Lecce – La lotta contro il Cpt Regina Pacis

“Se il percorso di opposizione e di lotta ai Cpt che si è provato a percorrere nel Salento può comunicare qualcosa, è che la ricerca e l’individuazione del nemico, pagano. La ricerca costante, caparbia e minuziosa di informazioni, intesa come primo passo per liberarsi dalla paura e passare all’azione”.

Quasi 10 anni sono passati da quando scrivevamo queste parole. Perché riproporle oggi? Perché in esse è contenuto il senso di un agire che, per circa tre anni, ha animato la lotta contro un centro di internamento per immigrati senza documenti: il Regina Pacis di San Foca, a pochi passi da Lecce. Primo centro ad essere istituito nel 1998, con la legge Turco-Napolitano, ha chiuso i battenti nel marzo del 2005.

La scelta di focalizzare la nostra attenzione su quello che all’epoca era chiamato Centro di Permanenza Temporanea è stata dettata da una semplice considerazione: in quanto anarchici, ritenevamo – e riteniamo – intollerabile l’esistenza di luoghi di segregazione e di privazione della libertà di esseri viventi. Partendo da questo assunto fondamentale, abbiamo iniziato ad approfondire la questione dei flussi migratori e del loro contenimento, e abbiamo cercato di dotarci degli strumenti, teorici e pratici, per affrontarla, saccheggiando gli scritti degli accademici e discutendo i testi di approfondimento di altri compagni che, meglio di noi, avevano iniziato ad analizzare la questione. A ciò, abbiamo aggiunto determinazione e fantasia. Nel corso del nostro procedere ci siamo schiariti le idee e l’orizzonte delle prospettive si è manifestato nettamente. Dalla iniziale contestazione a quello che definivamo lager, siamo giunti alla consapevolezza che esso non solo doveva, ma poteva essere chiuso, ed abbiamo cercato di percorrere le strade che potevano portarci a raggiungere questo risultato, che sono state molteplici. Molteplici, ma non contraddittorie, in quanto orientate da quelle convinzioni che servivano a illuminare il nostro cammino: l’autogestione della lotta, la conflittualità permanente e l’attacco diretto.

Consapevoli di non essere soli al mondo, abbiamo cercato di estendere la lotta e l’inimicizia verso i lager in generale e quello di San Foca in particolare, ma tenendo ben fermo il timone su quello che era il nostro metodo. Non esserci riusciti non ha impedito che continuassimo da soli il nostro percorso, sebbene in pochi, a volte pochissimi, ma consapevoli che ciò che andava ad incidere sulla lotta era esclusivamente il suo aspetto qualitativo, e non già quello quantitativo. È un particolare che sarebbe bene tenere sempre in mente, perché ciò che può fare la differenza non sono i numeri degli oppositori, bensì le loro idee, che generano le pratiche.

Anche un altro aspetto, oggi molto presente nelle lotte contro i Cie, all’epoca non è stato per noi centrale, ed è quello del rapporto con chi subisce l’internamento. Per noi l’opposizione non nasceva dalle pessime condizioni di vita che vigevano al suo interno o dalla violenza di chi lo gestiva – condizioni che pure, inevitabilmente, pesavano –, ma dalla natura stessa di quel luogo. Eppure, nonostante la mancanza di rapporti, se non sporadici, tra noi fuori e loro dentro, ciò non ha impedito che si sviluppasse una lotta comune. Comune, non una lotta assieme, perché non c’è dubbio che i fastidi che si progettavano e concretizzano fuori andavano inevitabilmente a dialogare con le rivolte e le evasioni che si realizzavano dentro. In un non combinato dialogo a distanza, i fili delle lotte si annodavano, andando a comporre una unica e più estesa opposizione al centro.

In questo opuscolo sono raccolti gran parte dei testi – volantini, manifesti, scritti vari – che sono stati prodotti in quegli anni, e che rispecchiano ciò che anche noi, in quegli anni, eravamo. Oggi alcune cose probabilmente non le scriveremmo più, ed altre le scriveremmo in modo differente, ma tant’è… Non vogliono testimoniare o commemorare una inesistente vittoria contro nulla; pensiamo solo che riproporli possa rappresentare un eventuale, possibile spunto per lotte a venire.

(Alcuni) Nemici di ogni frontiera

Il Regina Pacis deve chiudere. Lotta ai Cpt nel Salento

Perché i CPT come obiettivo di una lotta

La scelta di portare avanti una lotta continuativa contro i CPT in generale e contro quello salentino – il Regina Pacis – in particolare, è maturata nella necessità di concentrare a lungo termine le energie su un unico obiettivo, al fine di dare concretezza e tangibilità alla lotta stessa.

Tale lotta non si è sviluppata comunque in maniera esclusiva, né specialistica, né settoriale, poiché essa ha incorporato in sé la convinzione che i CPT e la repressione che ruota attorno ad essi, sono solo una delle espressioni della violenza statale e del dominio sul territorio, espressione che in Puglia ha trovato ampio spazio: essendo infatti questa zona da sempre terra di frontiera, non è un caso che su di essa sorgessero quattro CPT (attualmente ve ne sono tre). La presenza di strutture di questo tipo in Puglia e nel Salento ha fatto sì che la zona si trasformasse da terra di transito per le genti che arrivavano dall’est, e non solo, in zona di permanenza coatta, con un conseguente ed ovvio incremento della militarizzazione e del controllo sociale che, di fatto, ha coinvolto tutti.

Ammassare degli individui nei CPT ha comportato inoltre un notevole impatto mediatico sugli abitanti locali, con la conseguente creazione dell’immigrato come nemico nell’immaginario sociale e relativo scontro con gli sfruttati del posto. Questi infatti, cedendo alla convinzione di trovarsi di fronte ad una invasione di disperati, hanno teso ad identificare gli immigrati come una enorme riserva di manodopera a basso costo pronta a sottrarre loro il già scarso lavoro e come criminali sempre pronti a delinquere, avallando di fatto la propaganda razzista mediatica e statale che crea il capro espiatorio verso cui indirizzare le proprie ansie e le proprie paure per evitare di identificare accuratamente il reale problema. Con l’“allarme terrorismo” degli ultimi anni, il “pericolo arabo” e dello straniero in generale, tutto ciò è stato notevolmente amplificato.

Nella realtà dei fatti, occuparsi di lotta ai CPT, alle espulsioni e a tutto ciò che vi ruota attorno, non è una mera questione umanitaria, né una forma di democratico antirazzismo o di terzomondismo che identifica i migranti come nuovo soggetto rivoluzionario, ma significa riconoscersi e solidarizzare con individui che vivono le nostre stesse condizioni di sradicamento e sfruttamento ed iniziare ad attaccare una particolare struttura del potere. Non vi è dubbio infatti che la militarizzazione di interi quartieri, i rastrellamenti, i controlli sempre più serrati e le condizioni di vita e di lavoro sempre più odiose che vengono imposte, coinvolgano allo stesso modo sia gli immigrati – regolari o irregolari cambia poco –, sia gli sfruttati locali.

Quando e come è iniziata la lotta

L’istituzione dei CPT (oggi CIE) in Italia (nel 1998) ha mutato la destinazione del centro Regina Pacis di San Foca, gestito dalla curia leccese; esso aveva trovato il pieno della sua attività, già un anno prima, in seguito all’arrivo in massa di profughi albanesi. L’edificio era stato utilizzato in precedenza come colonia estiva per bambini, sempre gestita dalla stessa Chiesa, rimanendo poi in stato di abbandono per diversi anni. Questo suo antico utilizzo, spiega il motivo per cui la struttura architettonica di questo centro, fosse molto diversa da quella dei CIE di recente costruzione o ristrutturazione, molto più simili a delle carceri vere e proprie. In virtù di ciò il Regina Pacis ha subìto negli anni così tante modifiche strutturali, da non poter più nascondere la sua reale natura, nonostante lo sforzo dei suoi gestori, dei media e di vari politici, di continuare a spacciarlo per un centro di accoglienza; in continuo aumento sono state infatti le misure di sicurezza, militarizzazione e blindatura dell’edificio.

Lo stato di reclusione di coloro che sono passati dal centro di San Foca, è trapelato man mano all’esterno e questo ha creato sempre maggiore interesse e attenzione verso questo luogo.

Dal 2001 è iniziata così una prima diffusione di materiale di controinformazione teso a spiegare la reale funzione del Regina Pacis e la trasformazione, imposta dal potere economico e statale, del fenomeno migratorio da naturalmente presente sul territorio a fenomeno invasivo da arginare e reprimere. A ciò si sono accompagnate iniziative che hanno visto coinvolte anche altre realtà antagoniste, svolte sia sull’onda degli avvenimenti che riguardavano coloro che vi erano internati (esplosione di malattie contagiose, scioperi della fame, richieste di interventi al fine di non essere rimpatriati in zone di guerra o nelle quali rischiavano la morte, situazione denunciata in primo luogo dai curdi), sia in seguito all’allargarsi della questione a livello nazionale, sia per il verificarsi di vertici o incontri di capi di Stato che avevano come tematica il controllo dei flussi migratori.

Agli inizi del 2002, la diffusione di uno scritto in Italia da parte di alcuni compagni sulla tematica migratoria e la sua configurazione da parte della propaganda razzista, ha offerto lo spunto per l’avvio di una campagna costante e consapevole, che ha riconosciuto sul proprio territorio, ciò che è stato descritto a livello generale. Da allora, i banchetti informativi, i volantinaggi e i manifesti sono diventati uno strumento di primaria importanza, non solo per continuare a smascherare il ruolo di gendarme che il Regina Pacis svolgeva come parte fondamentale di un meccanismo di reclusione ed espulsione degli indesiderati stranieri, ma anche per contrastare la criminalizzazione dello straniero in quanto tale, nonché per spiegare il rapporto strettissimo tra economia e “clandestinizzazione” degli individui, col fine di ottenere ingenti quantità di forza lavoro altamente ricattabile (veri e propri schiavi moderni). Inoltre, essi sono stati strumento utile a levare il velo su quali fossero i reali interessi che muovevano la curia leccese, o in generale i vari enti, a gestire un posto del genere, interessi ovviamente in primis di natura economica, dato che lo Stato paga una cospicua retta giornaliera per ogni immigrato recluso, retta che varia a seconda dei CIE, e che per quello salentino era tra le più elevate. A conferma di ciò, vi è il fatto che la Fondazione Regina Pacis sia diventata negli anni una vera e propria multinazionale della “carità”, aprendo un centro in provincia di Mantova e ben cinque (l’ultimo inaugurato il 7/9/2004) in Moldavia, occupandosi praticamente di tutto, dal “recupero” delle prostitute ai bambini di strada ai profughi. In una intervista il direttore della Fondazione affermava che la Moldavia produceva ogni anno diecimila clandestini, a riprova di quanto essi fossero considerati merce.

Come è proseguita la lotta

I CIE non sono solo chi li gestisce. Per quanto banale, questo è un dato di fatto fondamentale, e se all’apparenza questi luoghi, e ciò che ad essi è collegato sembrano intoccabili ed inattaccabili, in realtà non lo sono, perché sono costituiti da strutture, uomini e mezzi. Questo dato elementare è stato sviluppato mediante la raccolta di informazioni su coloro che collaboravano con esso, aziende o singoli che vendevano la loro opera e i loro servizi, o che erano dipendenti a vario titolo della Fondazione: operatori, impiegati, medici, sbirri, responsabili, elettricisti, imprese fornitrici, e via dicendo. Accanto a tale attività, si è incrementato il numero di presidi di solidarietà sotto le mura del centro, in particolare in seguito all’intensificarsi delle rivolte interne e dei tentativi di evasione, riusciti o meno.

Nel corso del tempo è cresciuto anche il numero di persone coinvolte nella lotta, le azioni dirette e i metodi di critica. Il Salento ha quindi visto l’aumento di banchetti informativi, volantinaggi, attacchinaggi, scritte murali e dei momenti di contestazione in occasione di interventi pubblici dei responsabili del centro, o vertici istituzionali sull’immigrazione; oltre a ciò, anche il verificarsi di anonimi attacchi incendiari, e non solo, ad istituti di credito che gestivano il denaro della Fondazione o ad altre strutture coinvolte a vario titolo con essa.

L’osservazione e lo studio dell’operato svolto dalla curia leccese e dalla Fondazione Regina Pacis, hanno inoltre portato ad identificare delle attività collaterali che, pur se non direttamente correlate al CPT stesso, erano comunque portate avanti dalle stesse persone ed erano un anello della stessa catena, anello che, come nel caso del “Progetto Marta”, permetteva a costoro di darsi una immagine di benefattori, attraverso la raccolta e la distribuzione di cibo a senza casa, poveri e anche immigrati.

L’aspetto meno riuscito della lotta, è stato senza dubbio quello di non riuscire a coinvolgere i maggiori interessati dal problema CPT ed espulsioni, e cioè gli immigrati residenti nel Salento, nonostante alcuni tentativi; ciò è accaduto probabilmente sia per una nostra mancanza di continuità nel cercare rapporti con essi, sia per la loro difficile posizione per cui più facilmente ricattabili e perseguibili dalle forze di polizia.

Finalità della lotta

Chiudere il Regina Pacis. Questo è stato senza dubbio il principale obiettivo, e nonostante alcuni naturali momenti di rilassamento, non vi è stata tregua fino a che ciò non è avvenuto. Non è bastata la repressione manifestata in maniera intensa, attraverso fermi, denunce, cariche durante i presidi, botte ed arresti, a fermare la lotta, anzi; semmai essa ha solo aumentato il livello dello scontro e trascinato la Fondazione Regina Pacis al centro di polemiche sempre più aspre. Verso la fine del 2004 alcuni rappresentanti della curia leccese, diffusero la notizia che dal 2005 la Fondazione non intendesse rinnovare la convenzione con lo Stato italiano come CPT, ma che volesse trasformare la sua struttura in un centro di accoglienza. Al massimo però si poteva parlare di convertire il Regina Pacis in Centro di prima Identificazione, cosa comunque piuttosto strana dato che tali centri sorgevano principalmente in zone di arrivo dei migranti, e la Puglia non lo era più, come affermato anche dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, e che un centro di questo tipo era già presente ad Otranto. In ogni caso i Centri di prima Identificazione, erano anch’essi un ingranaggio del perverso meccanismo che prevedeva la reclusione e la cacciata degli indesiderabili stranieri. Così, mentre molti “oppositori” più o meno istituzionali vantarono il proprio ruolo e la propria figura come fondamentale per la chiusura del Regina Pacis, è necessario affermare che tanti sono stati i motivi. Probabilmente infatti il gioco non valeva più la candela, e i problemi cominciavano a superare gli introiti di chi magari preferiva “investire” ormai lontano; a parte la notevole e costante pressione della lotta che comunque la curia leccese e il Regina Pacis indubbiamente hanno subito, è da considerare anche la cattiva immagine che costoro ormai avevano acquisito, sia per via di un processo in corso a loro carico, per pestaggi ed altro nei confronti di un gruppo di magrebini, sia per le numerose evasioni e rivolte che particolarmente nell’estate del 2004 hanno smascherato meglio di tutto la reale natura del centro e posto il problema dell’esistenza di quella struttura in quel particolare luogo, in una zona di mare ad alta vocazione turistica. Per tale motivo, anche il sindaco del comune su cui sorgeva la struttura era arrivato a chiedere che il CPT fosse spostato da San Foca, anche se certo non per questioni ideologiche o umanitarie. Ad ogni modo, le pressioni sono state tante, ed anche l’ala meno reazionaria della Caritas era contraria al fatto che la curia leccese gestisse un posto simile.

Dal 2003 al 2008, inoltre, è stato realizzato e diffuso un bollettino specifico sul tema delle espulsioni, dal titolo “Tempi di guerra”, frutto dell’incontro tra vari compagni in tutta Italia e che è stato strumento utile di raccolta dati, corrispondenze dalle lotte, approfondimento.

In seguito alla chiusura del Regina Pacis è stato costruito, sempre in Puglia, un nuovo CIE a Bari San Paolo, che sostanzialmente ha rimpiazzato il CPT di San Foca. Anche da questo posto, numerose sono state le fughe e i tentativi di fuga, nonostante la struttura, completamente nuova e sita presso la cittadella della Finanza, sia esattamente un carcere di massima sicurezza.

Nota a margine

Nel marzo 2005 il Regina Pacis ha definitivamente chiuso i battenti. Pochi giorni più tardi il suo direttore, don Cesare Lodeserto è stato arrestato con l’accusa di sequestro di persona a danno di alcune donne immigrate che si trovavano nel CPT per un programma di recupero delle prostitute previsto dalla legge sull’immigrazione. Da allora ha affrontato vari processi, con accuse, tra le altre, di truffa e violenza privata. Così la curia leccese ha pensato di fare di lui un missionario in Moldavia, dove la Fondazione Regina Pacis, gestisce numerosi centri. Per i suoi più acerrimi nemici, lo Stato ha riservato l’accusa di eversione dell’ordine democratico, così alcuni compagni hanno scontato alcuni anni di detenzione preventiva per fatti legati alla lotta contro il Cpt. Dopo la condanna in primo grado per associazione a delinquere e non per terrorismo come richiesto dall’accusa, nei confronti di quattro compagni, la condanna per reati minori per altri tre e l’assoluzione per tutti gli altri, vi è stata la sentenza d’Appello che ha condannato tutti e dodici gli imputati per associazione sovversiva semplice, escludendo anche qui il terrorismo. Il reato specifico che, secondo i giudici ha fondato l’associazione sovversiva, è stato quello di istigazione a delinquere per le manifestazioni svolte dai compagni presso il lager di San Foca e durante le quali, in due occasioni, vi sono state rivolte e tentativi di evasione da parte degli immigrati all’interno. In seguito la Cassazione (ultimo grado di giudizio) ha rinviato il procedimento alla Corte d’Appello di Taranto affinché si pronunciasse nuovamente non ravvisando corretta l’imputazione di associazione sovversiva. Il 24 febbraio 2016 la Corte di Appello di Taranto ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere poiché tutti i reati sono andati in prescrizione, compreso il reato di associazione a delinquere in cui è stato derubricato quello di associazione sovversiva. Rimane la condanna per associazione sovversiva per uno degli imputati originari che non ha fatto ricorso in cassazione. Intanto “il benefattore” Cesare Lodeserto sconterà la sua pena al servizio dei disabili…

[Il testo integrale senza gli aggiornamenti e senza la nota a margine è stato pubblicato su “Terra Selvaggia” n.15, ottobre 2004 – Aggiornato nel luglio 2014, nell’ottobre 2015 e nel marzo 2016].

Acqua e fuoco

Nel corso di varie iniziative che si svolgono nel Salento, capita spesso di ritrovarsi a manifestare insieme a riformisti di ogni tipo, e spesso si litiga con questi pompieri che richiamano alla compostezza ogni ribelle che cerca di uscire dal loro modo dormiente di manifestare.

Nell’autunno 2001 il Lecce Social Forum indice un presidio davanti al CPT “Regina Pacis” a San Foca. Nel corso di tale presidio alcuni compagni lasciano segni tangibili della loro rabbia sui muri e su alcuni automezzi di proprietà del centro di detenzione per immigrati clandestini; il gesto viene subito condannato dagli organizzatori e più tardi dalle TV locali, con un’intervista a quell’assassino di Mons. Ruppi, uno tra i principali sfruttatori della speranza in questa zona di frontiera. Ma un minuto prima delle scritte, non si stavano cantando slogan di pace e libertà? Ma quei muri e quelle auto non erano quanto di più disgustoso possa fare l’uomo?

I richiami di questi pompieri sono continuati anche in altre occasioni, magari solo per riprendere dei compagni che urlavano “Assassini” agli sbirri: in fondo per il pompiere l’importante è solo avere un po’ la coscienza pulita e vantarsi della sua militanza. Ma non tutti proviamo la stessa rabbia, sempre che di rabbia si possa parlare per chi con gli assassini ci parla magari per informarsi se almeno le mozzarelle che portano ai reclusi nel Regina Pacis sono fresche… Da subito, ovviamente, tutte queste commedie hanno aperto un solco incolmabile tra noi e loro.

