martello, un petardo, della dinamite o una fucilata (l’aggravamento di pene specifico lo affido agli articoli del codice sulla fabbricazione, detenzione e trasporto di questo o quel materiale). Di pari passo l’“associazione sovversiva” salta a piè pari ruoli, organigrammi, permanenza nel tempo (la famosa “idoneità”) per coincidere con la semplice intenzionalità, cioè con il fatto stesso di volere mettere in pratica le idee anarchiche.

Siamo di fronte ad un accumularsi di repressioni selettive che hanno in comune il silenzio sulla cosa (le cause del conflitto, le sue ragioni specifiche e generali, il ruolo dello Stato ecc.). Pensiamo all’innalzamento delle pene per occupazione abusiva – con il problema della casa sempre più impellente per milioni di proletari – e per blocco stradale, come previsto dal “decreto sicurezza” targato Lega-5 Stelle. Per quest’ultimo il governo ha incassato il plauso del padronato della logistica, a conferma di quanto la maniera forte contro i picchetti sia stata pensata apposta per i facchini (e per i compagni). Vedremo che reazioni scateneranno i processi per blocco stradale contro alcuni pastori e compagni in Sardegna, data la vasta partecipazione a quella lotta che, come ogni altro conflitto reale, ha trovato nel blocco una delle sue forme più immediate e più semplici.