In futuro, magari, per non fare partire dei lavori sulla spiaggia di Sant’Andrea, a Melendugno (che è stata messa in vendita!) servirà un’occupazione del cantiere, o per contrastare le espulsioni servirà molta, molta determinazione, e allora di tutti questi pompieri non si vedrà neanche l’ombra, se la gente si unirà e sapremo creare un movimento orizzontale fuori dalle logiche di delega e addomesticamento; un movimento dove le persone siano considerate persone e non numeri da portare in giro ed esibire ai presidi e alle manifestazioni; un movimento dove chiunque possa esprimersi come più gli garba, senza timore di essere ripresi da questi maestri della militanza.

Ho citato solo i fatti relativi al Regina Pacis perché quel posto deve crollare con gli immigrati fuori e don Cesare e i suoi soci dentro.

Solidarietà a tutti gli esseri viventi rinchiusi nelle gabbie.

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 0, novembre 2002]

La libertà non si mendica!

[Nell’ambito di una serie di iniziative informative aventi per tema l’immigrazione e i centri di permanenza temporanea, per sabato 3 agosto 2002 avevamo chiesto l’autorizzazione per l’occupazione del suolo pubblico sul lungomare di San Foca (LE) per esporre la mostra, il banchetto con il materiale informativo e per volantinare. Prima avremmo tenuto un sit-in davanti al centro di detenzione. Il primo agosto dal Comune e dal corpo dei Vigili Urbani ci comunicano che è tutto a posto.

Quando arriviamo (una quarantina di compagni da Lecce, Taranto e Bari) troviamo un cordone di polizia che ci impedisce di arrivare al centro di detenzione. Dopo alcune discussioni e qualche spintone, decidiamo di non forzare, perché non tutti sono d’accordo, e continuiamo la nostra protesta al di qua del cordone. Ma gli immigrati rinchiusi nel centro non riescono a vederci. La sera ci spostiamo sul lungomare ma anche lì vengono per cacciarci, ci opponiamo e alla fine ci lasciano stare, con la Digos che ci controlla a pochi metri.

La presa per il culo non ci è piaciuta, decidiamo quindi di ritornare il sabato successivo senza chiedere o comunicare alcunché. Così il 10 agosto torniamo davanti al centro arrivando dalla spiaggia, visto che il lager “Regina Pacis” si affaccia sulla costa.

Appena arrivati, coloro che lavorano nel centro pensano bene di portare dentro i loro furgoni, dato che noi ci siamo fermati proprio davanti al loro parcheggio e visto che tempo prima mani ignote avevano vergato scritte sui loro mezzi. Un albanese che lavora nel centro parte a gran velocità e sta per mettere sotto uno di noi. Oltre all’albanese parecchi altri operatori del centro escono a provocare in vario modo, anche dei volontari giunti da Torino (ragazzi dall’animo nobile, evidentemente…). Nel frattempo arrivano sbirri in notevole quantità dai loro alloggi (due alberghi a 50 metri dal centro); sono lì da qualche anno, dai tempi dell’“Operazione Primavera”, per pattugliare le coste. Comunque la presenza sotto il centro di detenzione è proficua: tanti bagnanti si sono avvicinati ed hanno solidarizzato con noi e con gli immigrati reclusi nel centro che urlavano per la gioia. Parlandogli in francese molti hanno capito il motivo per cui eravamo lì. Gli sbirri, da parte loro, hanno messo i loro blindati davanti ad un cancello dietro cui c’erano diversi immigrati rinchiusi, affinché non ci vedessero e, probabilmente, anche per nasconderli alla vista dei bagnanti.

Prima di andare via, poi, è arrivata anche una televisione locale, i cui operatori sono stati cacciati. Il giorno dopo sul giornale è uscito un trafiletto che riportava la notizia, ovviamente in maniera distorta.

Il 15 agosto usciva sul giornale un altro articolo, dai toni terroristici, in cui si dava la notizia che per tutta la giornata precedente il Regina Pacis era stato presidiato da carabinieri e polizia in tenuta antisommossa, poiché erano attesi diverse centinaia di contestatori che, a loro dire, avrebbero dovuto sfasciare il centro di detenzione. Venivano citati anche stralci di un volantino distribuito precedentemente. Probabilmente le forze dell’ordine, dall’alto della loro idiozia, si sono confuse, dato che noi avevamo presentato una richiesta di manifestazione per il 14 settembre, esattamente un mese dopo. Manifestazione che peraltro non abbiamo più fatto, visto che se lo sarebbero aspettato.

Infine, la mattina di sabato 31 agosto, verso le 9.00, per protestare contro il diniego dei permessi da parte dell’Amministrazione comunale per la giornata del 3 agosto 8 persone hanno interrotto la seduta e occupato il consiglio comunale che si teneva a Melendugno. I manifestanti hanno spiegato le motivazioni per cui erano lì (distribuendo e leggendo un volantino), hanno aperto uno striscione e suonato delle trombe da stadio.

Dopo alcuni minuti, dato che il consiglio non riusciva ad intervenire per interromperli, sono stati chiamati i vigili; è seguito qualche attimo di tensione quando uno di loro ha prima tentato di strappare lo striscione dalle mani dei manifestanti e successivamente minacciato e tentato di aggredire due di questi. I manifestanti hanno lanciato in aria dei volantini e sono poi usciti, continuando a volantinare ai passanti, sino a quando non sono intervenuti i carabinieri che hanno provato ad identificare gli otto. Siccome questi protestavano per fatti comunque riguardanti i clandestini, che i documenti non li hanno, si sono rifiutati di consegnarli anche loro, anche quando sono stati avvisati che sarebbero stati trattenuti in caserma per 24 ore. Tutto ciò è andato avanti per un bel po’, sino a quando una ragazza ha consegnato un documento. Dopo l’identificazione di questa, la folla di 8 persone è andata via.

Quello che segue è il volantino che è stato distribuito.]

L’organizzazione dell’attuale struttura societaria si basa sempre più sull’autoritarismo, la gerarchia, la delega e la repressione. Succede così quindi che per poter esprimere le proprie opinioni, manifestare il dissenso, sostare in una piazza o davanti ad una casa di reclusione per immigrati diventi argomento da dibattere innanzitutto con gli organi preposti ad autorizzare o meno determinati comportamenti. Probabilmente, in un futuro non troppo lontano, saremo costretti a chiedere – e forse a mendicare – permessi anche per poter pensare con la nostra testa, per poter passeggiare in strada o per poter fumare all’aria aperta!

Considerando che la madre degli imbecilli è sempre gravida, e che tanti possono incontrarsene – soprattutto in un’aula consiliare – , chiariamo brevemente i fatti.

Nell’ambito di alcune iniziative informative sulla questione immigrazione organizzate da qualche individualità (affinché questo non sia argomento esclusivo dei vari “specialisti” e pennivendoli), per non trasgredire alle valide regole democratiche che sono fondamenta della nostra civile società, era stata inoltrata domanda per l’occupazione di pochi miseri metri quadrati di suolo pubblico sul lungomare della marina di San Foca e comunicato che alcune decine di persone avrebbero sostato per un paio d’ore davanti alle mura, grondanti di sangue innocente, del centro di permanenza temporanea “Regina Pacis” per manifestare solidarietà ai reclusi, sempre in località San Foca: tutto questo, previsto per la data del 03 agosto 2002. Due giorni prima di tale data, in seguito ad una telefonata fatta in Comune, ci veniva garantito che tutto era in ordine e che un vigile ci avrebbe portato le autorizzazioni il giorno stesso delle iniziative.

Venendo meno al nostro naturale scetticismo quando si ha a che fare con dei politicanti, buoni solo a riscaldar poltrone, ci siamo maldestramente fidati, col risultato di trovare una volta giunti davanti al “Regina Pacis” un cordone di poliziotti che ci ha sbarrato la strada, impedendoci di svolgere la nostra manifestazione, e subito dopo trovando dei vigili troppo ligi al loro dovere che hanno provato – stavolta inutilmente – a cacciarci dal lungomare, per evitare di diffondere la nostra idea riguardo la miserabile pratica di rinchiudere degli esseri viventi dietro sbarre e alte mura, soprattutto perché è controproducente farlo in estate, quando i turisti vogliono solo divertirsi sfruttando al massimo la loro vacanza intelligente. La cosa ovviamente non ci ha meravigliato: ben conosciamo i compiti degli sgherri in uniforme, servi dei potenti e difensori dei privilegi di pochi a scapito della sofferenza dei più. Semplicemente, da buone persone quali siamo, ci ha un po’ infastidito, tanto che abbiamo pensato bene di manifestare le nostre rimostranze per l’accaduto tornando la settimana successiva, senza nulla chiedere alle autorità INcompetenti e senza comunicare alcunché ai cani da guardia di turno; lo abbiamo fatto nella maniera più semplice, prendendoci quanto, di diritto, ci tocca! E, pensate un po’, neanche ci dispiace per la bile versata da un prete abietto che specula sulla disperazione di tanti esseri umani e per aver disturbato gli sbirri dalle loro attività e riposi, che sono dovuti accorrere di corsa a difesa dello sfruttatore di turno. Anzi, se oggi siamo qui, è proprio per avvisarvi di ciò. Siamo qui per dirvi che da oggi in avanti non verremo più a bussare ai vostri uffici, non verremo più a chiedere qualcosa alla vostra autorità, che non riconosciamo e che anzi disprezziamo, ma che ogni qualvolta ci andrà di pensare e di dire qualcosa, e di fare e di manifestare qualcos’altro, lo faremo senza preoccuparci di nulla; siamo qui per avvisarvi che in seguito a quanto accaduto abbiamo deciso di riprenderci le strade e le piazze che appartengono a noi, e non certo a voi che pensate di poter o meno dare il permesso di usufruirne, come primo passo per riprenderci finalmente e completamente il controllo delle nostre vite.

Nemici di ogni frontiera (e di ogni giunta comunale)

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 0, novembre 2002]

Il vero volto dell’accoglienza

Il 3 novembre 2002, l’Arcivescovo di Lecce Mons. Cosmo Francesco Ruppi, terminava la sua visita pastorale nel comune di Monteroni. Una visita pastorale durata quindici giorni nel corso della quale ha incontrato praticamente tutti: dagli artigiani ai commercianti, dalle forze dell’ordine agli ammalati, dagli amministratori fino, ovviamente, ai fedeli delle varie parrocchie. Sembra che gli unici che l’Arcivescovo non ci tenesse ad incontrare fossero gli anarchici. Ma come si dice: se la montagna non va da Maometto…

Ultimo appuntamento che Monsignore teneva a Monteroni era la celebrazione della messa nella chiesa matrice del paese, ed è proprio al di fuori di questa che un pugno di individui ha deciso di attenderlo, per spiegare alla gente presente in piazza e successivamente a coloro che uscivano dalla chiesa, quale persona spregevole sia in realtà l’Arcivescovo, proprietario del CPT per immigrati “Regina Pacis”, gestito per mano del suo braccio destro nonché segretario.

È stato così che nella piazza è stata allestita una mostra sui CPT, sono stati aperti striscioni e distribuiti centinaia di volantini, parlando al megafono.

Nel frattempo sono intervenuti numerosi sbirri, dai vigili urbani ai carabinieri di Monteroni, fino alla Digos leccese, che con diversi pretesti hanno cercato invano di fermare la protesta e di identificare i manifestanti, riuscendoci solo con uno.

A conclusione della messa, l’Arcivescovo ha rinunciato ad affacciarsi sul sagrato per l’ultimo saluto ai fedeli, è uscito dal retro della chiesa ed è fuggito, percorrendo strade in senso vietato scortato dai carabinieri, suscitando così l’ilarità dei presenti. Per la fretta di allontanarsi, l’autista è salito su un marciapiede, rompendo la coppa dell’olio dell’automobile su cui viaggiavano; il vescovo ha così dovuto farsi accompagnare dai carabinieri e la sua auto è stata rimorchiata dal carro attrezzi.

In seguito a tale protesta, i carabinieri hanno convocato e si sono presentati a casa di due compagni presenti in piazza quella mattina, col tentativo di intimorire e carpire informazioni sugli altri manifestanti.

Il volantino che segue è uno dei volantini distribuiti quella mattina.

Lo stesso volantino è stato affisso sui muri di Lecce nei giorni successivi, ed il Vescovo per mezzo del suo avvocato ha presentato un esposto in procura per ravvisare eventuali estremi di reato (quali calunnia e/o diffamazione).

[Volantino]

Caritatevole accoglienza: ecco come burocrati, preti e politicanti pretendono di fare apparire l’infame pratica di recludere in veri e propri lager come il Regina Pacis di San Foca, gli indesiderati in attesa di espulsione che non rientrano nelle “quote di immigrazione” degli imprenditori nostrani. Perché bisogna ben dirlo: l’immigrato è una merce (come tutti del resto); gli imprenditori definiscono le caratteristiche di ciò che comprano, lo Stato raccoglie i dati, la polizia esegue le retate, i carcerieri vigilano sugli individui rinchiusi affinché non siano liberi di muoversi autonomamente.

I centri di questo genere sono luoghi costituiti da alte mura, filo spinato, sbarre alle finestre, telecamere e guardiani tutto intorno; infatti, benché presentati come luoghi in cui viene praticata l’accoglienza e la solidarietà, sono in realtà centri di detenzione in cui coloro che vi finiscono restano solo in attesa di essere cacciati dalla ricca società occidentale, nella quale c’è posto solo per chi ne è parte integrante e ingranaggio utile al suo funzionamento. Eccola, la tanto sbandierata accoglienza…

Sua Eccellenza, Monsignor Cosmo Francesco Ruppi, è parte integrante e diremmo addirittura fondamentale di questo perverso meccanismo, essendo egli il gestore – per mano del suo scagnozzo Don Cesare Lodeserto – della galera “Regina Pacis” di San Foca, in cui vengono rinchiusi uomini, donne e bambini “colpevoli” solo di essere sbarcati sulle nostre coste per fuggire da condizioni di vita odiose, ma di non avere in tasca un documento d’identità: è solo questo infatti che rende questi esseri umani “clandestini”.

Il Vescovo si nasconde dietro l’apparente e rassicurante facciata di benefattore dell’umanità, riuscendo a raggirare molte persone in buona fede, ma dietro questo suo aspetto palesemente falso si nasconde in realtà un criminale senza scrupoli, un essere meschino oltre ogni limite, sfruttatore della speranza e profittatore della disperazione di migliaia di esseri umani, che egli considera solo carne da macello da usare per arricchirsi quanto più possibile durante il periodo di reclusione, in attesa di rispedirli nel loro paese di provenienza ad incontrare nuovamente la fame, la guerra, la miseria, le malattie, lo sfruttamento: tutte condizioni che noi stessi, dall’altra parte del mare, abbiamo contribuito a creare; a tutto ciò, si aggiungano anche le migliaia di persone morte in mare nel corso dei vari “viaggi della speranza”, tra i cui responsabili morali possiamo aggiungere senz’altro Monsignor Ruppi e il suo degno compare Don Cesare Lodeserto, criminale della stessa risma.

Additiamo quindi questi due avvoltoi e tutti quanti svolgono il loro stesso ruolo come nostri nemici, sentendoci a fianco, nei fatti, degli sfruttati che sbarcano sulle coste del nostro Paese, consci che è il capitalismo ad accomunare sempre più le nostre vite all’insegna della precarietà e dell’impossibilità di decidere del nostro presente e del nostro futuro. Per cui se comuni sono le condizioni di sfruttamento, comune allora può farsi la lotta, sulla base del rifiuto di una vita ogni giorno più spossessata e precarizzata.

Nemici di ogni frontiera

Vertice di terroristi

Nei prossimi giorni, ed esattamente mercoledì 13 novembre [2002], la città di Lecce ospiterà 11 terroristi.

Loro si fanno chiamare Ministri dell’Interno ma noi, da persone semplici quali siamo, amiamo chiamare le cose con il loro vero nome… Più esattamente, Lecce è la città prescelta per l’incontro fra 11 pericolosi criminali che rappresentano altrettante Nazioni dell’area adriatico – jonica, Italia compresa, e sede di tale incontro sarà il castello Carlo V.

Già tale notizia dovrebbe essere sufficiente a farci sobbalzare dalla sedia e a farci preparare ad opporre a tutto ciò, o quantomeno ad invogliarci a far sapere a costoro che cosa ne pensiamo noi di loro e dei loro vertici; ma c’è dell’altro, perché questi uomini di potere non solo s’incontreranno, ma dovranno anche discutere, e quando degli uomini di potere parlottano tra loro c’è da preoccuparsi, perché è certo che stanno tramando qualche complotto ai danni della gente comune.

Questi undici lugubri figuri in doppiopetto saranno a Lecce per discutere, come da loro stessi stabilito in una riunione tenutasi a Trieste il 29 ottobre scorso, “le misure più urgenti da adottare per potenziare il Piano di Allerta e Reazione Rapida contro l’immigrazione illegale”. Come già si evince dal gergo militaresco da loro stessi adottato, dovranno discutere di come porre rimedio in maniera rapida ai continui arrivi sulle coste del Bel Paese – e salentine in particolare – da parte di migliaia di sfruttati, esclusi da qualsiasi privilegio e dal diritto a condurre una esistenza decorosa nelle loro terre d’origine, diritto negato loro – che sia chiaro – dal ricco Occidente che vuole solo sfruttarne le risorse ed i mercati.

A dire il vero a noi sembra che tali misure i Governi le abbiano già prese da tempo, e sono di vario genere, ma tutte facenti capo alla stessa; dall’affondamento di carrette del mare per mano di navi militari che presidiano i “nostri” mari, ai naufragi causati dalle cattive condizioni meteorologiche, dagli esseri umani morti per mano di scafisti senza scrupoli che non esitano a buttarli a mare, a tutti coloro che riescono a sbarcare ma vengono per questo braccati, rinchiusi, ed infine espulsi, tutto ciò fa parte della stessa identica misura adottata: l’esibizione di un documento d’identità. È solo per la mancanza di questo, infatti, che individui disperati tentano quotidianamente di arrivare sulle nostre coste con i mezzi più disparati e rischiando la propria vita.

Ma, i potenti, parleranno anche d’altro…

Discuteranno del “potenziamento delle polizie dei vari Paesi e di una maggiore collaborazione tra di esse”. In pratica si stanno preparando per servirci in tavola sempre più polizia, sempre più controllo, sempre più repressione, con conseguente restringimento delle nostre già risicate libertà individuali e collettive, ma per farlo in maniera indolore hanno bisogno che la gente accetti queste misure, pur se a malincuore, e quindi gli immigrati, i “clandestini” che sbarcano sulle nostre coste sono il giusto capro espiatorio, il giusto nemico pubblico per farci sentire – nel nulla dell’attuale stile di vita – parte di un qualcosa, per la precisione per farci sentire membri di un fantasma chiamato Nazione, e per questo in qualche modo superiori ai “nuovi barbari” che sbarcano sulle nostre coste.

E discuteranno, costoro, anche “dell’importanza dello sviluppo del commercio e degli investimenti internazionali nella zona”. Come sempre. Come è stato finora, parleranno di come far fruttare i loro denari e quelli dei loro amici industriali ed imprenditori; di come incrementare i loro guadagni spremendo le genti di tutti i paesi, sfruttando gli esclusi di sempre (ridotti al lavoro salariato e costretti ad accettare condizioni di vita e di sfruttamento sempre peggiori), grazie all’incredibile sviluppo tecnologico che ha permesso il decentramento produttivo ed alla globalizzazione dei mercati, per cui se produrre qualcosa in un posto non è più conveniente, semplicemente ci si sposta, lasciando così una scia di milioni di persone a cui non rimane null’altro da fare che fuggire. E sono, queste, le stesse persone nei confronti delle quali “adottare le misure più urgenti per potenziare il Piano di Allerta e Reazione Rapida”.

Un cerchio che si chiude, semplicemente. Con noi nel mezzo.

Nemici di ogni frontiera

[Novembre 2002]

Partire è un po’ morire…

Contrariamente a quanto afferma il vecchio adagio, partire per molti significa sempre più spesso morire del tutto. Ed in maniera definitiva…

Questo è valido ovviamente per quanti partono spinti dalla disperazione, e tentano di raggiungere le coste salentine con i mezzi più disparati e del tutto inaffidabili. A farne le spese, in tempi recentissimi, sono stati sette albanesi mai sbarcati sulle coste del bel paese, quattro dei quali sono stati ripescati senza vita pochi giorni fa nei pressi dell’oasi WWF delle Cesine; questo naturalmente stando a quanto ci è dato di sapere, senza contare le decine di persone inghiottite ogni anno dal mare e di cui non si viene a sapere nulla. Le rassicurazioni fornite a tutti i sinceri democratici da un essere meschino come Alfredo Mantovano – che alcuni insistono a definire “onorevole”-, sul fatto che dallo scorso agosto nessuno sbarco c’è stato sulle coste salentine, a dimostrazione di quanto bene stiano funzionando gli accordi presi con i governi degli altri Paesi del Mediterraneo, trovano nelle notizie che si susseguono una tragica conferma: nessun “clandestino” è effettivamente sbarcato da allora nel Salento, per un motivo molto semplice: perché, in vari modi, si è sempre riusciti ad annegarli prima!

Negli stessi giorni in cui il mare restituiva gli ennesimi corpi senza vita, milioni di voci si levavano ad urlare “Pace!”, quasi che la guerra sia solo quella che vediamo oggi in tv. Ma la guerra che in molti credono scoppiata ora è in realtà in corso da molto tempo, è la guerra che il Capitale, l’Economia, i Governi, hanno dichiarato all’umanità; quella che vediamo ora in Iraq, ieri in Afghanistan e domani in un altro posto ancora, è solo la sua manifestazione più palese e più virulenta, ma le bombe cadono ogni giorno anche nei nostri giardini, anche se sembriamo non accorgercene.

L’Italia si dichiara “Paese non belligerante”, ma nella realtà anch’essa come ogni Stato partecipa a questa guerra perenne, sin da quando sono stati delimitati territori e definiti confini, e lo fa più che mai ora che deve difendere non più solo i propri confini, ma quelli di tutta l’Unione Europea dagli “invasori”, ecco il perché della sempre maggiore recrudescenza della guerra ai danni di tutti gli indesiderabili che vengono a bussare alle sue porte, e di riflesso anche a tutti coloro che già si trovano oltre quelle stesse porte.

Lo Stato italiano ha da tempo dichiarato guerra a queste genti attraverso le sue leggi, e lo ha fatto a prescindere dal tipo di colore che fosse alla sua guida; ha dichiarato guerra con Turco e Napolitano, ed ha incrementato le sue rappresaglie con Bossi e Fini. Conduce la sua guerra ogni giorno per mano dei suoi gendarmi, attraverso le retate e le deportazioni di centinaia di persone per rendere le “Vie Libere”. È responsabile di una spietata caccia all’uomo, giustificata con i motivi più futili, come può essere la vendita di qualche cd riprodotto, secondo un copione che negli ultimi tempi a Lecce si è visto fin troppo di frequente, con vigili e poliziotti che si sono lanciati in veri e propri inseguimenti ai danni di alcuni immigrati. Il governo italiano ha istituito i suoi campi di concentramento – espressione di ogni conflitto – ma per mascherarne la reale natura li ha chiamati “centri di permanenza temporanea”, ed ha piazzato i suoi servi a gestire questi campi, ma per non farli sembrare ciò che sono ha pensato bene di sostituire in alcuni di essi, come per quello di San Foca, l’uniforme nazista con l’abito talare, due facce della stessa medaglia che spesso nel corso della storia sono andate a braccetto.

Ora che la guerra è scoppiata anche nel suo aspetto più visibile, uniformi e tonache sono tornate a scrutare attentamente l’orizzonte, dichiarandosi entrambe pronte a gestire l’emergenza: i primi puntando i loro fucili nell’attesa di vedere apparire il nemico, i secondi sfregandosi le mani aspettando quegli uomini da trasformare in soldoni… Anche noi, da parte nostra, dovremmo prestare attenzione per non farci trovare nuovamente impreparati. Perché se alcuni “sinistri” figuri gongolano nel veder lavorare la magistratura, sperando nella condanna di chi ha fatto sparire centinaia di milioni di lire con un gioco di prestigio, o di qualche operatore o sbirro responsabile di violenti pestaggi, noi – che non vogliamo galere per nessuno -, dobbiamo adoperarci per sbarazzarci delle guerre, fittizie e manifeste, e di tutto quello che vi ruota attorno: le retate, le deportazioni, i gendarmi, i campi di concentramento, i servi che li gestiscono, i confini, le frontiere… e per farlo abbiamo un solo modo: dichiarare noi la guerra alla società, agli Stati, al Capitale, all’Economia; noi, sfruttati dei Governi che da troppo tempo alimentano tutto ciò, insieme agli sfruttati che tentano di raggiungere le nostre coste, tutti vittime della medesima guerra.

Nemici di ogni frontiera

[4 aprile 2003]

Assassini!!!

[A inizio gennaio 2004 venticinque albanesi muoiono nel tentativo di raggiungere le coste italiane a bordo di un gommone. In seguito a questo episodio, veniva diffuso a Lecce questo volantino.]

L’ennesima strage si è compiuta nel Mediterraneo, l’ultima di una lunghissima serie che da anni insanguinano i mari che circondano l’Italia. Ancora una volta si sono levate alte le voci di pietà di tutta la società civile; ancora una volta si sono alzati cori di sdegno da parte delle varie forze politiche; ancora una volta giornali e tv si sono scagliati ferocemente contro il racket che organizza i cosiddetti “viaggi della speranza” e contro gli scafisti senza scrupoli.

Ancora una volta, degli esseri umani in cerca di una esistenza da vivere dignitosamente ci hanno rimesso la vita: tutti si indignano, ma allo stesso tempo distolgono l’attenzione e si guardano bene dall’indicare i reali responsabili di queste tragedie che si susseguono intorno alle nostre coste.

Eppure, anche quando non ci sono autori materiali – come invece successo con l’affondamento della nave albanese Kater I Rades nel ’97 –, i mandanti di questi omicidi sono fin troppo facili da individuare. Si tratta degli Stati, dei governi e degli organismi preposti a loro difesa e a loro tutela. Ogni volta che un essere umano muore in questo modo, colpevoli sono gli Stati che hanno eretto barriere per respingere i diseredati che tentano di varcarne le frontiere; colpevoli sono i governanti che hanno stretto accordi bilaterali per condannare i poveri a morire della loro povertà, e a morire nel loro Paese d’origine; colpevoli sono gli eserciti che portano la guerra e la morte in Paesi lontani per impadronirsi, controllarne e sfruttarne le risorse; colpevoli sono le forze di polizia che si adoperano per respingere, braccare e catturare quanti da quei Paesi martoriati fuggono; colpevoli sono, infine, coloro che qui da noi si occupano di rinchiudere questi uomini e queste donne in attesa di riempire un aereo o una nave e ricacciarli nell’inferno da cui erano fuggiti.

La verità è trasformata nel suo rovescio. Tentano di far passare la Marina Italiana come un corpo eroico che ha salvato undici naufraghi, quando in realtà sono gli assassini che hanno perpetrato la morte di almeno 25 uomini e donne solo nell’ultimo naufragio; ma d’altra parte provano anche a far sembrare i morti di Nassiriya come dei martiri caduti per portare la pace, quando in realtà erano solo dei terroristi morti nell’adempimento del loro sporco lavoro: quando si accetta di giocare alla guerra, bisogna anche accettare di morire! E invece le lacrime per questo manipolo di criminali si sono sprecate… Ci dispiace non aver partecipato al loro lutto nazionale, ma i nostri occhi piangono lacrime per ben altre persone, i nostri occhi piangono per questi sconosciuti, nostri fratelli, morti in mare…

Non sappiamo per quanto tempo ancora ci toccherà piangere, sappiamo che siamo stanchi di farlo.

Ma sappiamo anche che limitarsi alle lacrime e alla commiserazione non basterà certo ad evitare che molte altre morti seguano quelle degli ultimi giorni. Bisogna attivarsi concretamente per porre fine a tutto ciò, smascherare l’imbroglio dietro cui nascondono la verità, urlare con quanto fiato abbiamo in corpo ciò che per noi, Stati e governi, sono realmente: assassini!

Nemici di ogni frontiera

Del terrorismo, di molti imbecilli e di altre cose…

[L’11 luglio 2004 durante un presidio all’esterno del CPT Regina Pacis, gli immigrati internati danno vita ad una rivolta, danneggiando pesantemente la struttura e distruggendo gli arredi; uno di loro tenta di evadere. Le forze dell’ordine reagiscono con cariche e rincorrendo i manifestanti sulla spiaggia; una compagna cade e subisce una grave frattura mentre un altro compagno viene arrestato.]

Come al solito, quando un episodio viene a turbare la pace sociale imposta e un piccolo granello di sabbia inceppa, seppure in maniera impercettibile, gli ingranaggi del dominio, le reazioni dei burattinai che tirano le fila di questa marcia società incancrenita non si fanno attendere, e si manifestano per mano e per bocca dei loro burattini più fedeli e servili: sbirri e giornalisti. Due facce di una stessa medaglia, essi si compenetrano e sono complementari tra loro, l’esistenza e lo sporco lavoro dei primi non sarebbero completi senza quelli dei secondi, e viceversa: rappresentano essi il braccio armato e la bocca fetida di uno stesso padrone: lo Stato. Esso rappresenta il cuore, ed è lì che bisogna colpire.

Il terrorismo vero, quello che storicamente appartiene agli Stati, domenica 11 luglio e nei giorni successivi si è manifestato in maniera palese a coloro che ancora non hanno due spesse fette di prosciutto sui propri occhi, e si è manifestato dapprima con violente cariche e pestaggi da parte degli sbirri nei pressi del Regina Pacis, e poi attraverso l’enorme campagna di terrorismo mass mediatico attuata da tutti i giornali e le tv che hanno raccontato i fatti.

Domenica 11 luglio, così come abbiamo fatto altre decine di volte, in poco più di una dozzina ci siamo recati sotto le mura del lager Regina Pacis per portare la nostra solidarietà e fare sentire il nostro calore a chi era internato, e per diffondere un volantino ai bagnanti che spiegasse loro cosa sia realmente quel posto; uno striscione, slogan, dei fumogeni per farci notare e discorsi fatti al megafono sono stati sufficienti ad infiammare gli animi dei reclusi, che dall’interno hanno iniziato a sfasciare tutto ciò che materialmente negava loro la libertà – non a caso iniziando dalle finestre sbarrate – e a lanciare tutto di sotto e contro coloro che erano i loro guardiani. Non occorrono molte parole: tra sfruttati, tra esclusi di ogni razza e colore le barriere non esistono, ci si riconosce a pelle e le distinzioni tra italiani e stranieri, “liberi” e internati, bianchi, neri, clandestini, arabi, mussulmani o atei sono solo termini vuoti e insignificanti.

Un uomo domenica ha provato a fuggire dal lager, senza purtroppo riuscirci ed anzi venendo picchiato violentemente per averci provato, ed a quel punto gli sbirri hanno caricato. In una caccia all’uomo sulla spiaggia, tra i bagnanti che parteggiavano quasi tutti per la legge, questi inutili uomini protetti dalla divisa hanno picchiato selvaggiamente una compagna che si è rotta un ginocchio ed un altro compagno, hanno manganellato tutti ed insultato le donne, infine hanno tratto in arresto un altro compagno. A questo punto, terminato il compito del terrorismo poliziesco, gli è subentrato quello mediatico.

Chiunque sia ancora in possesso di un minimo di intelligenza critica dovrebbe almeno chiedersi come fanno i vari giornalisti a parlare di fatti a cui non hanno assistito, arrivando sul luogo ore dopo l’accaduto, se non riportando unicamente le versioni che gli sbirri gli consegnano. È così che le mistificazioni e le falsità prendono consistenza e divengono “reali”. Non una notizia, non una parola di quanto è stato detto e scritto in questi giorni corrisponde all’accaduto, e non c’è da aspettarsi diversamente da chi è incapace anche di riportare correttamente l’esatto numero dei manifestanti o addirittura l’età dell’arrestato!, e da chi tace del pestaggio selvaggio di un prigioniero che ha provato a fuggire per parlare delle presunte ferite di un paio di sbirri.

Continuano a chiamare i posti come il Regina Pacis “centri di accoglienza” quando in realtà la loro stessa legge li definisce in maniera diversa, perché essi altro non sono che carceri in cui finiscono coloro che sono in attesa di espulsione semplicemente perché sprovvisti di permesso di soggiorno.

È stato detto e scritto di uno o più“assalti”, “arrembaggi” che ci sarebbero stati al CPT da parte dei manifestanti, con “lancio di spranghe e sassi”, e che è stato questo a scatenare le cariche: tutto assolutamente falso. Non che la prospettiva mi dispiaccia, sia chiaro, anzi farò del mio peggio affinché il giorno in cui raderemo al suolo quella struttura arrivi quanto prima, solo in quella circostanza non era nelle nostre possibilità farlo, e ci tengo a chiarire come realmente sono andate le cose, per non lasciare che le menzogne di chi è abituato a mentire per mestiere diventino verità.

Pura invenzione è anche la notizia dei “lacrimogeni tra i bagnanti” o delle “forze dell’ordine all’inseguimento di alcuni extracomunitari in fuga protetti dagli anarchici”, così come il fatto che i bagnanti siano stati terrorizzati dai manifestanti in fuga e non invece da carabinieri con pistole, manganelli, caschi e scudi; gli stessi lettori di cotanta “montagna di merda” – come già più volte abbiamo fatto notare – dovrebbero sentire offesa la loro intelligenza.

Riguardo al fatto che noi si sia “presunti anarchici”, come scritto per ben sette volte nel corso di un solo articolo, vorrei tranquillizzare il “presunto giornalista” – reale servo e pennivendolo – che anarchici lo siamo per davvero, ed invitarlo educatamente a valutare meglio quanto scrive.

Qualche parola vorrei poi spenderla nei confronti dei parlamentari entrati nel Regina Pacis a seguito dell’accaduto, che hanno socializzato amorevolmente col direttore del posto ed hanno affermato che i reclusi che hanno causato la rivolta erano tutti ex detenuti, facendo passare una rivolta collettiva di gente esasperata come il gesto isolato di un solo gruppo di criminali, e dimenticando che coloro che vengono da pene detentive sono stati incriminati molto spesso proprio per lo stesso motivo che li ha portati in quel posto: la mancanza di un documento o il possesso di documenti falsi. Ma d’altra parte, non c’è nulla di cui meravigliarsi dagli stessi burattinai che dirigono le fila di sbirri e giornalisti, e che tra l’altro sono gli stessi che hanno creato le strutture quali il Regina Pacis.

Infine, rivolgo un pensiero a tutti gli esponenti di vario colore politico che hanno espresso solidarietà ai gestori del lager, a coloro che salutano con gioia l’operato di don Cesare Lodeserto, agli stessi don Cesare e vescovo Ruppi, a tutti gli operatori e complici che contribuiscono a fare andare avanti il Regina Pacis, allo sbirro Gabriele Mario che accusa il compagno arrestato di averlo colpito, ai tanti giornalisti che hanno fatto il loro solito sporco lavoro – la maggior parte dei quali non ha avuto neanche il coraggio di firmare i propri articoli – e a tutti coloro che hanno approfittato dell’accaduto per buttare merda sui compagni che da tempo lottano per la chiusura dei lager. Sappiano, costoro, che gli anarchici hanno la memoria lunga.

Sappiano, lorsignori, che gli anarchici non dimenticano…

Un anarchico non presunto

Una montagna di merda!

“Non parliamo per dire qualcosa, ma per ottenere un certo effetto.”

Goebbels

Che gli scribacchini di regime siano da sempre servili, leccaculo e proni nei confronti dei poteri forti è cosa risaputa, ma che le loro menzogne passino impunemente, non possiamo certo permetterlo.

Chi avesse avuto la sventura di ascoltare un TG o leggere un quotidiano locale qualche giorno fa, in seguito alla contestazione dell’aguzzino Ruppi mentre celebrava una messa in una sede universitaria, tutto avrà potuto apprendere meno che una pur minima sembianza di verità. In questo senso, la frase del Ministro della Propaganda nazista sopra riportata, è indicativa di quanto i tempi non siano cambiati poi tanto. D’altra parte, è difficile scrivere qualcosa di almeno veritiero quando non si è presenti e si riportano le veline degli sbirri. Perché questo è in realtà accaduto: nessuno era presente, ma tutti si sono sentiti in dovere di dar vita ad un fastidioso chiacchiericcio. Crediamo quindi importante fare chiarezza su quanto realmente avvenuto.

Tanto per iniziare, non eravamo in otto e sullo striscione non era scritto quello che hanno riportato i servi della carta stampata, e sì che uno sbirro si è premurato di trascriverne il contenuto e che lo stesso striscione sia stato anche più volte fotografato in passato; ma d’altra parte neanche ci aspettiamo che uno sbirro sappia contare o sappia scrivere!

Che sia intervenuta la polizia ad allontanarci è cosa altrettanto falsa; con buona pace di coloro che chiedono più controlli e più polizia per sentirsi più sicuri, possiamo tranquillamente affermare che, se lo avessimo voluto, saremmo potuti andare via prima dell’arrivo degli sgherri; invitiamo quindi gli onesti contribuenti che amano essere spiati nel vuoto delle loro misere vite, ad esprimere le proprie rimostranze per il tardivo intervento della polizia e per quello ancora più tardivo della Digos, probabilmente disturbati mentre pranzavano. Inoltre, il loro tutt’altro che tempestivo intervento non ci ha certo impedito di continuare a volantinare, megafonare, esprimere il nostro sdegno e chiarire i motivi per cui eravamo lì, come invece gli sbirri si sono affrettati di fare apparire.

Quello che in particolare ci teniamo a chiarire poi, è che non siamo andati a trovare il caro Monsignore semplicemente per fare “una chiassata” e neanche abbiamo contestato la gestione del Regina Pacis – come scritto e detto sempre dai vari scribacchini. Il motivo per cui siamo andati a trovare il rispettato Vescovo, è perché questi altro non è che uno sciacallo a capo di una vero e proprio lager in cui vengono deportati esseri umani che hanno la sola colpa di non avere i documenti in regola, lager di cui non contestiamo la gestione – perché non lo vogliamo più umano o più colorato –, ma pretendiamo la chiusura e la distruzione.

Oltre agli scribacchini, altre disgustose persone hanno ritenuto opportuno dare fiato ai denti. In primis don Cesare Lodeserto, segretario del Vescovo e direttore del lager, che ha detto di noi che siamo quelli che “agiscono nel buio dei senza volto”; nella realtà siamo andati a rendere la nostra visita di cortesia di giorno e tutti hanno potuto ben vedere chi fossimo, e ci sembra al contrario piuttosto autobiografica la sua affermazione, essendo invece lui un bastardo capace solo di agire nel buio di un luogo chiuso quale è il lager che dirige per calpestare la dignità umana e compiere abusi di ogni genere. Noi, da parte nostra, saremmo anzi ben felici di poterlo incontrare di persona per un piacevole scambio di opinioni, nel chiarore di chi ha un volto… Oltre a lui, nello stesso buio di cui parla agiscono i giornalisti, che non han neanche la decenza di firmare i loro articoli.