Veniamo ora all’analisi dell’“operazione Renata”, che in qualche modo riassume i passaggi descritti in precedenza. Ciò che non c’è nelle carte, ma che emerge in maniera piuttosto chiara dalla conferenza dell’“Antiterrorismo” convocata a Roma il giorno stesso degli arresti, è che, se l’inchiesta è locale, la regia è del Viminale. Non solo perché il PM titolare dell’inchiesta – Sandro Raimondi, “toga azzurra” molta amica di Alfano – è arrivato da Brescia pochi mesi prima; non solo perché le indagini sono state condotte in modo congiunto da Digos e Ros (caso inedito per il Trentino e raro in generale), ma perché essa si colloca come tappa di una repressione più ampia. Anche nel suo respiro locale, si tratta di un’operazione in due movimenti. L’“associazione sovversiva con finalità di terrorismo” viene contestata a quattro dei sette compagni arrestati. A fondare l’ipotesi associativa, a fianco di tre attacchi incendiari che polizia giudiziaria e PM vogliono attribuire ai compagni, e dell’accusa per alcuni di essi di aver fabbricato documenti falsi, compare un elenco di episodi (19, facenti parte di un più ampio corpo di 78) che sono – eccezion fatta per l’incendio di 16 auto delle Poste, quello di 9 mezzi dell’esercito e i sabotaggi ferroviari in occasione dell’Adunata degli Alpini – tutte iniziative di piazza. L’intento è evidente: far passare il 270 bis per i quattro al fine di coinvolgere poi tanti altri. La vecchia teoria sbirresca del “doppio livello” si inserisce nel progetto perseguìto da anni di ristrutturare sia il concetto di “terrorismo” sia quello di “associazione”. Se, come si diceva, “terrorismo” è costringere poteri pubblici o organismi privati a fare o non fare questa o quella cosa, allora diventa “eversivo” anche un presidio non annunciato davanti al tribunale di sorveglianza con scritte sui muri e vetrate. O il blocco di una trivella del TAV. O la manifestazione al Brennero contro le frontiere. O l’accoglienza di piazza riservata a Rovereto a Salvini. O i cortei contro Casapound. O il blocco di un treno in solidarietà con gli occupanti del rifugio Chez Jésus. Ma lasciamo la parola a Digos-Ros-PM-GIP: «Le azioni delittuose diurne e notturne passate in rassegna si connotano della violenza terroristica». Perché? Per il loro «reale impatto intimidatorio sulla popolazione, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza della collettività, tale da potenzialmente coartare le istituzioni nelle sue (sic) decisioni». Qui addirittura si applica agli anarchici il modello jihadista. L’«intimidazione della popolazione» non è nemmeno presentata come effetto secondario prodotto da chi vuole coartare le istituzioni, ma come mezzo prediletto per ottenere un tale scopo. Definire infame un tale teorema è poco. Per sostenere una tale logica bisogna entrare, come accennato sopra, in pieno Leviatano. Ecco la conferma: «forze di polizia», «aziende private che collaborano con lo Stato o organizzazioni internazionali», «sedi di forze politiche contrapposte e simboli dello Stato (come caserme e uffici giudiziari) appartenenti alle Forze dell’Ordine» diventano tutti «obiettivi indiscriminati» colpiti per «intimidire la popolazione». Come emerge da un passaggio della conferenza di Roma, gli stessi ponti radio-televisivi vengono presentati – non a torto, potremmo aggiungere – come «espressione della nostra democrazia». Il Leviatano democratico non ingloba soltanto le istituzioni e la popolazione in un sol corpo, ma incorpora, in un unico sistema, anche i dispositivi tecnologici che ne permettono la riproduzione sociale. Se questa è la nozione di “terrorismo” («una sorta di violenza privata contro i poteri costituzionali»), vediamo ora come si ristruttura quella di “associazione”. Nell’Ordinanza si legge che il 270 bis opera rispetto al 270 «una più accentuata regressione della punibilità del vincolo associativo fino allo stato della presunzione del pericolo per l’ordinamento democratico – tipica struttura del reato a pericolo presunto». Di conseguenza «non è necessaria la realizzazione dei reati oggetto … ma occorre l’esistenza di una struttura organizzata … da renderla almeno possibile». A scanso di equivoci: «Ne discende la teorica irrilevanza non solo dello accertamento della responsabilità [degli indagati] per reati collegabili all’oggetto sociale [l’“associazione”], ma della stessa commissione di reati del genere». Capito? Non servono le prove, e nemmeno i reati specifici. Basta che le condotte rendano «almeno possibili» le “finalità di terrorismo”. La nozione di “associazione” non solo si essenzializza (coincidendo di fatto con l’intenzionalità), ma si estende in un doppio senso. Il primo è che se affianco episodi di piazza a quelli notturni includo implicitamente nel reato associativo tutti coloro che hanno partecipato ai fatti di piazza (il secondo movimento annunciato nell’ordinanza, dai quattro a tutti gli altri). L’altro porta dal piano locale a quello nazionale e internazionale. Infatti, nell’ordinanza ci si imbatte ad un certo punto in un brusco cambiamento di soggetto. Si passa dall’“associazione” (contestata ai quattro) a una «struttura trentina che appare ormai contare su un numero elevato di adepti e comunque (sic) di mobilitarne numerose decine e che ha un’attività violenta pressoché continua e cadenzata nel tempo». Movimento successivo: la struttura trentina «si inserisce nella più ampia organizzazione di natura anarchica avente finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico». E qual è questa «più ampia organizzazione» se non il movimento anarchico d’azione diretta nel suo insieme (quel movimento che non si riconosce nelle strutture formali e di sintesi, ma che si organizza sulla base dell’affinità e dell’informalità)? Nel gergo dell’ordinanza: «operante in rete in gruppi cellulari chiamati “gruppi di affinità” attivi in Italia e in altre nazione (in particolare Grecia e Germania)». Il concetto di “rete” è volutamente ambivalente, indicando sia la dimensione orizzontale e fluida dei rapporti e dei collegamenti, sia Internet.