Un ultimo pensiero vogliamo riservarlo ai professionisti della contestazione che da anni appestano l’aria della nostra città e che ancora una volta hanno perso una buona occasione per tacere. Che non fossero al corrente di quanto sarebbe stato fatto è cosa ovvia, non ritenendoli nostri compagni di strada ed avendo desideri ed aspirazioni ben diversi; che la nostra visita al Vescovo non crei consenso sinceramente ci importa poco, non facendo noi biechi calcoli elettorali per fini utilitaristici, e se azioni come quella fatta siano opportune o meno, siamo noi che le compiamo a stabilirlo, senza bisogno di suggeritori.

Da parte nostra, possiamo solo garantire che torneremo, nei tempi e nei modi che più ci aggradano…

Qualcuno che c’era

[5 aprile 2004]

Fuggire per non morire

Un uomo moldavo di 29 anni, Andrey Vasilovici, si trova ricoverato nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce. Andrey è quello che le leggi italiane classificano come “clandestino”, condizione che deriva dal trovarsi sul territorio italiano privo dei documenti giusti, diretta conseguenza della povertà e della realtà di miseria o guerra da cui tanta gente è costretta a fuggire, cercando in un altrove lontano condizioni di vita migliori. Questi uomini e donne, proprio in conseguenza della mancanza di alcuni documenti richiesti, sono considerati dalle leggi italiane come non-persone, di fatto inesistenti, e in virtù di questa unica colpa, rinchiusi in posti chiamati Centri di Permanenza Temporanea in attesa di essere espulsi.

Ma alcuni giorni fa, l’inesistente Andrey ha riacquistato agli occhi di tutti il ruolo di persona fisica, per via di un episodio che ha dimostrato la brutale realtà che da clandestini si è costretti a vivere. Durante un tentativo di fuga dal CPT “Regina Pacis” di San Foca, atto estremo per tentare di riconquistare la libertà negatagli, è caduto dl muro di cinta ed è rimasto paralizzato. A ben poco vale la commiserazione per l’accaduto, quando non si riescono ad individuare chiaramente i responsabili e ad agire concretamente per fermarli. È fin troppo chiaro che anche di quanto è accaduto ad Andrey è responsabile lo Stato che, attraverso i suoi rappresentanti politici – di destra come di sinistra – ha emanato leggi che prevedono l’internamento e l’espulsione dei diseredati rastrellati sul territorio nazionale. Sono responsabili le forze di polizia che eseguono i rastrellamenti e che controllano gli internati all’interno delle strutture. Sono responsabili coloro che quelle strutture hanno scelto di gestirle in cambio di una cospicua somma di denaro, magari occultando la propria meschinità sotto un crocefisso ed un abito talare – come accade proprio col “Regina Pacis” –, e nascondendo il loro lavoro da carcerieri sotto la cappa dell’umanitarismo. Quello di Andrey è un episodio; molti altri muoiono, nel corso dei vari “viaggi della speranza”, come successo pochi giorni fa quando 28 persone in fuga da vari Paesi dell’Africa hanno perso la vita nell’attraversamento, ma le responsabilità non cambiano: sono lo sfruttamento e le guerre di rapina dell’Occidente a costringere i popoli a fuggire.

È impossibile tentare di mascherare ancora la vera funzione dei CPT, e quanto successo nell’ultimo mese e mezzo a San Foca lo dimostra. Non passa giorno senza che ci siano rivolte, evasioni, tentativi di fuga, pestaggi, atti di autolesionismo. Questi posti altro non sono che carceri, e continuare a fare finta di nulla significa solo rendersi complici.

Inutile anche pensare che tutto questo non ci riguardi. È ormai fin troppo evidente che il diritto sbandierato da tutti i democratici, è solo un’arma nelle mani del potere, che può sopprimerlo in qualunque momento e contro tutti, italiani e stranieri. Basti vedere quanto è successo alcune settimane fa, quando l’equipaggio della Cap Anamur è stato incriminato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, per aver rimorchiato alcuni profughi alla deriva, o quanto successo a San Foca stessa quando durante un presidio di solidarietà coi reclusi sono partite le cariche dei carabinieri e ci sono stati feriti, identificati e un arresto.

Le condizioni di sfruttamento e di ricatto sono sempre più comuni. Chiudere questi lager e sbarazzarsi definitivamente di chi li ha creati, chi li difende e chi li gestisce, è quindi compito di tutti gli sfruttati, di qualsiasi colore essi siano, perché questi posti altro non sono che una delle tante facce dell’esclusione sociale che ci coinvolge tutti.

Nemici di ogni frontiera

[17 agosto 2004]

L’economia gira

Di motivi per attaccare le banche ce ne sarebbero fin troppi, e sarà forse proprio per smentire il vecchio detto di Brecht che afferma che “il vero ladro non è chi rapina una banca, ma chi la fonda”, che sempre più spesso i vari istituti di credito si coinvolgono in operazioni che, agli occhi di una sempre più cieca “opinione pubblica”, appaiono come lodevoli iniziative di solidarietà. Tutto questo possiamo vederlo con i vari Telethon, con le raccolte fondi a favore delle più svariate associazioni benefiche o enti di ricerca o, per restare al Salento, col progetto “Cuore Amico”.

Nella questione specifica, però, vorrei parlare di Banca Intesa, ovverosia il più grande gruppo bancario italiano, colosso dello strozzinaggio legalizzato nato dalla fusione di tre differenti gruppi bancari: Banco Ambrosiano Veneto, Cariplo e Banca Commerciale Italiana.

Alcuni mesi fa tale istituto di credito è stato coinvolto nel progetto “La fabbrica del sorriso”, a cui partecipavano anche i comici di Zelig, che si occupava di raccogliere fondi da destinare ai bambini africani; sicuramente l’apporto dei comici avrà contribuito, tra una risata e l’altra, a rendere meno gravosa a tanti cittadini sensibili l’operazione di sfilare i portafogli dalle tasche e versare un po’ di denaro destinato ad una miserabile e pidocchiosa beneficenza.

In questi giorni di fine anno, una nuova operazione di lifting coinvolge Banca Intesa, ancora una volta in combutta con Canale 5, e per la precisione col suo telegiornale; si tratta, stavolta, di raccogliere fondi da utilizzare per i soccorsi alle persone colpite dal gravissimo terremoto in Iran, che ha lasciato decine di migliaia di persone senza casa, senza acqua e senza cibo. È certo che anche stavolta saranno in tantissimi a partecipare a questa “gara di solidarietà” (come amano chiamare queste iniziative…), anche perché le condizioni ci sono davvero tutte: tredicesima appena giunta nelle tasche di coloro che possono ancora contare su un lavoro garantito, atmosfera natalizia che, si sa, rende tutti più buoni, catastrofe naturale (ma su questo argomento potrete rileggervi uno scritto presente su Peggio n° 0…) troppo grande per poter restare a guardare, e quindi una gran voglia di sciacquarsi la coscienza da parte di tutte la anime buone: basta versare un piccolo contributo in denaro. Senza contare che coloro sui quali questa catastrofe si è abbattuta sono anche degli arabi schifosi e tutti potenzialmente kamikaze e sgozzatori di occidentali, ma anche per questo un po’ di merdosa elemosina sarà la conferma, come già affermato dal Presidente del Consiglio italiano, che la civiltà occidentale è superiore a quella araba.

Banca Intesa, intanto, vede passare sui propri conti milioni di euro e, di sicuro, non avrà di che lamentarsi.

Altri milioni di euro sono quelli che Banca Intesa gestisce sui suoi conti e custodisce nelle sue casseforti: sono i soldi della fondazione “Regina Pacis”, facente capo alla curia leccese, che a San Foca gestisce l’omonimo centro di carcerazione per immigrati. Per versare contributi a favore di questa altra “caritatevole istituzione”, infatti, è possibile farlo mediante un conto corrente bancario di Banca Intesa. Non c’è che dire: una bella collaborazione tra due istituzioni benefiche!

Certo, questa collaborazione potrebbe suscitare un certo sospetto tra quanti hanno guardato oltre le celesti mura del Regina Pacis e si sono resi conto che quella praticata da questo e da tutti gli altri centri del genere non è accoglienza, come vogliono farci credere, bensì reclusione; non c’è dubbio che la stranezza del caso dovrebbe essere evidente anche a coloro che sui propri occhi continuano a tenere due spesse fette di prosciutto. Proprio non mi riesce di vedere come questo istituto di credito possa pretendere di apparire credibile, da un punto di vista etico – per quanto di etica si possa parlare di una banca –, presso i suoi clienti, quando da una parte si adopera per raccogliere fondi per i bambini africani che patiscono la fame e per le popolazioni rimaste senza più nulla, e poi quando quegli stessi bambini e quelle stesse genti tentano di raggiungere l’occidente per cercare semplicemente di continuare a vivere, lo stesso istituto che finge di aiutarli nel Paese d’origine, si rende in Italia partecipe e quindi complice della loro carcerazione e della loro espulsione, con conseguente ritorno alla fame ed al nulla della propria vita. È un cane che si morde la coda.

È evidente che tutto è solo parte di un meccanismo circolare che si riproduce all’infinito, senza soluzione di continuità. Unica soluzione, unico possibile tentativo di interrompere questo perverso meccanismo, è attaccarlo in uno qualunque dei suoi anelli, smascherandone l’ipocrisia di fondo con ogni mezzo si ritenga opportuno.

In questo senso, gli anonimi che hanno deciso di attaccare alcuni bancomat di Banca Intesa col fuoco, alcuni mesi fa, hanno sicuramente colpito nel segno.

Sotyris

[Pubblicato su “Peggio” n. 3, febbraio 2004]

Estate calda nel Salento

L’estate appena trascorsa si è rivelata particolarmente torrida per il Cpt Regina Pacis di San Foca, con presìdi, manifestazioni, anonimi attacchi e soprattutto con una lunga catena di rivolte ed evasioni, non tutte purtroppo andate a buon fine, che meglio di qualsiasi discorso hanno smascherato – con la pratica –, la reale natura di questo luogo infame e posto al centro di polemiche asprissime il suo ruolo e la sua stessa esistenza. Mai prima d’ora, per un periodo di tempo tanto lungo, l’esasperazione patita dagli internati si era manifestata in modo così evidente, segno tangibile che le condizioni di reclusione sono andate col tempo peggiorando e che un primo tentativo di fuga andato a buon fine è stato la scintilla che ha fatto da detonatore per molti altri avvenimenti a seguire.

È la sera del 27 giugno quando venti reclusi tra marocchini, tunisini e palestinesi riescono a raggiungere il cortile del Regina Pacis e si lanciano verso la recinzione, con l’intento di scavalcarla e riguadagnare la libertà. In molti ce la fanno ed alla fine cinque di loro riescono a far perdere le loro tracce, dileguandosi all’interno delle vicine pinete, mentre gli altri quindici sono ripresi; uno di questi, nel tentativo di fuggire, sferra pugni e calci al carabiniere che lo trattiene, che alla fine deve ricorrere alle cure mediche.

L’11 luglio, un gruppo di anarchici arriva all’improvviso sotto le mura del Cpt per portare la propria solidarietà agli internati. Viene aperto uno striscione, accesi dei fumogeni, si urlano slogan e un volantino viene distribuito ai bagnanti; basta questo, e in un attimo gli immigrati all’interno del Regina Pacis danno vita ad una rivolta e iniziano a distruggere tutto ciò che materialmente nega loro la libertà, non a caso iniziando dalle finestre sbarrate e passando poi agli arredi, alle telecamere ecc, lanciano tutto di sotto e guadagnano poi l’aria sui balconi, mentre nel frattempo anche le donne iniziano ad agitarsi e ad urlare. Due immigrati si acquattano sul balcone al primo piano approfittando della confusione, aspettando il momento migliore per tentare la fuga: solo uno ci prova, saltando giù su una autoblindo e poi lanciandosi verso l’ultima recinzione, dove purtroppo viene riacciuffato da due carabinieri che lo tirano giù a manganellate, nonostante il tentativo dei compagni di aiutarlo a scavalcare. Di questo nordafricano si perderanno poi le tracce, non risultando nei giorni seguenti presente né nel centro, né in ospedale: tutto ciò che si riesce a sapere è che ha una gamba rotta. Intanto dall’interno parte una violenta carica dei carabinieri contro i manifestanti, con pestaggi e con una caccia all’uomo che prosegue sulla spiaggia tra ombrelloni e bagnanti: il Regina Pacis si trova infatti sulla costa. I bagnanti parteggiano quasi tutti per la legge e si distinguono per la loro infamia, aiutando i carabinieri ad acciuffare i fuggitivi. A farne le spese sono in particolar modo un anarchico che subisce pesanti pestaggi e viene fermato, insieme ad un altro che è perquisito ed identificato, ed una compagna che, nel tentativo di fuggire, cade rovino-samente fratturandosi un ginocchio. All’interno del Cpt, forze dell’ordine di ogni genere entrano in assetto antisommossa. Intanto, il ragazzo pestato viene trattenuto fuori fino a sera, usato in pratica come ostaggio, sino a quando tutti i bagnanti vanno via. A quel punto, molti carabinieri escono ed arrestano un manifestante, con l’accusa di violenza continuata a pubblico ufficiale. Secondo gli agenti, avrebbe colpito col megafono un carabiniere mentre il nordafricano cercava di scavalcare.

Il giorno dopo, apprendiamo dai giornali che i danni seguiti alla rivolta ammonterebbero a 50 mila euro, mentre alcuni parlamentari entrano nel Cpt e dichiarano che i rivoltosi sono tutti immigrati provenienti da esperienze detentive, tentando come al solito di dividere in “buoni” e “cattivi” e di far passare una rivolta collettiva di uomini e donne, come il gesto isolato di pochi. Al momento della rivolta, sono presenti nella struttura 158 persone. Attestati di solidarietà al direttore del centro arrivano da esponenti di ogni colore politico.

Il 12 luglio, numerose scritte appaiono sui muri del centro di Lecce, per la liberazione del compagno arrestato, in solidarietà con gli immigrati reclusi e per la distruzione dei lager. Il 17 luglio, per gli stessi motivi, si tiene un presidio in piazza Duomo a Lecce, con volantinaggio e megafonaggio, con una massiccia presenza di forze dell’ordine. Intanto all’arrestato, dopo due giorni di carcere, sono stati concessi gli arresti domiciliari.

Il 21 luglio, nella notte, una ventina di reclusi tentano ancora la fuga dal Regina Pacis, ma solo due maghrebini, dopo avere scavalcato la recinzione, riescono a far perdere le proprie tracce. Il 27 luglio si tiene un presidio con volantinaggio fuori dal palazzo di giustizia di Lecce, dove il Tribunale del riesame deve decidere sulla revoca degli arresti domiciliari al compagno; dopo alcuni giorni, gli arresti domiciliari vengono sostituiti con l’obbligo di firma giornaliero in caserma, obbligo che ancora continua.

La notte del 9 agosto, un tunisino tenta di fuggire dal Cpt, ma mentre si avvicina alla recinzione viene fermato da un carabiniere di guardia: segue una colluttazione in seguito alla quale il carabiniere riporta ferite guaribili in cinque giorni.

La notte successiva, intorno alle quattro e mezzo, una nuova evasione. Nove immigrati rimuovono una parte del controsoffitto e da lì raggiungono il retro della struttura e sbucano all’aperto, da dove provano a scavalcare dalla parte più alta il muro di cinta controllato dalle telecamere a circuito chiuso. Accortisi del tentativo di fuga, sopraggiungono i carabinieri che riescono a fermare due uomini, di cui uno avrà una frattura al piede, mentre altri sei saltano giù e si dileguano nel vicino canneto. Un moldavo di 29 anni invece, Andrei, resta impigliato nel filo spinato e cade poi giù, riportando una lesione al midollo spinale che potrebbe farlo restare paralizzato.

Il 12 agosto, sempre nella notte, altri quindici internati, tutti dell’est, tentano di evadere. Riescono a scavalcare la recinzione ma purtroppo quattordici vengono subito ripresi dai carabinieri lungo la spiaggia e la litoranea, mentre un rumeno riesce a far perdere le proprie tracce e a riprendersi la libertà.

Ancora, il 17 agosto venti immigrati, dopo aver forzato la porta della camerata, tentano di scavalcare la recinzione: in sei riescono a fuggire, gli altri vengono bloccati dai carabinieri. Nello scontro che ne segue, il direttore del centro, don Cesare Lodeserto, viene colpito con calci e pugni da un tunisino; lievi contusioni per l’infame prelato, mentre l’immigrato viene arrestato con l’accusa di lesioni e violenza. Nella stessa notte, intorno alle cinque, ignoti lanciano una bottiglia molotov contro l’abitazione di Lodeserto, che colpisce la persiana della cucina. Viene anche lasciato un biglietto, con scritto “Contro don Cesare e contro i Centri di Permanenza Temporanea”, “Guerra a don Cesare, gestore del carcere per immigrati Regina Pacis”. Ovviamente anche in questa circostanza, esponenti di tutte le forze politiche fanno a gara nell’esprimere solidarietà al direttore. In seguito a tale azione, i giornali riportano la notizia di un’indagine in corso contro il sito di Tempi di guerra, in cui compare un elenco di personaggi implicati a vario titolo nella gestione del Regina Pacis. Basta poco per spaventare questi collaborazionisti che preferirebbero continuare il loro sporco lavoro nell’ombra.

Il giorno dopo, un nuovo presidio si tiene in piazza Duomo con striscioni, volantini e materiale informativo.

Il 19 agosto, viene attuato uno sciopero della fame da quasi tutti i reclusi nel Cpt.

Domenica 29 agosto, una manifestazione contro il Regina Pacis, contro le espulsioni e per la distruzione di tutti i lager si svolge a San Foca. Uno scortatissimo corteo di un centinaio di persone attraversa il paese, ed arriva sotto le mura del Cpt per un presidio finale in solidarietà coi reclusi, che urlano e si affacciano a salutare, mentre uno di loro è ancora in sciopero della fame. Durante il corteo più volte viene ricordato Andrei, il moldavo caduto in un tentativo di fuga.

Infine, almeno per ora, la sera dell’8 settembre, quindici reclusi forzano una porta ed escono nel cortile del Regina Pacis con l’intento di scavalcare e fuggire, scontrandosi con i carabinieri in servizio. In tre riescono a scavalcare ma solo in due riescono a dileguarsi, mentre l’altro viene subito riacciuffato. Negli scontri, restano feriti quattro carabinieri e quattro immigrati.

In seguito a tutti questi eventi, che hanno particolarmente disturbato la tranquilla costa adriatica (e non solo…) del Salento, i gestori del Regina Pacis hanno avanzato l’ipotesi di non rinnovare più, dal 2005, la convenzione con lo Stato italiano come Cpt, forse anche in vista dell’apertura di un nuovo centro del genere a Bari. Nell’attesa di vedere se ciò sia vero e quale eventuale nuova destinazione d’uso tale luogo assumerà, ci auguriamo che alla calda estate appena trascorsa faccia seguito un autunno altrettanto caldo, così dentro come fuori il Cpt, affinché si arrivi alla sua chiusura e che questa sia solo l’inizio per la scomparsa di tutti i lager.

Nemici di ogni frontiera

[Testo dell’estate 2004, pubblicato su “Tempi di guerra” n. 3, ottobre 2004]

Tra spioni e carogne

Noi anarchici vorremmo vedere scomparire per sempre questo misero esistente, costruito sul ricatto del lavoro salariato e del denaro, dove le guerre e le stragi sono operazioni umanitarie, le distruzioni ambientali sono un progresso della civiltà, e la repressione, il controllo sociale e le galere, un male necessario. Non nascondiamo di amare la libertà e di pensare che la vita sarebbe più appassionante senza nessuno che pretenda di dare ordini, come anche apertamente affermiamo che lo Stato e ogni autorità sono una aberrazione di cui sbarazzarsi al più presto, affinché vi possa essere la possibilità di un vero incontro tra gli individui.

Certo saremmo liberi di pensarla come vogliamo fintanto non intralciamo i piani di nessuno, ma non appena alziamo un po’ troppo la voce o le nostre lotte diventano troppo fastidiose, ecco che non tarda ad arrivare l’attenzione dei cani da guardia dell’ordine vigente.

E’ in questo contesto che ai primi di dicembre un nostro compagno ha rinvenuto, ben occultato nella propria auto, un trasmettitore satellitare di posizione dotato di microfoni: chi lo ha piazzato di nascosto intendeva spiarne gli spostamenti, i pensieri, le amicizie… Misera la vita passata a scrutare quelle altrui!

Ad un altro compagno è stata affibbiata una condanna penale – passibile di ammenda – per manifestazione non autorizzata: i fatti risalirebbero all’estate del 2002 in occasione di un presidio contro il centro di detenzione per immigrati “Regina Pacis” di San Foca e per la libertà dei reclusi.

Sia ben chiaro: nessun vittimismo da parte nostra. Sappiamo benissimo che il controllo sociale è un dato centrale della presente società, atto a garantirne la sopravvivenza. Che chi esce dai binari della democratica discussione e non considera come possibili interlocutori, ma nemici, i vari servitori dello Stato, ne avrà sempre sulla testa la lunga mano. Che la minaccia della repressione è continuamente agitata, come deterrente, contro chiunque potrebbe decidere di ribellarsi a questo modo di vita alienante e battersi per conquistare una libertà e dignità differenti. Che la tecnologia sempre più viene incontro alle continue esigenze di sorveglianza del dominio, fornendogli le soluzioni più adeguate oramai applicate all’intera società: basti pensare alle telecamere piazzate agli angoli di strade e piazze a registrare i movimenti di chiunque.

Pertanto deve essere ancora più chiaro che non ci lasceremo intimidire dalle sgradite attenzioni di giudici e spioni e continueremo ad essere presenti a diffondere il nostro sentire.

Anarchici del Capolinea Occupato di via Adua, Lecce

[Distribuito a Lecce il 4 dicembre 2004]

In fuga dall’accoglienza

[Volantino diffuso domenica 11 luglio 2004 durante un presidio davanti al lager “Regina Pacis” di San Foca. Durante il presidio alcuni immigrati hanno tentato di fuggire e in due sono stati fermati sull’ultima recinzione là dove c’erano i compagni. In seguito gli immigrati all’interno hanno dato vita ad una rivolta mentre fuori un compagno è stato arrestato; un’altra si è fratturata una gamba per sfuggire alle cariche della polizia.]

I suoi gestori si affannano a chiamarlo centro di accoglienza, ma il Regina Pacis di San Foca, definito dalla legge centro di permanenza temporanea per immigrati, può trovare la sua definizione solo guardando i volti delle persone che vi sono recluse, e che chiedono libertà da dietro le sbarre.

Alte cancellate e mura, filo spinato, telecamere in ogni luogo e guardiani in divisa che sorvegliano ogni movimento. Rigorosamente si può dire che esso è un lager, dove gli individui vengono reclusi, semplicemente per non avere i documenti in regola, stretta conseguenza della loro povertà o mancanza di mezzi. Se si provasse a leggere quali sono i requisiti richiesti dalla legge attuale e passata, per poter giungere in Italia e negli altri Paesi occidentali regolarmente, si capirebbe che l’essere clandestino è uno stato di fatto, dal quale chi intende fuggire dalla propria terra, per miseria, carestie, guerre o semplicemente perché alla ricerca di condizioni di vita migliori, non può sfuggire. Alcuni di questi requisiti prevedono un lavoro regolare prima dell’ingresso in Italia e il possesso di una consistente somma di denaro.

Rinchiudere degli uomini, delle donne, dei bambini e privarli della loro libertà e autodeterminazione; ammassarli tutti insieme come merce o come bestiame non ha nulla a che vedere con l’accoglienza. Questa è solo una violenza, un abuso e una sopraffazione che si intende operare nei confronti di individui, che per il solo fatto di non avere un documento, sono considerati come non-persone, spogliati di ogni dignità.

I campi di concentramento nazisti non differivano molto dai CPT. Anch’essi stabilivano un’eccezione al diritto e vi ammassavano coloro che non erano graditi all’ordine pubblico. Chiunque neghi questa realtà dei fatti, lo fa solo per un tornaconto politico o economico e i gestori del Regina Pacis, coinvolti tra l’altro in pestaggi, insieme a dei carabinieri, a danno di alcuni maghrebini, sono tra questi mistificatori.

Gli unici gesti di buon senso che si possono effettuare contro questi luoghi, devono essere diretti alla loro distruzione o alla fuga da essi. Alcuni giorni fa cinque persone sono riuscite a scappare dal CPT di San Foca e a riprendere in mano la propria vita, negatagli durante il tempo in cui sono stati trattenuti. In altri quindici vi hanno tentato, senza purtroppo riuscirci, mentre quotidiane sono le ribellioni o gli autolesionismi, in tutti i CPT d’Italia, segno che gli psico-farmaci e i pestaggi usati all’interno di essi non bastano a sedare la voglia di libertà degli individui e la voglia di non subire un’ingiustizia intollerabile. Le iniquità e le torture non avvengono solo in Iraq, ma sono anche a due passi da casa nostra. Ciò che possiamo fare è una scelta molto chiara, volgere lo sguardo altrove o impegnarci perché questi posti vengano chiusi definitivamente.

Libertà per tutti.

Il Regina Pacis deve chiudere.

Nemici di ogni frontiera

Salento, terra di frontiera. L’immaginario sociale cambia così come cambia il vento mediatico e mercantile

Negli ultimi anni il Salento, da realtà meridionale tra le tante, da terra di sbarco privilegiata per i nostri vicini in fuga dalle barbarie, è oggi soprattutto meta per chi i soldi ce li ha e li vuole spendere bene tra buon cibo e tradizioni esotiche, pizzica e reggae, sagre e tanto vino. Il mare, frontiera invisibile, è cornice tanto naturale quanto perfetta per l’accoglienza del buon viandante, il turista.

La Giamaica d’Italia offre divertimento e “cultura” anche per il no global dell’ultima e della prima fila. E il No-Border contro i C.P.T. dell’estate scorsa è stato il culmine di chi – tra leader e gregge – la festa non l’ha voluta solo per egoistico divertimento, ma l’ha offerta a chi di festeggiare non lo pensava per niente. Processione, sound system, un paio di coglioni al megafono (in attesa di voti e carriera politica), e palloni con scritte dementi ed egocentriche verso i reclusi del momento – quasi sicuramente minacciati, o sotto psicofarmaci. Una solidarietà che sembrava al mio occhio cinico una mezza compiacenza, una forma di ipocrita umanitarismo.

Comunque tra queste righe è di due cose che vorrei parlare, una amata e una odiata. Una è la terra in cui sono nato e cresciuto, e l’altra è uno tra i tanti lager di questa società. Due referenti della mia vita che sono entrambi nel cuore, ma agli opposti. Uno vorrebbe rispetto – specie per quel poco di natura che ci è rimasta, e che l’invasione turistica falsamente preserva, incitando invece alla devastazione e alla cementificazione -, l’altro chiama odio. Odio per ciò che rinchiude e per chi è carnefice, torturatore, lucratore di vite umane disperate, e che in più marcia sotto la protezione di uno Stato assassino e all’ombra di un cadavere appeso in croce, guarda caso anche lui a suo tempo torturato e ucciso per essere stato un “destabilizzatore”, una persona non voluta né desiderata.

La terra amata ma gestita dal Capitale assomiglia così ad una calamita, che attrae e respinge secondo convenienza e calcolo economico; una calamita su uno dei confini sud orientali dell’IMPERO EUROPEO DELLE MERCI che fa uso di assassini in divisa e mandanti in giacca e cravatta – le tuniche insanguinate del caso sono al centro, come “strumenti”… Una calamita che respinge gente, affamata dai piatti traboccanti di quei porci – con tutto il rispetto per gli intelligentissimi maiali – che ci sfiorano camminando per le strade. Una calamita, che in nome della “sicurezza”, usa armi e navi militari per respingere, lager per rinchiudere e confinare, psicofarmaci per annullare e lobotomizzare senza bisturi, manganelli per torturare… meravigliatevi gente per le violenze militari in Iraq, mai per quelle a pochi passi dal proprio cubo di plastica e vetro…

Sono tempi incerti questi che viviamo, qualcuno li ha definiti TEMPI DI GUERRA. E di fronte alla guerra si può disertare, ma quando il campo di battaglia è il mondo intero, dalle bombe sarà sempre difficile scappare, come anche dalle proprie responsabilità.

Necessario allora diviene capire chi ha dichiarato questa guerra e verso chi. C’è da capire qual’è la posta in gioco, perché se questa è la nostra libertà, se è la vita di oggi e di domani, se è la natura che ogni possibilità offre, allora l’unica cosa da fare è dichiarare GUERRA ALLA GUERRA, che non è uno slogan di comodo, ma l’unico modo per essere partigiani oggi, dove UN FUORI NON ESISTE. Siamo immersi quasi sino al collo, ma finché un po’ d’aria ci arriverà ai polmoni, qualche possibilità ci potrà essere…

C’è chi coltiva l’ottimismo fino ad accecarsi e sostenere le cause stesse della guerra che vorrebbe far cessare per sempre…

Io coltivo l’odio di classe e verso le autorità, che non è indiscriminato come qualcuno vorrebbe far credere…

Per la libertà di movimento di tutti

Il Regina Pacis deve chiudere

Contro ogni lager

Fino alla liberazione totale

Gatto

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 4. luglio 2004]

Manifestazione a Lecce contro tutti i lager. In solidarietà con gli anarchici arrestati

Cinque compagni sono stati arrestati a Lecce, con l’accusa di aver dato vita ad una associazione «a fini di eversione dell’ordine democratico». L’ordine democratico che si è sentito in pericolo è quello che sequestra nei lager chiamati Centri di Permanenza Temporanea gli stranieri che arrivano in Italia spinti dalla disperazione anziché dal turismo. I compagni arrestati sono infatti conosciuti per le loro lotte condotte al di fuori di ogni ambito istituzionale, fra cui quella contro il famigerato Cpt Regina Pacis.

Oggi il pm Giorgio Lino Bruno vuole presentare il conto a chi si oppone radicalmente ai lager di Stato, alla guerra in Iraq, allo sfruttamento della Benetton, a chi si prende da sé lo spazio vitale, senza passare per vili deleghe ed umilianti genuflessioni.

I cinque anarchici sono stati arrestati perchè credono che gli sfruttati e gli oppressi non debbano compiangersi, bensì insorgere. Perché il migliore dei mondi possibili non è certo quello dove i ricchi rispettano la miseria dei poveri e i poveri rispettano l’opulenza dei ricchi, come vorrebbe far credere la canea mediatica.

Sono i governi di tutto il mondo – con le loro guerre da scatenare, le loro frontiere da proteggere, i loro passaporti da controllare, i loro profitti da incassare – a creare le condizioni dell’immigrazione clandestina, che giova e frutta denaro a chi come l’arcivescovo Ruppi o come Benetton ha costruito il proprio impero sullo sfruttamento della miseria.

Se il Regina Pacis è stato teatro di tante rivolte, è perché non tutti i reclusi al suo interno sono animali addomesticati e non tutti queli che sono all’esterno sono cittadini mansuefatti. Quando l’esistente diventa insopportabile, il buon senso dei rassegnati è solo un vuoto pretesto per rinunciare ad agire.

Di fronte alla sofferenza imposta dal dominio e dalla merce, non c’è migliore virtù della solidarietà, non c’è peggiore ipocrisia delle lacrime e dell’indifferenza in cui rimangono invischiati coloro che non osano tradurre il pensiero critico in atto ribelle, in complicità attiva.

Il terrore è l’arma dello Stato, ma arrestando cinque anarchici e indagandone altri non può mettere in scacco la voglia di riscatto degli oppressi…

La complicità è un’arma. La solidarietà è una forza.

Libertà per Cristian, Salvatore, Saverio, Annalisa e Marina

Libertà per i migranti e tutti gli oppressi

Fuoco ai lager!

Anarchici del capolinea

Sabato 21 maggio – Concentramento ore 14 in via Adua (nei pressi di P.ta Napoli) e corteo cittadino

Comunicato del 13 maggio 2005, diffuso in seguito all’arresto di cinque anarchici a Lecce

Per quanto voi vi crediate assolti…

Potremmo dire che lo abbiamo sempre sostenuto, ma l’ovvio e la banalità non ci appartengono e preferiamo lasciarli a politicanti e giornalisti, che di esse ne hanno fatto una ragione di vita. Ancora meno poi, gioiamo nel vedere all’opera la giustizia di Stato, che disprezziamo profondamente. Le riflessioni che si impongono, invece, sono altre.

Quello che è accaduto e accade ogni giorno nel lager Regina Pacis, al di là che un giudice qualunque voglia e riesca o meno a dimostrare, non è un caso isolato e non è neanche il frutto di una legge ingiusta o di una cattiva gestione di un centro: insomma, non si tratta di una eccezione. Il sequestro di persona, la violenza, la tortura, la spersonalizzazione dell’individuo sono il muro portante di ogni struttura detentiva, che sia essa un carcere, un centro di permanenza temporanea, un manicomio, un campo di internamento o una comunità terapeutica. Il Regina Pacis e Abu Graib, Auschwitz, Guantanamo e San Patrignano non sono eccezioni ma la normalità di questi tempi di guerra, così come don Cesare, il dottor Mengele, Muccioli e gli sbirri torturatori di Bolzaneto a Genova nel luglio del 2001, non sono persone che sono venute meno ai loro doveri andando “un po’ oltre”, ma al contrario uomini che hanno svolto egregiamente il loro compito, che è quello di riprodurre continuamente l’attuale sistema sociale basato appunto sulla sopraffazione, sul terrorismo e sulla tortura. Tutto quello che hanno fatto è stato eseguire fin troppo bene gli ordini di uno Stato di cui sono servi; quello di cui si sono resi responsabili non è stato antidemocratico, ma è l’aspetto portante della democrazia, con buona pace di tutti i suoi sostenitori.

Da parte nostra, come anarchici, siamo contro il carcere e non vogliamo che nessun essere vivente venga rinchiuso, neanche un essere abietto e spregevole quale è senza dubbio don Cesare Lodeserto, carceriere a sua volta e aguzzino e torturatore di lungo corso. Se non vivessimo in questo mondo alla rovescia, il giusto atteggiamento nei confronti di terroristi del genere dovrebbe essere il disprezzo sociale e l’isolamento dalla comunità, e non già le veglie di preghiera e le lodi tessutegli dai mezzi di disinformazione e da gentaglia del suo calibro. Peraltro, la stessa gentaglia di ogni colorazione politica che si è sperticata ad esprimergli solidarietà quando, quattro anni fa, ha ricevuto minacce di morte ad opera di una fantomatica banda di albanesi, e che ha fatto una ben triste figura alla luce di quanto accertato in questi giorni, e cioè che tali minacce don Cesare se le era inviate da solo!

È curioso vedere come l’arresto di un personaggio potente susciti reazioni tanto scandalizzate proprio tra coloro che, quotidianamente, consolidano le mura del carcere sociale che rinchiude tutti gli sfruttati. Eppure nelle galere marciscono ogni giorno milioni di individui esclusi da qualsiasi possibilità di vivere una vita dignitosa, senza che questo disturbi il sonno delle anime belle della società civile. Senza contare che molti tra questi, poi, vengono rinchiusi proprio da gente come don Cesare Lodeserto e funzionari simili, e senza neanche il “privilegio” di starsene in una cella singola ed essere trattati da esseri umani.

… siete per sempre coinvolti

Anarchici Capolinea Occupato – Via Adua, 5 – Lecce

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 5, agosto 2005]

Controllo e dintorni

Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Lecce, la procura distrettuale antimafia, nell’esposizione del suo lavoro, ha sparato a zero su anarchici e islamici definendoli terroristi, sulla base di indagini e intercettazioni telefoniche, ambientali e informatiche.

Tali notizie apparse sui giornali locali hanno fatto comprendere l’intenzione di voler isolare e criminalizzare coloro che a Lecce “disturbano” la pacificazione della città, e che da anni conducono una lotta contro il Cpt di San Foca. Lotta che in particolare ha suscitato l’interesse e il controllo da parte degli organi repressivi che, oltre a cercare di ostacolare le attività degli anarchici con i modi più semplici, come denunce per affissioni abusive, imbrattamento o manifestazione non autorizzata, hanno poi utilizzato mezzi più sofisticati per tenere d’occhio conversazioni e spostamenti. All’inizio di dicembre è stata ritrovata nell’auto di un compagno una microspia con annesso segnalatore satellitare, mentre nello stesso periodo e successivamente altri compagni, che partecipano alla realizzazione di questo bollettino, hanno ritrovato congegni simili a Bologna e a Rovereto. Il “pericolo” rappresentato dagli anarchici è stato affiancato dal fantasioso P.M. di turno Motta, a quello che sarebbe rappresentato dagli islamici nel Salento e al loro presunto estremismo religioso, ma come al solito senza accertare nulle di rilevante. In pratica, ciò che queste esternazioni affermano è che chi dissente o si oppone all’oppressione che quotidianamente invade le nostre esistenze, è controllato a vista e diventa un nemico pubblico, mentre chi è straniero viene usato come capro espiatorio su cui riversare tutte le paure.

Ma se lo Stato, con le sue leggi e i suoi organi repressivi, può non riuscire, a volte, a far tacere chi dà fastidio a potenti e sfruttatori di turno, si possono usare anche altri mezzi, magari con l’avallo di quegli stessi potenti o organi repressivi. Nello stesso mese di dicembre, infatti, una persona legata ai gestori del Cpt ha cercato qualcuno nel sottobosco malavitoso per dare una lezione agli anarchici. L’esserne venuti a conoscenza in maniera casuale non ha probabilmente dato seguito a questo proposito.

Al lavoro sporco di Stato e mafia, che da sempre agiscono in simbiosi, rispondiamo proseguendo il nostro percorso di lotta.

[Pubblicato su “Tempi di guerra” n. 4, aprile 2005]

Le frontiere della democrazia: immigrati uccisi, ribelli in carcere

Giovedì 12 maggio, cinque anarchici leccesi sono stati arrestati nel quadro dell’ennesima inchiesta per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” (270 bis), in base alla quale sono stati perquisiti case e spazi anarchici in mezza Italia. Il Capolinea occupato di Lecce è stato chiuso e sottoposto a sequestro giudiziario. Conosciuti per la loro opposizione costante e senza compromessi a quei lager che la lingua di Stato chiama “centri di permanenza temporanea”, questi compagni stavano dando troppo fastidio. Ora che le brutalità del CPT di Lecce sono emerse in modo talmente evidente che il suo direttore, don Cesare Lodeserto, è stato arrestato con l’accusa di violenza privata e sequestro di persona; ora che diversi immigrati rinchiusi hanno cominciato a ribellarsi con coraggio e continuità, la voce di chi da tempo smaschera le responsabilità di un intero sistema concentrazionario andava zittita. Questi compagni vengono accusati di una serie di attacchi contro le proprietà dei gestori e finanziatori del CPT di Lecce, di alcuni sabotaggi contro la Esso e di qualche azione diretta contro la Benetton. Non sappiamo se siano innocenti o colpevoli, e

nemmeno ci interessa. Ciò che consideriamo giusto non lo cerchiamo tra le righe dei codici dello Stato. Se sono innocenti, hanno la nostra solidarietà. Se sono colpevoli, ce l’hanno ancora di più.

Rispondere con determinazione a chi rinchiude donne e uomini la cui unica colpa è quella di essere poveri e di non avere i documenti in regola; presentare un piccolo conto a chi si arricchisce con il genocidio della popolazione irachena (come la Esso) o con la deportazione dei Mapuche (come la Benetton), sono pratiche assolutamente condivisibili. Dai bombardamenti ai CPT, dalle banche alle multinazionali, i nemici degli sfruttati non sono forse ovunque gli stessi?