Che qualcuno agisca in Grecia e Germania per fatti repressivi o suggerimenti di lotta riportati su un sito anarchico di lingua italiana (o viceversa) rivelerebbe l’esistenza di una «organizzazione di natura anarchica avente finalità di terrorismo». Anche in questo caso, va tenuta presente la definizione europea di “terrorismo” (in parte contenuta, come detto, nel 270 sexies italiano). Se in Grecia compagni e una parte della popolazione impediscono ad una multinazionale di realizzare uno dei suoi progetti (cioè coartano la sua volontà) e anche in altri Paesi vengono colpiti gli interessi di quella multinazionale – il che può avvenire di giorno come di notte –, tutto rientra potenzialmente nelle maglie di questa pretesa “organizzazione”. È evidente il salto logico, assai simile alle “leggi scellerate” anti-anarchiche di fine Ottocento. Si tratta di una tendenza, ovviamente, presente come sfondo delle singole inchieste. Ma una simile ristrutturazione della giurisprudenza ha bisogno di conferme in tribunale, cioè di accumulare “precedenti”. Per questo nella grottesca conferenza di Roma si afferma che contro il “pericolo anarco-insurrezionalista” si vogliono coordinare tutte le Procure. Non c’è bisogno di essere delle Cassandre per prevedere altre operazioni e altri arresti – e un sempre maggiore coordinamento europeo. Si tratta del lato poliziesco-tribunalizio dei piani NATO per la contro-insorgenza. Una contro-insorgenza preventiva.

L’ultimo punto che vorremmo affrontare è l’importanza attribuita dagli inquirenti alla pubblicistica anarchica. È una costante. La relativa “novità” dell’“operazione Renata” in tal senso è che tutto – dai fatti specifici ai “proclami ideologici” – origina da un territorio circoscritto. La conferma che i quattro compagni accusati di 270 bis abbiano un “disegno eversivo” sarebbe la loro partecipazione alla redazione della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Il passaggio maggiormente incriminato tra le pagine della rivista è il seguente: «il cambiamento violento delle condizioni date, l’insurrezione armata contro l’ostacolo materiale – lo Stato – che impedisce ogni trasformazione reale è ancora oggi l’unica strada possibile verso la libertà. … ad aprire la strada verso l’anarchia è la rivoluzione sociale, di cui i tentativi insurrezionali – fino all’insurrezione vittoriosa – sono l’inizio possibile». Come si può notare, si tratta di un ragionamento tipicamente malatestiano. Si può forse dire che nella storia i processi rivoluzionari siano avvenuti in modo diverso? Se sostituiamo “comunismo” ad “anarchia” e aggiungiamo l’imbroglio di uno Stato da conquistare e spezzare contemporaneamente, non è forse quanto ha sempre sostenuto ogni corrente rivoluzionaria del socialismo? Basta avere in casa, non diciamo Stato e anarchia di Bakunin, ma Stato e rivoluzione di Lenin, per venir accusati di 270 bis? No, gli inquirenti sono democratici. In democrazia «si può – scrivono – persino propugnare l’abolizione dell’autorità costituita e accentrata». Si possono, insomma, ristampare tutti i classici che si vogliono e anche parlarne pubblicamente. Coloro per cui «non deve esservi spazio» (che significa? anche il carcere è uno “spazio”, per quanto angusto) sono quelli «che tendono a realizzare una rivoluzione violenta … o comunque ad esercitare violenza». Lorsignori sanno che la “rivoluzione violenta” (e quale rivoluzione storica non è stata violenta?) non è per domani mattina. Quindi basta “tendere” ad essa per essere dei “terroristi”. Ma anche questo rischia di essere un po’ fumoso. Più vicina, sempre vicina, è la “violenza”. Se farvi ricorso (anche solo per danneggiare le “cose” dello Stato e del capitale) apre le porte del carcere, cosa significa «propugnare l’abolizione di ogni autorità» in piena legittimità e con il permesso dei PM? Lasciamo ai lettori la tutt’altro che ardua sentenza. Persino Digos, Ros e magistrati sanno che una «insurrezione armata contro lo Stato» non è faccenda di quattro anarchici, e nemmeno di tutti gli anarchici messi insieme. È un fatto sociale di rilevanti proporzioni a cui le minoranze rivoluzionarie concorrono ma che non possono realizzare da sole. La “violenza”, invece, sì. Più o meno significativa, più o meno collegata ad un contesto, più o meno isolata, più o meno attrattiva, più o meno spontanea, più o meno organizzata, di giorno e di notte. E, visto ciò che si definisce come “terrorismo”, qualunque gruppo antagonista, qualunque segmento proletario, qualunque porzione di popolazione che non deleghi alle istituzioni le proprie istanze e che voglia incidere nella realtà si trova o si troverà ad “esercitare violenza”, cioè a contestare il monopolio della forza allo Stato e ai padroni. E con questo il cerchio si chiude.