Mentre questi nostri compagni vengono arrestati, in un solo giorno a Torino la polizia sgombera un campo nomadi, uccide a freddo un senegalese a un posto di blocco, provoca la morte di un altro immigrato che cerca di sottrarsi ad un rastrellamento. Vi basta? Da settimane gli internati di via Corelli a Milano sono in sciopero della fame, protestano sui tetti, urlano la loro voglia di libertà. Intanto centinaia di profughi vengono internati in “centri di accoglienza” da cui cercano ad ogni costo di evadere.

Sono urla che ci giungono dalle macerie di questo mondo in rovina.

Possiamo fare finta di non sentirle. Possiamo festeggiare ipocritamente la lotta armata contro il nazifascismo senza accorgerci che i lager non sono il nostro passato, ma il nostro presente. Possiamo rifugiarci dietro il rispetto della legge – quella stessa legge in nome della quale si affama e si bombarda, quella stessa legge che viene quotidianamente sospesa per milioni di dannati della Terra. Oppure possiamo decidere di alzare la testa, trovando in noi stessi il senso di ciò che è giusto, armando il nostro cuore e le nostre braccia. Possiamo nasconderci, oppure batterci.

Il modo migliore per essere solidali con gli anarchici di Lecce ci sembra quello di continuare la lotta per la chiusura dei lager, per inceppare la macchina delle espulsioni. Per un mondo senza frontiere.

Salvatore, Saverio, Christian, Marina, Annalisa liberi!

Fuoco ai CPT, liberi tutti!

anarchici a piede libero

[Testo diffuso il 13 maggio 2005]

Lettera di Cristian dal carcere di Lecce

Carissimi compagni miei, VI HO SENTITI, VI HO SENTITI ECCOME!!! Che grande giornata quella di ieri, che indimenticabile pomeriggio. Sono rimasto incollato alla finestra per tutto il tempo, ho sventolato una maglietta nera più in alto che potevo (usando una scopa) e ho urlato, ho urlato con tutto me stesso. Vi ho riconosciuti tutti, uno per uno, ogni vostra parola è stata anche il volto di tutti i miei compagni e se le mie orecchie hanno ricevuto tutto forte e chiaro, i miei occhi, per quanto si affannassero, sono riusciti a distinguere solo una cosa, ma che le vale tutte, una bella e alta bandiera nera al di là di questo stramaledetto muro di cinta. Vi conosco, e so bene di quale grande solidarietà voi siete capaci, eppure continuate a stupirmi: cataste di telegrammi e lettere, iniziative straordinarie una dopo l’altra, cose mai viste in questa città dormiente e con una partecipazione davvero inimmaginabile qui da noi. Tutto ciò mi riempie il cuore di gioia e conferma la precisa convinzione che i dolci sentimenti che ci legano superano qualunque ostacolo, si tratti di sbarre e cemento come di centinaia di kilometri. Anche qua dentro la solidarietà non è poca, qualunque cosa mi mancasse è arrivata in un batter d’occhio.

In cella siamo in tre persone: io, che dormo a mezzo metro dal soffitto, e due meravigliosi napoletani che con la loro simpatica parlata riescono a farmi ridere in continuazione (non pensavo si potesse ridere così in galera). Questa è gente che ha svariati anni di carcere alle spalle e tanti altri ancora davanti a sé (siamo nella C2 Alta sorveglianza, “associazione di stampo mafioso”) e che quindi conosce bene il modo migliore di far passare la giornata, inventandosi di tutto e salendo in branda solo per la notte. Mi stanno aiutando davvero tanto e stanno nascendo spontanei rapporti di amicizia tra noi. Saverio è nella sezione sotto la mia (anche se ci abbiamo provato, si sono ben guardati dal metterci insieme, tutti e 3 intendo) e facciamo le ore d’aria in “gabbioni” attigui, questo permette ad ognuno di noi di guardare l’altro mentre passeggia. Anche se non possiamo parlarci, quei pochi baci volanti e saluti che riusciamo a scambiarci rinfrancano l’animo e ci rinforzano. Salvatore, purtroppo è dall’altra parte, quindi a parte qualche casuale incontro nei primissimi giorni del nostro arresto, riesco a vederlo (senza mai incrociare il suo sguardo, per quanto ci provi) attraverso vetri e sbarre quando lui è all’“aria” ed io vengo portato da qualcuno (avv., colloqui, operatori vari, comandante…). Mi manca!

Pensate un po’, chi è venuto a “trovarci”. Beh, si è scomodato niente meno che il senatore Maritati. Ci ha provato a cavalcare la protesta, ma con un tentativo così maldestro non poteva che ricevere il fatto suo: so che Saverio non ha voluto parlargli per niente, mentre io ho capito che era un parlamentare solo quando me lo sono trovato davanti. Al che, dopo 30 secondi che parlava (ero curioso di vedere come pensava di impostare il rapporto dialettico uomo di potere-anarchico) – dicendo che si è precipitato dall’estero appena gli è giunta notizia dell’“ondata repressiva” (parola di magistrato democratico) e stronzate varie del tipo “salvaguardare la libertà di opinione”, “legalità all’interno del carcere, rispetto dei diritti umani, denunciare se subiamo soprusi da chiunque” – gli ho risposto: “lei è mio nemico al pari degli altri carcerieri, se ancora non lo ha capito è perché ha il prosciutto sopra agli occhi”, mi sono fatto aprire e sono risalito in sezione. Devo ammettere che oltre che doveroso è stato divertente vederlo arrampicarsi sugli specchi come solo un “politico” sa fare. Entro 15 giorni da venerdì 20 ci sarà il riesame per me e, a parte questo terribile interrogativo che pende sulla nostra testa, io sono, tutto sommato, abbastanza sereno. Vi voglio un mondo di bene.

CATTURATO NON È CONQUISTATO! LA LOTTA CONTINUA!!!

NON MI AVRANNO MAI, VOSTRO CRISTIAN

[23 maggio 2005]

Una lettera di Salvatore dal carcere

Mando un caro saluto e un grande abbraccio a tutti coloro che in questi giorni si stanno spendendo a manifestarci la loro solidarietà con le manifestazioni, i volantinaggi, i presidi, le lettere, i telegrammi… Tutto questo che arriva da fuori tiene alto il mio morale e fa capire alle “teste pensanti” dello Stato che hanno messo a punto l’ennesima montatura giudiziaria, che la lotta non la possono fermare e che non sono sufficienti i muri, il filo spinato, le sbarre e i guardiani di carne umana a isolarci dal contesto sociale in cui viviamo.

Anche in carcere gli altri prigionieri manifestano grande solidarietà. Dopo due giorni tra i “comuni” ora ci troviamo in regime di alta sorveglianza, ma in mezzo ad un’umanità splendida, un’umanità che continua a vivere, a sperare e a sognare, a dispetto delle 20 ore giornaliere in cui ci costringono a stare in una cella di due metri per quattro, fino a tre persone, senza nessuno spazio di socialità che sia diverso dalle ore d’aria. Oltre mille individui solo in questo carcere, il cui corpo giace ma il cui pensiero è libero.

È fin troppo evidente lo scopo di questa loro ennesima montatura giudiziaria: vogliono legare le mani e tappare la bocca a chi non è disposto a chinare la testa, a chi da troppo tempo rompe la monotonia dell’ordine costituito, lottando per un mondo diverso, per una vita che valga la pena vivere e per la libertà di tutti. Vogliono eliminare qualsiasi forma di dissenso e di critica radicale dell’esistente; a maggior ragione se poi questa critica è diretta a persone molto in alto quali sono gli arcivescovi ed i loro servi, persone che hanno protezioni politiche laddove pulsa in cuore incancrenito dello Stato. Non vi è dubbio, infatti, che questa operazione si incastri a perfezione nell’ambito di un più ampio progetto: spostare l’attenzione dalle vicende giudiziarie di coloro che hanno torturato, psichiatrizzato, violentato, sequestrato e imprigionato migliaia di individui nel nome dello Stato e della democrazia, nell’attesa di riabilitarli in tempi non troppo lontani, nella logica dominante di questi tempi di guerra.

In questo mondo alla rovescia, la realtà è capovolta e la lingua di Stato la giustifica: è così che noi siamo dipinti come terroristi e violenti. Ma terrorista è lo Stato, e la storia lo dimostra ampiamente, e in quanto alla violenza, ritengo accettabile solo la violenza rivoluzionaria. Hanno detto che i violenti sono coloro che hanno incendiato i bancomat, ma come qualcuno affermava già molto tempo addietro «il vero ladro non è chi rapina una banca ma chi la fonda».

Terrorismo e violenza è invece bombardare intere popolazioni e fare migliaia di morti; sono l’Ilva di Taranto e Porto Marghera che uccidono lentamente e legalmente, sono le morti bianche sul lavoro, i lager per immigrati e i loro annegamenti, i rastrellamenti, le deportazioni, i suicidi in carcere. Terrorismo e violenza sono la devastazione ambientale e il saccheggio delle risorse, la produzione industriale e la sua continua delocalizzazione, alla ricerca di sempre maggiori condizioni di sfruttamento e di nuovi schiavi in nome del profitto, sradicando i popoli e lasciandosi dietro migliaia di indesiderabili, espropriati delle proprie vite… e mi fermo qui perché sarebbe un elenco troppo lungo.

Ringrazio ancora una volta voi fuori che ci sostenete e continuate la nostra lotta, significa che non ci hanno fermato.

Non possono farlo, perché, come ha scritto una compagna: «i nemici di ogni frontiera hanno la libertà nel cuore, nessuno li può imprigionare».

Oggi sono anch’io lì in mezzo a voi. Oggi sono un po’ più libero anch’io.

Vi abbraccio forte

Salvatore

19 maggio 2005, 9.30

Per chi non è stato al caldo durante la tempesta. Sul processo agli anarchici leccesi e sulla lotta contro i Cpt

Il 19 gennaio comincerà a Lecce il processo contro tredici anarchici accusati – oltre che di una serie di azioni contro alcune multinazionali che si arricchiscono sulla guerra e sul genocidio delle popolazioni del Sud del mondo – del crimine di aver portato avanti per anni una lotta costante e determinata contro il lager per immigrati di San Foca. Due di loro sono in carcere dal 12 maggio scorso, altri due sono agli arresti domiciliari, un quinto in libertà vigilata. La base del processo è ancora una volta l’articolo 270 bis sulla “associazione sovversiva con finalità di terrorismo”, con il quale negli ultimi anni sono stati arrestati decine di rivoluzionari, ribelli o semplici militanti di sinistra senza lo straccio di una prova. Per essere accusati di “associazione sovversiva” basta ormai una semplice scritta sul muro.

Ma non è tanto questo che ci preme dire. Sappiamo che le leggi dello Stato sono ragnatele per il ricco e catene d’acciaio per il povero, così come non abbiamo mai cercato il senso del giusto tra gli articoli del codice penale. Quello che ci preme sottolineare è cosa rende questi anarchici pericolosi e cosa c’è di universale nella loro lotta.

Si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi di “Centri di Permanenza Temporanea” (CPT). Dopo che alcuni servizi giornalistici hanno documentato le condizioni disumane in cui sopravvivono le donne e gli uomini internati in queste strutture, le varie forze politiche si sono azzuffate sulle responsabilità di una simile “gestione”. Ma il punto non è come vengono gestiti, bensì la natura stessa dei CPT. Introdotti in Italia nel 1998 dal governo di centrosinistra con la legge Turco-Napolitano (approvata anche con i voti dei Verdi e di Rifondazione Comunista), i CPT sono a tutti gli effetti dei lager. Proprio come i campi di concentramento fascisti e nazisti (e ancor prima coloniali, a Cuba e in Sudafrica), si tratta di luoghi in cui si viene rinchiusi senza aver commesso alcun reato e trattenuti a completa disposizione della polizia. Che all’interno le condizioni siano disperate, il cibo pessimo e i maltrattamenti costanti è una terribile conseguenza, ma non il centro del problema. Basta poco per rendersene conto.

Quello che per un italiano è un semplice “illecito amministrativo” (non avere i documenti), per uno straniero è divenuto un reato passibile di internamento. Come la storia insegna – basta pensare alle leggi razziste di tutti gli Stati fra la prima e la seconda guerra mondiale –, per creare simili campi di concentramento bisogna aver preliminarmente imposto l’equazione straniero=delinquente. È in tal senso che va letta la legislazione – di destra come di sinistra – sull’immigrazione in Italia (ma potremmo dire in Europa e nel mondo). Se venissero applicati ai cosiddetti cittadini gli stessi criteri che presiedono alla concessione del permesso di soggiorno agli immigrati, saremmo in milioni ad essere rinchiusi o a vivere da clandestini. Quanti italiani possono dimostrare, infatti, di avere un lavoro in regola? Quanti vivono in più di tre in un appartamento di 60 metri quadrati? Sapendo che i contratti interinali non valgono per ottenere il permesso di soggiorno, quanti di noi risulterebbero “regolari”? Definire razzismo di Stato tutto ciò non è un’enfasi retorica, bensì una constatazione rigorosa.

Ora, i CPT (ma più in generale tutte le forme di detenzione amministrativa: dai centri di identificazione alle “zone di attesa” in cui vengono trattenuti i profughi o i richiedenti asilo) sono la materializzazione di questo razzismo. Proprio perché il filo spinato è da sessant’anni il simbolo del lager e dell’oppressione totalitaria, l’involontaria coerenza del potere ha circondato questi nuovi campi di filo spinato. Così come non è una caso se la detenzione amministrativa, da sempre dispositivo tipico del dominio coloniale, oggi si sta diffondendo ovunque nel mondo (dai ghetti palestinesi a Guantanamo, dalle segrete britanniche dove vengono rinchiusi gli immigrati “sospettati di terrorismo” ai CPT italiani). Nel momento in cui si bombarda e si massacra in nome dei “diritti umani”, milioni di indesiderati sono brutalmente privati di ogni “diritto”, detenuti in campi circondati dalla polizia e affidati alle “cure” di qualche “organizzazione umanitaria”.

Se i CPT sono dei lager – come ormai in molti sostengono –, è del tutto logico cercare di distruggerli e di aiutare ad evadere le donne e gli uomini che vi sono internati. Ed è del tutto logico colpire i collaborazionisti che li costruiscono e li gestiscono. Questo pensavano gli anarchici leccesi. Hanno allora denunciato pubblicamente, nell’indifferenza generale, le responsabilità dei gestori del CPT di San Foca – cioè la curia leccese, attraverso la Fondazione “Regina Pacis” – e le condizioni infami a cui erano sottoposti i detenuti; hanno raccolto testimonianze, dati, e si sono organizzati. Sono stati una spina nel fianco della curia e del potere locale. Già nell’estate del 2004 uno di loro veniva arrestato per aver cercato di favorire la fuga di alcuni immigrati durante una rivolta avvenuta all’interno del “Regina Pacis”. Andavano nelle fiere di paese, a fare nomi e cognomi degli agenti responsabili dei pestaggi all’interno del CPT, dei medici che li coprivano, del direttore che bastonava, sequestrava e costringeva con la forza alcuni musulmani a mangiare carne di maiale. Senza mai perdere di vista l’obiettivo: chiudere per sempre quei lager, e non renderli “più umani”. Mentre avveniva tutto questo, alcune azioni anonime colpivano le banche che finanziavano il CPT, nonché le proprietà della curia e del direttore del “Regina Pacis”, don Cesare Lodeserto. E questi anarchici erano pronti a difenderle pubblicamente. Le autorità non potevano più nascondere il problema. E cos’hanno fatto allora? Prima hanno arrestato Lodeserto con l’accusa di sequestro di persona, peculato, violenza privata e diffusione di notizie false e tendenziose (il prelato soleva mandarsi da solo dei messaggi di minaccia che poi attribuiva alla “malavita albanese”), poi hanno fatto chiudere il CPT di San Foca. Messo subito Lodeserto ai domiciliari, e poi rilasciato, hanno quindi arrestato gli anarchici allo scopo di toglierli di torno per anni. Quelli che contano hanno difeso a gran voce il prete. A difendere gli anarchici sono stati per lo più solo degli onesti pregiudicati. Giustizia è fatta…

Ma qualcosa non torna. Il castello accusatorio contro i ribelli è maldestro e traballante, ma, soprattutto, nel frattempo prendono vigore le lotte contro i CPT in tutta Italia. Ad aprile gli internati del lager di via Corelli a Milano salgono sui tetti, si tagliano e urlano la più universale delle rivendicazioni: libertà. Seguiti dagli immigrati rinchiusi nel CPT di corso Brunelleschi a Torino, la protesta si allarga a Bologna, a Roma, a Crotone. A decine riescono ad evadere, mentre fuori comincia ad organizzarsi il sostegno pratico alla lotta. Assieme a manifesti e iniziative che denunciano le responsabilità di chi si arricchisce sulle deportazioni di immigrati (dall’Alitalia alla Croce Rossa, dalle aziende dei trasporti alle ditte private implicate nella gestione dei lager), non mancano le piccole azioni di sabotaggio. Con quella convergenza spontanea che è il segreto di tutte le lotte, i crimini imputati agli anarchici leccesi si diffondono.

È questo movimento – ancora debole, ma in crescita – che ha posto pubblicamente il problema dei CPT, facendo correre ai ripari i politici di sinistra, nel tentativo patetico di attribuire al solo governo di destra la responsabilità dei lager.

Che tutto ciò dia fastidio lo dimostrano le dichiarazioni del ministro degli Interni Pisanu sugli anarchici e antagonisti che “sobillano” gli immigrati (come se le condizioni disumane in cui vivono non fossero di per sé una costante sobillazione) e sulla necessità dei CPT per contrastare il “terrorismo” (è noto, infatti, che chi vuole passare i controlli della polizia per compiere un attentato se ne va in giro senza documenti). Perché?

I CPT mettono a nudo non solo l’esclusione e la violenza come fondamenti della democrazia, ma anche il profondo legame fra stato di guerra permanente, razzismo e militarizzazione della società. Non è un caso se la Croce Rossa è presente nei conflitti bellici a fianco degli eserciti e allo stesso tempo implicata nella gestione di numerosi lager in Italia. Così come non è un caso se essa partecipa alle “esercitazioni antiterrorismo” con le quali i governi vorrebbero farci assuefare alla guerra e alla catastrofe.

La criminalizzazione dello straniero – capro espiatorio del malessere collettivo – è da sempre un tratto distintivo delle società moribonde e allo stesso tempo un progetto di sfruttamento ben preciso. Se non vivessero nel terrore di essere rinchiusi e rispediti a casa – dove ad attenderli ci sono spesso la guerra, la fame, la disperazione – gli immigrati senza documenti non lavorerebbero certo per due euro all’ora nei cantieri di qualche Grande Opera, né morirebbero coperti da una gettata di cemento quando cadono dalle impalcature. Il Progresso ha bisogno di loro: per questo li si rende clandestini ma non li si espelle tutti, li si “accoglie” nei lager, li si smista, li si seleziona in base agli accordi con i rispettivi paesi di provenienza e secondo la docilità che dimostrano nei confronti del padrone. La sorte che spetta loro è lo specchio di una società in guerra (contro i concorrenti economici e politici, contro le popolazioni, contro i propri limiti naturali).

Una delle prime vittime di questa mobilitazione totale è il senso delle parole. Che siano potuti entrare nell’uso corrente espressioni come “guerra umanitaria” – o che si possa chiamare “centro di accoglienza” un lager – la dice lunga sullo scarto fra l’orrore che ci circonda e le parole che lo nominano. E questo scarto è contemporaneamente un’anestesia della coscienza. Chiamiamo “lager” i CPT e poi andiamo a votare chi li ha costruiti, diciamo “massacro” ma ci accontentiamo di sfilare tranquillamente contro la guerra, purché non succeda niente. Mentre a Milano si svolgeva la manifestazione oceanica del 25 aprile, i rivoltosi di via Corelli erano sui tetti a gridare che la resistenza non è finita, ma la retorica sulla “liberazione” non si è nemmeno scossa, continuando a festeggiare.

Forse qualcosa sta cambiando. Mentre la propaganda di Stato equipara il nemico interno – il ribelle, il “terrorista” – e lo Straniero – il fanatico, il kamikaze –, le resistenze si armano ed esplodono le “periferie” a due passi da noi, dove i poveri bruciano le ultime illusioni di integrazione in questa società. Giovani generosi intendono lager quando dicono lager, e si organizzano di conseguenza, come stranieri in un mondo straniero. Sono disposti a conquistare la libertà assieme agli altri, anche a rischio di giocarsi la propria. Odiano le sbarre, al punto che non le augurano nemmeno alle peggiori carogne (i tanti, troppi Lodeserto). Queste forme di insoddisfazione attiva per il momento dialogano a distanza, ma sono già l’abbozzo di qualcosa di comune. La falsa parola si sta ammutinando, e nuovi comportamenti sprigionano nuove parole nella realtà della vita quotidiana.

Non abbandoniamo alla vendetta dei giudici chi non è stato al caldo quando altri uomini venivano travolti dalla tempesta. In tempi tristi e servili, c’è una scelta che contiene tutte le altre: decidere da che parte stare.

[Testo del dicembre 2005 distribuito in migliaia di copie in tutta l’Italia]

Sequestrati in attesa di giudizio

Il 12 maggio 2005 scatta l’operazione “Nottetempo”: perquisizioni in tutta Italia, cinque anarchici leccesi arrestati, altri 13 indagati a piede libero. Per tutti l’accusa è di “associazione sovversiva con finalità di eversione dell’ordine democratico” (art. 270 bis C.p.).

Nei giorni seguenti si susseguono spontanee iniziative di solidarietà.

Il 21 maggio una manifestazione molto partecipata in solidarietà agli arrestati e contro i Cpt percorre le strade del centro della città. Il giorno dopo viene presidiato il carcere di Lecce dove sono detenuti tre degli arrestati. Gli altri due sono ristretti ai domiciliari.

Mentre le istanze di scarcerazione vengono respinte, in due vengono trasferiti a Melfi e Salerno.

Il 6 agosto uno degli arrestati ottiene i domiciliari e un mese dopo una compagna ai domiciliari viene liberata con l’obbligo di dimora.

Durante tutta l’estate si susseguono iniziative di solidarietà agli arrestati e alle lotte contro le espulsioni.

Dopo due mesi di isolamento in condizioni detentive particolarmente dure Salvatore viene trasferito da Salerno a Sulmona.

L’8 novembre si svolge una manifestazione in solidarietà agli arrestati per ribadire la necessità della lotta diretta contro i lager.

Il 9 novembre si celebra l’udienza preliminare in cui due degli indagati vengono prosciolti da tutte le accuse, mentre altri proscioglimenti riguardano alcuni reati specifici. La data di inizio del processo è fissata al 19 gennaio 2006.

La pubblicità che meritano

Nel processo contro gli anarchici leccesi, si sono costituti parti civili: il gestore di una stazione di servizio della ESSO sabotata (per via delle grandi responsabilità della compagnia statunitense nel genocidio iracheno, in tutta Italia sono decine le pompe di benzina manomesse), i medici del San Foca Cazzato e Roberti, nonché il direttore don Cesare Lodeserto.

La lotta contro il Regina Pacis

2002

Giugno-agosto. Cominciano i primi presidi davanti al Regina Pacis.

31 agosto, Melendugno. Alcuni manifestanti interrompono il consiglio comunale al suono di trombe da stadio per protestare contro il sindaco che aveva vietato una manifestazione e una mostra contro il Regina Pacis a San Foca (frazione di Melendugno).

3 novembre, Monteroni. Manifestazione davanti alla chiesa dove Mons. Ruppi (gestore della fondazione Regina Pacis) chiude la sua visita pastorale. È allestita una mostra sull’immigrazione, vengono esposti striscioni e distribuiti volantini. Il Vescovo rinuncia ad affacciarsi sulla piazza e scappa dal retro.

12 novembre, Lecce. In serata, alcuni guastafeste si radunano davanti alla Prefettura e, con fischietti, trombe e megafono, comunicano il proprio disprezzo verso gli 11 ministri dell’Interno che l’indomani terranno un vertice sul controllo dell’immigrazione. Vengono effettuati blocchi stradali a singhiozzo e distribuiti volantini.

13 novembre, Lecce. Durante il corteo del Social Forum contro il vertice dei ministri, alcuni manifestanti bersagliano con frutta marcia e uova poliziotti, giornalisti ed il servizio d’ordine del Lecce Social Forum (i cui portavoce avevano condannato le manifestazioni contro Mons. Ruppi).

20 novembre, Casarano. Durante una conferenza di A.N. sulla “Bossi-Fini” in quindici aprono uno striscione contro le espulsioni. Alla conferenza partecipavano il sottosegretario all’Interno Mantovano e don Lodeserto.

2003

10 maggio, Lecce. Poco prima della partenza del Giro d’Italia, sull’asfalto e sui muri appaiono scritte quali “immigrati liberi” e “Ruppi assassino”.

11 giugno, Lecce. Per mano di ignoti viene danneggiato con una fiammata il portone laterale del duomo, sul muro tracciate delle scritte contro il Cpt e i suoi gestori.

12 ottobre, San Foca. Davanti al Cpt una decina di persone portano la propria solidarietà ai reclusi; dall’interno gli immigrati rispondono con lanci di oggetti e spazzatura verso i carabinieri. Alla fine del presidio, un fitto lancio di uova ripiene di vernice rossa lascia il segno sui muri del Cpt.

8 novembre, Lecce e Lequile. Incendiati due bancomat di Banca Intesa, la quale ospita i conti del Regina Pacis.

3 dicembre, Calimera. Manifesti e scritte contro la dott.ssa Catia Cazzato. In seguito ai pestaggi contro alcuni immigrati aveva firmato falsi certificati medici sostenendo che gli immigrati si erano feriti accidentalmente.

2004

16 marzo, Lecce. Attacco fallito ad una filiale di Banca Intesa.

1 aprile, Lecce. Una quindicina di persone presidia la cappella dove Mons. Ruppi celebra la messa pasquale.

11 aprile, Lecce. Nel giorno di Pasqua, su un’impalcatura nei pressi del Duomo compare uno striscione contro i Cpt.

18 aprile, Lecce. È in piazza il “Progetto Marta”, iniziativa con cui la fondazione Regina Pacis tenta di ripulirsi l’immagine raccogliendo viveri e ridistribuendoli tra i poveri, gli immigrati e i senzatetto. Alcuni compagni contestano l’iniziativa con un volantino. Al loro rifiuto di esibire i documenti la polizia reagisce strattonando e tentando, senza riuscirci, di condurli in questura.

11 luglio, San Foca. Mentre all’esterno si svolge un presidio, gli internati si ribellano distruggendo tutto quello che possono. Uno di loro riesce a scavalcare il muro, subito rincorso dai carabinieri. I manifestanti si mettono in mezzo e i militari caricano. Una compagna si ritrova con la gamba rotta e un altro viene pestato e arrestato: verrà trasferito agli arresti domiciliari qualche giorno dopo.

17 agosto, San Foca. Dopo che nelle settimane precedenti decine di internati sono riusciti a evadere dal Cpt, altri ci riprovano. Bloccati dai carabinieri, vengono pestati: ai pestaggi partecipa anche il direttore don Cesare Lodeserto. La notte, una finestra della sua abitazione viene colpita da una bottiglia incendiaria. Un volantino di rivendicazione dice: “Contro don Cesare e contro i Cpt”.

29 agosto, San Foca. Mentre si svolge un presidio davanti al Cpt, alcuni reclusi fanno sapere di essere in sciopero della fame.

16 settembre 2004, Lecce. Altre scritte appaiono in città contro il Cpt e il suo direttore. Mons. Ruppi fa sapere che dal gennaio successivo la fondazione non rinnoverà la convenzione statale per la gestione del Centro.

26 settembre, Calimera. Durante una fiera viene distribuito un volantino in cui si smaschera la responsabilità della dott.ssa Cazzato all’interno del Cpt. Alcuni dei manifestanti verranno denunciati per “diffamazione”.

31 ottobre, San Nicola. Imbrattati con vernice alcuni bancomat di Banca Intesa.

15 dicembre, Lecce. Presidio e volantinaggio nei pressi del teatro dove Mons. Ruppi festeggia i 50 anni di sacerdozio.

30 dicembre, Lecce. Vergate alcune scritte contro il Cpt. In questo periodo i giornali fanno sapere che, dalle dichiarazioni rilasciate durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, si prospetta una forte stretta repressiva contro gli anarchici. Intanto si viene a conoscenza del proposito di una persona legata ai gestori del Cpt di ingaggiare qualcuno legato agli ambienti mafiosi per dare una lezione agli anarchici. Proposito che non avrà seguito.

2005

23 gennaio, Calimera. Su molti muri appaiono scritte contro la dott.ssa Cazzato e contro i Cpt.

31 marzo. Trascorsi i tre mesi di proroga concessi dallo Stato alla scadenza della convenzione, il Cpt chiude definitivamente. La fondazione Regina Pacis sposta la propria attività “caritatevole” in Romania, dove gestisce numerosi “centri di accoglienza”.

Alcuni episodi della lotta contro i Cpt negli ultimi mesi [2005]

19 maggio, Torino. I reclusi del Cpt si rivoltano, bruciano i materassi e danneggiano quel che possono. Inizia uno sciopero della fame. Per evitare l’imminente rimpatrio un immigrato sfonda una finestra e ne ingerisce i vetri: passerà la mattinata in ospedale perdendo l’aereo della deportazione. Nel pomeriggio 150 persone si radunano fuori dal Cpt: alcuni salgono con uno striscione sopra alla recinzione, altri, sotto, fanno un buco nel muro. La celere carica ma viene respinta. L’assembramento si scioglie ma un gruppo di manifestanti si dirige al deposito dei tram per spiegare agli autisti le responsabilità della loro azienda, la Gtt, riguardo alle espulsioni. Al termine, un manifestante viene arrestato.

19 maggio, Genova. Bloccate le serrature della metropolitana «Per Ibrahima e Mamadou, due fratelli senegalesi morti ammazzati dalle ‘forze dell’ordine’ del terrore. Per tutti i rinchiusi nelle carceri e nei C.P.T che si rivoltano e lottano».

21 maggio, Torino. Ancora in sciopero della fame, i detenuti del Cpt si ribellano di nuovo. Molti minacciano il suicidio e vari ingeriscono vetri e batterie, uno si taglia l’addome tanto gravemente da dover essere ricucito d’urgenza sul posto. Durante il presidio del pomeriggio i prigionieri salgono sul tetto e parlano parecchio con i dimostranti: si scopre così che spesso è proprio la Croce Rossa ad ostacolare il rilascio di quelli che ne avrebbero diritto.

23 maggio, Milano. In serata un gruppo di immigrati sale sui tetti di via Corelli gridando «liberi tutti». Mentre due di loro ingeriscono delle lamette, gli altri iniziano a danneggiare la struttura del lager dal tetto, imitati presto da quelli del piano inferiore. Nei giorni seguenti 21 reclusi saranno arrestati con le accuse di «danneggiamento aggravato» e «incendio doloso».

25 maggio, Torino. Nel corso di un rastrellamento un ragazzo nigeriano, Eddy, cade dal cornicione a cui si era appeso per sfuggire ai mastini in divisa. Due ragazze, uniche testimoni dell’accaduto, vengono trascinate in C.so Brunelleschi. I nigeriani del quartiere, infuriati, scendo in strada e si scontrano con la polizia.

27 maggio, Torino. Presidio sotto il consolato del Marocco, corresponsabile delle espulsioni, e a San Salvario dove, mesi prima, una ragazza marocchina era precipitata dal tetto per sfuggire ad una retata dei Vigili urbani. Nel pomeriggio, alla commemorazione di Eddy sale la tensione e si rischia nuovamente lo scontro con la polizia.

28 maggio, Torino. Una manifestazione di oltre mille persone attraversa la città. La polizia, pur presente in forze, si mostra solo per bloccare al corteo la strada per la questura: gli immigrati sono furiosi. Arrivati alla stazione di Porta Susa vengono occupati i binari: «In una città che uccide non deve viaggiare nessuno». Qualche danneggiamento, in particolare di un bancomat della San Paolo.

7 giugno, Caltanissetta. Al mattino vengono trovati due bidoni di benzina agli ingressi della locale sede della Croce Rossa, accompagnati da una scritta sul muro «No Cpt» e da un biglietto «La CRI gestisce il Cpt di Pian del lago: solidarietà agli immigrati».

8 giugno, Torino. Un gruppo di compagni interrompe un dibattito per contestare al sindaco ed agli assessori le loro responsabilità e ricordare gli immigrati uccisi.

11 giugno, Milano. Verso le undici di sera in due salgono sul tetto di uno dei capannoni del Cpt di via Corelli e, scavalcata la recinzione, approfittano di un varco nel muro in ristrutturazione per darsi alla fuga.

15 giugno, Bologna. Presidio davanti alla sede di Castelmaggiore della Concerta Spa, l’azienda che fornisce i pasti ai Cpt di Bologna e Modena.

16 giugno, Torino. Sigillati un centinaio di parchimetri della Gtt, complice delle espulsioni.

29 giugno, Bologna. In 6 riescono a fuggire del Cpt di via Mattei.

2 luglio, Bari. In 91 evadono dal Cpt allestito nell’aeroporto di Palese.

5 luglio, Bologna. Al tramonto in dieci tentano l’evasione: sollevata una delle grate di sicurezza che sovrastano il cortile, scavalcano la recinzione e il muro. In cinque riusciranno a dileguarsi.

9 luglio, Torino. Approfittando di un presidio che si tiene di fronte all’entrata del centro, sette prigionieri saltano il muro laterale del Cpt. Intanto all’interno inizia un nuovo sciopero della fame.

1 agosto, Ragusa. Una manifestazione contro il Cpt di via Napoleone Colajanni si conclude con l’invasione del piazzale d’ingresso.

16 settembre, Rovereto. Un’agenzia della BNL viene bersagliata con della vernice. La stessa banca era stata colpita anche il 12 marzo, durante una manifestazione contro ogni fascismo.

22 settembre, Milano. Durante l’ultima udienza del processo ai 21 immigrati accusati di aver devastato il Cpt di via Corelli il 23 maggio, alcuni dei presenti denunciano a gran voce il carattere illegittimo del processo chiedendone l’annullamento. Molti altri, fuori dall’aula in attesa di entrare, protestano rumorosamente finché il giudice ordina lo sgombero, eseguito a suon di manganelli dalle forze dell’ordine.

26 settembre, Bologna. I reclusi di via Mattei iniziano uno sciopero della fame per protestare contro «la sporcizia, la mancanza di medicine e le manganellate contro chi si ribella».

2 ottobre, Bologna. A partire da oggi ogni sabato ci sarà un presidio davanti al Cpt.

4 ottobre, Torino. Sabotati nella notte una decina di bancomat della BNL. Vengono ritrovati dei biglietti che accusano la banca di complicità con i Cpt e con la guerra in Iraq.

12 ottobre, Caltanissetta. Sull’autobus sotto scorta che trasferisce 140 immigrati dal Cpt di Pian del Lago all’aeroporto Fontanarossa di Catatonia scoppia una rivolta: dodici sbirri feriti e in sette fuggono nelle campagne.

21 ottobre, Gorizia. Occupazione della sede della Croce Verde di Gradisca, cui segue la rinuncia dell’associazione all’appalto per la gestione del futuro Cpt.

22 ottobre, Bari. Occupata la sede della Croce Rossa. Un mese dopo il direttore invierà una lettera alla prefettura con cui rinuncia alla gestione del costruendo Cpt di Bari.

26 ottobre, Torino. “Torino Cronaca”, il quotidiano cittadino torinese portabandiera del razzismo più becero e populista, lamenta di una sua autovettura redazionale demolita nottetempo da ignoti vandali.

Fine ottobre, Rovereto: Bogu, un anarchico croato da dieci anni residente in città e sposato con un’italiana, viene raggiunto da un ordine di allontanamento dall’Italia firmato dal questore di Trento. Parte una mobilitazione in sua solidarietà e contro tutte le espulsioni. Per l’intero mese di novembre si svolgono assemblee, proiezioni, presidi e anche un corteo.

2 novembre, Caltanissetta. In 43 fuggono dal Cpt di Pian del Lago.

12 novembre, Bergamo. Danneggiate nella notte, con molotov e picconate, gli sportelli di tre banche in città e provincia. Tra questi uno della Banca Intesa, implicata nella gestione del Regina Pacis.

23 novembre, Gorizia. Con un blitz all’apertura del consiglio comunale di Gradisca, un gruppo di manifestanti chiede la sospensione dell’allacciamento alla rete fognaria del Cpt.

2 dicembre, Roma. Un gruppo di studenti occupa la sede dove si terrà il Consiglio Nazionale delle Misericordie.

3 novembre, Rovereto. Due furgoni di Trenitalia vengono dati alle fiamme. Nel messaggio di rivendicazione si fa riferimento alle responsabilità della società ferroviaria nella deportazione degli immigrati.

29 novembre, Rovereto. Un gruppo di solidali interrompe il consiglio comunale distribuendo un testo in cui si sottolineano le responsabilità delle forze istituzionali per l’eventuale espulsione di Bogu. Qualche giorno dopo il tribunale decide che venga nuovamente rilasciato il permesso di soggiorno all’anarchico croato.

[Tratto da “Per chi non è stato al caldo durante la tempesta”, dicembre 2005]

Chiudere i Cpt, schiacciare i parassiti della politica!

Come purtroppo spesso accade in questi casi, l’arresto di cinque anarchici attivi nella lotta contro i Cpt ha destato l’attenzione interessata di alcuni sciacalli e avvoltoi della politica. Loro, i compagni arrestati a Lecce, amano la libertà della strada e non il fetore dei corridoi istituzionali. Gli altri, gli sciacalli e gli avvoltoi, preferiscono gli intrighi di corte e cortile, la risonanza mediatica, il tornaconto politico. I primi disprezzano i secondi e li tengono alla larga, i secondi disprezzano i primi ma quando possono li sfruttano.

Così, mentre gli anarchici del Capolinea di Lecce erano impegnati nell’organizzazione della manifestazione di sabato scorso, questi politicanti da strapazzo erano impegnati a speculare sugli arrestati, cercando di farli passare per “propri compagni”. Hanno costituito un “Comitato salentino contro la repressione” che attraverso comunicati e conferenze stampe si è attribuito la responsabilità dell’iniziativa; hanno cercato e trovato il sostegno di consiglieri comunali ed eurodeputati; hanno annunciato un luogo e un orario diverso da quello già stabilito per l’inizio del corteo, con l’intento di dividerlo in due (davanti i “cattivi’, sotto l’occhio della polizia, dietro i “buoni”, sotto le bandiere dei vari racket politici). Nei giorni precedenti la manifestazione, costoro si sono adoperati a diffondere voci su scontri certi progettati dagli anarchici. E sono giunti ad architettare di infiltrare un servizio d’ordine fra i manifestanti.

Ma questa volta hanno fatto male i loro calcoli. Sabato, centinaia di manifestanti si sono uniti agli anarchici del Capolinea. Non necessariamente perché ne condividessero le idee, di sicuro perché ne condividevano la lotta contro i campi di concentramento per stranieri senza documeni. In fondo, dietro a un patetico striscione autopromozionale, senza alcuna insegna istituzionale, staccati dal resto del corteo, protetti dalla polizia, insultati e sbeffeggiati dall’inizio alla fine, c’erano al massimo una quindicina fra sciacalli ed avvoltoi. Per togliere il disturbo liberandoci dalla loro sgradita presenza, non hanno nemmeno atteso la conclusione della manifestazione. Ad un certo punto, dopo che numerosi interventi avevano definitivamente chiarito il carattere antistituzionale dell’iniziativa, se ne sono andati — chi con le ali ripiegate, chi con la coda fra le zampe.