Prima di lasciarli, non vorremmo privare lettrici e lettori di alcune perle contenute nell’ordinanza. Siamo, nonostante tutto, degli ottimisti.

«Va anche sottolineato che le azioni eversive riconducibili al movimento anarchico sono state in questo territorio molte più di quelle oggi elencate, solo che per le stesse non è stato possibile individuarne gli autori, grazie alle capacità degli stessi disottrarsi alla identificazione».

«Un gruppo di affinità già costituito è difficile da demoralizzare oscoprire: le possibilità di infiltrazione di agenti da parte delle forze statali sono pressoché nulle».

Noterella: Il tribunale del riesame del 13 marzo, pur non modificando le custodie cautelari per i sette compagni, ha riconosciuto l’insussistenza delle “finalità di terrorismo” contestate dalla Procura, derubricando il 270 bis a 270 (“associazione sovversiva”) e togliendo l’aggravante di “terrorismo” (280 bis) dai singoli episodi. Benché la Procura continui ovviamente a procedere per gli stessi capi di imputazione, il teorema di Digos e Ros comincia un po’ a vacillare. Leggendo le motivazioni del Riesame, tuttavia, si può cogliere, al di là delle loro argomentazioni “cerchiobottiste” (un po’ alla Procura, un po’ alla difesa), una sorta di suggerimento per il PM: “Lasciate perdere il 270 bis e il 280 bis, e puntate a portare a casa un’associazione sovversiva”. In un passaggio delle motivazioni, infatti, si parla della «impressionante quantità di condotte illecite riconducibili all’associazione di appartenenza». Evidentemente non si parla dei soli episodi contestati ai sette compagni e l’“associazione” va ben al di là dei quattro. Si insiste, insomma, sui reati di piazza come base per un 270.

Post-scriptum: Qual è il problema per i difensori armati e togati di questo ordine sociale? In un’epoca di pacificazione sociale – per lo meno a queste latitudini – interrotta da fiammate di piazza e dai “movimenti NO” (che lo Stato non sottovaluta, perché è costretto ad organizzarsi in prospettiva), gli anarchici sono tra i pochi che sostengono l’azione diretta, non lasciando cadere la fiaccola – foss’anche al lumicino – dell’attacco e del sabotaggio. Perché questo dà così fastidio? Sia per i danni immediati che arreca a singoli progetti statal-capitalisti con il loro gigantesco giro di affari, sia perché dimostra che il potere non è intoccabile. Si può pensare, per restare all’Italia, al fallimento di grandi esercitazioni militari – come la Starex in Sardegna – provocato da una mobilitazione promossa da compagni e compagne. Oppure alla decisione di Mistral Air di ritirarsi dal lauto mercato della deportazione di immigrati. In questo caso, sommandosi iniziative pubbliche davanti alle Poste ai sabotaggi di mezzi e strutture di PI, il danno economico si è associato a quello di immagine. Si può pensare, a seconda dei contesti, ai blocchi dei cantieri per questa o quella nocività che hanno visto la presenza di anarchici in prima fila, blocchi talvolta accompagnati o seguìti dal sabotaggio di ruspe e altri macchinari. Simili pratiche non solo hanno messo l’azione senza deleghe al centro del dibattito di pezzi più o meno significativi di quella che alcuni partigiani chiamavano «opinione pubblica clandestina», ma in qualche occasione hanno spinto le ditte collaborazioniste a ritirarsi dall’appalto (è successo, ad esempio, con la Land Service di Bolzano, incaricata di eseguire i sondaggi geognostici per il TAV in Trentino). Si può pensare ai danni arrecati sia a laboratori di ricerca bellica e ai mezzi militari, sia a quelli inferti alla rete di telecomunicazione e controllo, tutte strutture fondamentali per il dominio oggi. Si può pensare, ancora, all’incontro fra le rivolte degli internati nei CIE e la solidarietà attiva all’esterno (incontro non a caso al centro di diverse inchieste con relativi arresti), oppure alla lotta contro la “riqualificazione” di certi quartieri con tutti gli interessi che tale resistenza colpisce o ritarda.

Poca cosa, si dirà, rispetto alla sproporzione dei rapporti di forza. Non solo si può rispondere, con le parole del gappista Franco Calamandrei, che «bisogna lottare e lottare perché la sproporzione sia stroncata», ma giova capire che lo Stato osserva quel “poco” in prospettiva. Cosa che dovremmo fare anche noi. Parallelamente al piano “oggettivo” dei danni – e delle indicazioni che contengono, essendo anche queste ultime un “fatto” – esiste un piano “soggettivo”. Ci riferiamo al problema che è stato riassunto, in periodi storici ben più conflittuali, con l’immagine della “porta stretta”. Ci spieghiamo. Se in futuro il conflitto dovesse radicalizzarsi – ipotesi non peregrina visto lo sfacelo ecologico e sociale che questo ordine sta apparecchiando –, che compagni vi potranno prendere parte, e con quali prospettive? Quelli ancora liberi, si può rispondere in prima battuta. Ma liberi di fare cosa? La pratica dell’azione diretta è, al di là dei risultati immediati, anche formazione di soggettività, palestra di determinazione e affinamento di capacità che non si improvvisano dalla sera alla mattina. È vero ciò che sosteneva l’anarchico Gustav Landauer, e cioè che nelle epoche u-topiche – quando si spezza la topìa del potere – i rivoluzionari nascono per germinazione spontanea.  Ma è altrettanto vero che spesso questi ultimi si raccolgono attorno ai nuclei etici ed organizzativi che non hanno disarmato in precedenza. Quel filo di tenacia non spezzato può trasformare la diffidenza con cui si è stati guardati nel suo contrario. Per questo lo Stato colpisce gli anarchici: per ciò che rappresentano in potenza. Per mantenere quel filo – che è anche tensione utopica, «umanesimo integrale» – si devono attraversare in certi periodi delle porte molto strette. E tale è il nostro presente, che impone un salto di mentalità. Dobbiamo diventare una sorta di ossimoro vivente: spingere e durare, spingere-e-durare. Ci stanno riversando addosso tutto il controllo tecnologico di cui sono capaci. E, qualora non bastasse, si stanno attrezzando per metterci in galera non per dei fatti, ma per le nostre cattive intenzioni. E intanto stanno chiudendo sempre più gli spazi pubblici dell’incontro, della solidarietà, del conflitto. Trascurare di puntellarli, e di allargarli, quegli spazi, sarebbe un tragico errore. Perché ciò non avvenga le pratiche di resistenza e di attacco si devono intrecciare e la presa di parola caricarsi di forza, uscire dal generico, precisarsi. Per far questo si pagherà un prezzo (certe giornate di piazza possono implicare anni di carcere), per cui è necessario scegliere i diversi momenti con intelligenza (e nell’intelligenza rientra anche e soprattutto la virtù di saper cogliere la via del cuore, la linea dell’emozione collettiva). Occorre quello che in altre pagine di questa rivista si chiama «spirito fourieristico», sia nella capacità di tenere insieme metodi immediati e tensione utopica, rabbia visibile e preparazione nascosta, sia nell’armonia di passioni, “talenti”, attrazioni e corrispondenze diverse e diversificate, senza monolitismi esosi e impraticabili. La limitatezza delle singole iniziative e delle singole azioni può essere, a seconda del mosaico, una tessera di insoddisfazione o un piccolo pezzo incastonato in un’opera di lungo respiro. Un respiro il cui polmone è l’attacco.

la (dimezzata) redazione de “i giorni e le notti”

Fonte: roundrobin