La solidarietà con chi lotta contro il mondo delle espulsioni, del denaro, del potere, non è merce di baratto politico. Chi è legato a doppio filo con quella stessa sinistra che ha creato i Cpt, chi si è schierato con i “bombardamenti umanitari” che hanno provocato migliaia di profughi (e di morti!), chi è capace solo di reclamare un’ipocrita “deontologia” dell’orrore statale, non è e non sarà mai un nostro compagno. Meglio un maggio ribelle di un aprile servile…

[Pubblicato su “Tempi di guerra” n.6, giugno 2005]

Una pace terrificante

All’indomani dell’operazione “Nottetempo” molti personaggi si sono sentiti in dovere di esprimere il loro elogio alle forze dell’ordine, non a caso gli stessi personaggi che hanno difeso a spada tratta Lodeserto in seguito al suo arresto per sequestro di persona, violenza, ecc. ecc. Evidentemente per costoro gli anarchici sono colpevoli a priori delle accuse loro mosse, anche prima di essere processati. A dispetto di ciò che si è voluto far passare, e cioè che ad essere perseguito non era l’ideale anarchico.

Il vescovo Ruppi, ha espresso la sua gratitudine per la repressione posta in essere dalla magistratura e dalle forze di polizia, dimostrando in maniera molto esemplificata la sua indole di carceriere che gioisce nel vedere un uomo recluso. Il sindaco Poli Bortone ha affermato che questi arresti avrebbero reso molto più tranquilla la città, facendo comprendere benissimo il significato dei tanto sbandierati principi di ordine e democrazia, e cioè una realtà di pacificazione sociale completa e totalizzante, che consenta alle istituzioni di ogni ordine e grado di non dare conto a nessuno dei propri gesti. Coloro che docili e benevoli, accettano qualsiasi decisione passi sulle proprie teste vengono considerati cittadini modello, tutti gli altri invece sono considerati ribelli, sovversivi, criminali da isolare e rinchiudere. Un ultimo riferimento infine va a coloro che hanno condotto l’operazione “Nottetempo”, questura, digos e pubblico ministero Bruno, che avendo trovato il modo di fare carriera, la lotta agli anarchici, hanno gonfiato la vicenda facendola apparire come l’operazione del secolo, con il maestrale aiuto dei media, veri esperti della falsificazione della notizia. Tronfi sulle loro poltrone hanno parlato di terrorismo e criminalità, dimenticando che tali termini si addicono molto di più alle loro divise e ai loro ruoli, al loro essere dei miseri spioni, servi di uno Stato che reprime ogni gesto di insofferenza e calpesta le libertà degli individui. Verso tutti costoro esprimiamo il nostro più grande disprezzo, consapevoli che l’umanità e la dignità che contraddistinguono ribelli e sfruttati non possono essere una loro prerogativa.

“Due cose mi sorprendono sempre: l’intelligenza delle bestie e la bestialità degli uomini” (Tristan Bernard)

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 5, agosto 2005]

Lo Stato democratico tortura

Lo abbiamo sempre sostenuto. Lo abbiamo detto, scritto ed urlato mille volte. Lo abbiamo appreso leggendo le biografie di chi lo aveva provato, così come lo abbiamo sentito raccontare dalla viva voce degli amici che ci erano passati, o raccolto dalle lettere dei compagni e di tanti altri prigionieri. Spesso, però non siamo stati creduti; ci hanno detto di essere visionari, esagerati. Eppure, gli Stati democratici applicano ancora la tortura. E non lo fanno solo al di fuori dei loro confini nazionali, no; le torture dei parà italiani in Somalia o degli eserciti in Iraq e nel carcere di Abu Graib, o nella base di Guantanamo, sono solo la punta di un iceberg. Queste sono diventate reali perché, nella società dello spettacolo, fondata sull’immagine, ormai solo la documentazione visiva produce la realtà. Tutto il resto, non esiste. Invece, le opulente e avanzatissime democrazie occidentali torturano ogni giorno, nelle loro carceri, migliaia di individui. Certo, la tortura fisica è di gran lunga inferiore a quella che esportano negli altri Paesi, ma è stata sapientemente affiancata e spesso sostituita da una forma più subdola e più raffinata di tortura, messa a punto da eminenti specialisti che si formano nelle università, “dove uccidete il germe dell’uomo”, come cantava la Banda di Tirofisso. Oggi la tortura è psicologica, e la subiscono ininterrottamente tutti i reclusi, in forme più o meno dure.

Io ho avuto modo di avvertirne tutto il peso appena arrivato nel carcere di Salerno, e nel corso delle prime due settimane che vi ho trascorso. L’impatto sicuramente non mi ha aiutato. Isolato in una cella di metri uno e ottanta per quattro, sporca; il bagno tutt’uno con la cella, senza nessun divisorio, senza bidet, e con il water accanto alla cancellata d’ingresso, con un piccolo pannello di compensato a “nascondere” la tua intimità dalla vista delle guardie. Alla finestra, oltre alle sbarre, una doppia rete metallica interna-esterna, tanto fitta da nascondere quasi del tutto la vista di quel piccolo pezzo di cielo che si riesca a vedere; la cella buia, tanto da dover tenere accesa la luce per gran parte del giorno, ma il cui interruttore è solo fuori, e quindi si dipende dalla guardia per accendere e spegnere, così come per la tv. Il passeggio lo faccio da solo, in un piccolissimo cortile di metri sette per otto, per un tempo che è sempre variato da mezz’ora fino al massimo di un’ora, al mattino e al pomeriggio, col risultato di passare spesso anche ventitre ore in cella. Sempre che aprano per andare all’aria, quando non trovi la guardia che ti dice che quel pomeriggio non esci, tanto sei già uscito la mattina, oppure che si eclissa quando arriva l’orario del passeggio e devi chiamarlo incessantemente per mezz’ora, e capisci che non vuole aprirti perché altrimenti deve restare lì, e guardarti a vista mentre tu cammini all’aria. La doccia si fa solo due giorni a settimana, e la prima l’ho fatta con acqua fredda in un locale doccia lurido. E poi perquisizioni corporali, quindici guardie per una perquisizione della cella, in seguito alla quale ti tocca risistemare tutto quello che hanno buttato per aria; sottrazione di gran parte del materiale che arriva con la corrispondenza(manifesti,volantini, comunicati, riviste…), disturbo del sonno varie volte ogni notte, che ti impedisce di dormire bene, ecc. Mille piccole e meno piccole angherie, per esasperare la situazione e distruggere il morale. Dai libri chiesti, promessi, ma mai consegnati, al rifiuto di un secchio per poter lavare la cella, alla negazione delle telefonate consentite.

Ho capito appieno quello che già sapevo e che da anni vado dicendo ad altri: che il fine del carcere è l’annientamento psico-fisico e la spersonalizzazione dell’individuo. Ed ho pensato spesso a cosa sarebbe potuto accadere se al mio posto si fosse trovato qualcuno più debole, più solo o in condizioni psicologiche particolari, e magari non avrebbe esitato ad evadere con una corda attorno al collo. Ogni volta che accade, l’assassino è senza dubbio lo Stato. Io ho la grande fortuna di non essere solo in questa cella, ma ci sono i miei affetti, i miei amici e i miei compagni, le mie idee, ogni momento della giornata. Così ora sono molto più tranquillo; ho imparato a gestirmi meglio la giornata, ad andare via da questo posto, quando sono al passeggio, lasciando il mio corpo – un involucro vuoto – andare avanti e indietro, otto metri per volta, fino a che non torno in cella. Certo è straordinario come i muri di queste celle raccontino le sofferenze che hanno vissuto. Dove sono ora leggo nomi arabi, un calendario con i mesi in caratteri cirillici e la scritta Ucraina, e poi un sacco di scritte, di frasi e di proclami in un italiano sgrammaticato: dalle invettive contro i pentiti alle raccomandazioni a qualche santo; da una “apologia della masturbazione” fino ad una frase che dice: “Quando si muore si va in paradiso perché all’inferno ci siamo già stati. E questo! Chiunque chiedesse e questo che dovete rispondere”.

Perché, per affermare verità così evidenti, non c’è bisogno di essere grandi letterati.

Salvatore

Salerno 5 luglio 2005

Terrore e solidarietà

Un film già visto. Perquisizioni, arresti, intimidazioni e di fondo la solita montatura repressiva con l’avallo dell’art.270 bis del codice penale, studiato ad hoc per inglobare tutti gli atti di ribellione possibili, tacciandoli però di terrorismo. E’ questa l’accusa per la quale cinque nostri compagni sono stati arrestati ed altri sono indagati qui a Lecce come nel resto d’Italia. Il punto però è un altro. Lo Stato ha paura delle voci di dissenso, dei gesti di insofferenza che quotidianamente gli sfruttati gli esclusi pongono in essere, alzando la testa contro le sempre più schiaccianti condizioni di precarietà; tutto ciò potrebbe rappresentare una scintilla che accende la solidarietà tra gli sfruttati considerata dallo Stato un pericoloso crimine.

Ci vorrebbero docili, proni, rassegnati ai soprusi e alle ingiustizie che ogni giorno viviamo sulla nostra pelle, eppure nonostante molti abbiano accettato la “pace terrificante” di una vita trascorsa a inebetirsi davanti all’ultimo “reality show”, molti altri hanno deciso di riprendersi la vita e di muovere la protesta. Questo hanno deciso di fare i popoli nativi di tutto il mondo che difendono la loro esistenza contro la prepotenza dell’economia capitalista che attraverso le multinazionali devasta territori, smembra le società, sfrutta gli individui. Questo hanno deciso di fare i popoli che resistono all’occupazione del loro territorio, come gli irakeni, insorti alla guerra e al massacro perpetrato nei loro confronti dalle potenze occidentali. Questo hanno deciso di fare molti indesiderabili stranieri, ai quali non è riconosciuta neanche la condizione di esseri umani, solo perché sono sprovvisti di un documento in regola. Ogni giorno donne, uomini e bambini vengono deportati e reclusi nei centri di permanenza temporanea, i lager dell’indifferenza e dell’impenetrabilità dove la loro condizione di clandestinità li espone ad ogni sopruso e umiliazione. Nella migliore delle ipotesi dopo la reclusione verranno rimpatriati nel loro paese d’origine da dove erano sfuggiti a causa di miseria o guerra; in caso contrario anche questa possibilità verrà loro negata, così come è accaduto a due immigrati uccisi dalla polizia in questi giorni a Torino durante un rastrellamento e ad un posto di blocco.

Eppure, nonostante questa situazione di terrore, sempre più spesso si verificano rivolte e proteste all’interno dei Cpt, come accade da settimane in quello di via Corelli a Milano.

Rispediamo al mittente l’accusa di essere terroristi, consapevoli che tali sono coloro che bombardano milioni di persone, che torturano e uccidono, che imprigionano ribelli ed esclusi, coloro che si insinuano nella nostra intimità e coloro, infine che da sempre servi del potere, montano campagne mediatiche tese a denigrare e isolare le lotte e i gesti di rivolta quotidiana.

Possiamo fare finta di non essere coinvolti dalla guerra che è stata dichiarata contro gli individui, oppure possiamo smettere di voltare la testa dinanzi agli abusi e alle sofferenze perpetrati nei confronti di miliardi di persone. Possiamo rinchiuderci nei bunker delle nostre case, rassicurati dall’illusione che noi, clandestini non lo saremo mai; oppure possiamo scendere in strada, armare il cuore e la voce e riprenderci l’esistenza che ci spetta. Nessuno è straniero!

Libertà per Salvatore, Saverio, Cristian, Marina, Annalisa.

Libertà per tutti gli esclusi e i ribelli. Basta lager, basta galere!

Anarchici

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 5, agosto 2005]

Il diavolo e l’acqua santa

Negli ultimi mesi il clima di controllo ossessivo a Lecce sembra essere molto aumentato, e mentre due nostri compagni sono ancora in carcere e due agli arresti domiciliari, va avanti il processo che li vede accusati di associazione sovversiva insieme ad altri otto anarchici. Sono state varie le iniziative per chiedere la loro liberazione e per spiegare i motivi che li tengono reclusi, particolarmente la lotta contro i centri di detenzione per immigrati. Volantinaggi, presidi, cortei, banchetti informativi, spettacoli teatrali hanno continuato ad animare le strade e le piazze di Lecce esattamente come accadeva prima che i nostri compagni venissero arrestati. Gli anarchici non sono stati annientati né azzittiti; certo hanno trovato davanti a sé molte difficoltà ma non hanno abbassato la testa, perché il coraggio delle loro idee è stato più forte di tutto. La loro controparte, forze dell’ordine e magistrati, però non ha granchè gradito tale situazione, e così sono state aperte numerose indagini a carico di numerosi compagni col fine di scoraggiare la loro attività, impaurirli, isolarli. Carabinieri, polizia, procura leccese stanno agendo come un Kater pillar, per spazzare via qualsiasi contestazione fuori dalle righe. Seguendo la moda del momento, due procuratori, Giorgio Bruno e Guglielmo Cataldi hanno aperto due nuove indagini per associazione sovversiva a carico di tre anarchici leccesi e altri cinque sparsi per l’Italia, sulla base di vecchi volantini e giornali trovati in un auto, già conosciuti nel processo in corso, o semplicemente sulla base della corrispondenza tra alcuni di essi, corrispondenza già considerata non rilevante da una corte d’assise, perché sottoposta a censura, prima ancora dell’apertura dell’indagine. Si sprecano poi le denunce per affissione abusiva e apologia sovversiva, anche in questo caso procurate da un semplice promemoria di iniziative trovato in una delle tante perquisizioni e persecuzioni.

La situazione, che non è caratterizzante solo della cittadina salentina, ma di molte città italiane (vedi Torino durante le Olimpiadi), viene resa pesante dall’atteggiamento di sbirri e magistrati convinti di trovarsi in piena guerra fredda e intenzionati a non far passare alcuna voce stonata che turbi quella terrificante quiete che si vuole imporre ad una città e ad una provincia che dovranno in ogni caso essere votate al turismo. In questa atmosfera si terrà il 7 aprile la terza udienza del processo in corso per associazione sovversiva, e proseguirà poi ad intervalli di quindici giorni. Nel frattempo qualcos’altro è accaduto. Ad un anno dall’arresto dell’ex direttore del CPT “Regina Pacis” don Cesare Lodeserto, il Pm Tramis ha concluso le indagini riguardanti l’ultima vicenda che lo vede coinvolto insieme ad altri collaboratori, dopo le condanne per violenze e simulazione di reato. Le accuse vanno dal sequestro di persona, all’estorsione, all’abuso dei mezzi di correzione. Un parente di Lodeserto, Giuseppe Lodeserto è accusato di violenza sessuale, mentre il medico Catia Cazzato è accusata di falso, stessa accusa che l’ha vista condannata proprio insieme a don Cesare. Due giorni prima che venisse resa nota la conclusione di questa nuova indagine che farà passare nuove notti insonni a Lodeserto, lo stesso, insieme allo zio finanziere già defunto, è stato assolto dall’imputazione di peculato. La gestione economica del CPT non ha dato adito ad alcun reato per il Tribunale, per il motivo fondamentale che la contabilità non poteva essere controllata dal diritto privato dello Stato, come per ogni azienda o ente pubblico, ma dal diritto canonico, trovandoci difronte ad una ente ecclesiastico, facente capo alla Curia leccese. Non ci preme assolutamente entrare nella questione; quando Lodeserto fu arrestato, esprimemmo l’opinione di non voler vedere nessuno in galera, neppure un essere così spregevole, per quanto vedere un aguzzino davanti ai nostri occhi, peraltro scortato dalla digos leccese che ha macchinato la montatura contro di noi, non poteva che procurarci fastidio.

Cìò che ci ha particolarmente inorridito in questi giorni è stata invece la profusione di lodi e incensi nei confronti di quest’ultimo alla notizia della sua assoluzione, da parte di politici di destra e sinistra nonché dei giornali e televisioni locali, che gli hanno dedicato speciali e paginoni, con evidente commozione. Questo avvenimento avrebbe del tutto riabilitato la sua figura, a detta di tali viscidi sciacalli, omettendo e trascurando le sentenze di condanna che la stessa magistratura aveva pronunciato nei confronti del medesimo. Qualcuno addirittura avrebbe visto ristabilirsi la democrazia mediante tale sentenza assolutoria, chiaramente quella che questo qualcuno ha in mente; quella che assolve i potenti in quanto tali e condanna pesantemente i deboli. Quella che ghettizza, reclude, deporta poveri ed esclusi, ma elogia e santifica chi ha scambiato la carità con la tortura e l’affare. Lontani anni luce da questi opportunisti, sappiamo bene che la giustizia non si trova in tribunale e che per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti…

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n.6, aprile 2006]

Salento, terra di bocche chiuse e sguardi bassi… quale libertà?

Il 12 maggio di un anno fa scattava l’“Operazione Nottetempo”.

Non è ancora giorno quando le case di decine di anarchici in tutta Italia e nel leccese vengono perquisite dalla polizia con un dispiegamento enorme di uomini e mezzi. Cinque persone vengono arrestate a Lecce e provincia. Oggetto dei sequestri: materiale cartaceo… libri, manifesti e volantini.

Non è che, per caso, sono proprio le idee ad essere sequestrate?

L’accusa per tutti è di voler sovvertire l’ordinamento democratico tramite atti come danneggiamenti a dei bancomat o scritte murali. Ebbene, cosa dicevano mai quelle terrorizzanti scritte?

Che il CPT Regina Pacis torturava, per mano di don Cesare Lodeserto e dei suoi collaboratori, rinchiudendo, picchiando e minacciando decine di donne e uomini detenuti in quel centro. Dicevano che ai migranti rinchiusi va tutta la solidarietà in quanto perseguitati e sfruttati come fossero merce. Che non solo quello di San Foca, gestito dalla Curia leccese, ma tutti i CPT vanno chiusi, perché sono dei lager.

Non è che, per caso, sono proprio le idee a terrorizzare qualcuno?

Questi giovani, da soli e con coraggio, si sono battuti per far chiudere quel lager, hanno smascherato il vero volto del grande impegno della Curia: lucrare sulla miseria e sulla disperazione di chi è costretto a lasciare la propria terra in cerca di condizioni di vita migliori.

Non è che, per caso, la verità fa paura a qualcuno?

Nel marzo 2005 il Regina Pacis ha chiuso. Le violenze del direttore, dei medici e dei carabinieri che ci lavoravano dentro sono venute a galla, un certo clamore ha fatto parlare di scandalo. Poco dopo, gli arresti degli anarchici, il silenzio, la riabilitazione pubblica del prete hanno ristabilito la quiete terrificante in cui si consumano i peggiori soprusi della vita quotidiana.

Non è che, per caso, sia necessario seppellirla, la verità?

Giustificati da un grottesco alone di pericolosità sociale, blindati nel silenzio e nell’indifferenza collettiva, gli arresti degli anarchici proseguono immutati da un anno, mentre il processo di primo grado non è che appena cominciato.

Non è che la condanna si stia già infliggendo?

Questi giovani, che hanno lottato senza risparmio contro l’oppressione che è sotto gli occhi di tutti, sono la parte migliore della nostra gente perché si sono spesi per amore della libertà. Essi meritano la solidarietà e l’appoggio incondizionato di chiunque tenga a quella propria ed altrui. Il silenzio di queste strade, di questa gente è, invece, un atto di resa e di sconfitta. Per tutti. Questo silenzio permette agli sfruttatori di continuare a sfruttare, ai veri terroristi di continuare a terrorizzare, ai padroni di ingrassare sulla crescente povertà.

Non è che le idee non valgano più la pena di essere pensate?

Libertà per Salvo, Saverio, Marina, Cristian e Annalisa.

Libertà per tutti, subito.

[Manifesto affisso a Lecce, maggio 2006]

Attacco alla democrazia! (gridare al lupo al lupo per mangiarsi le pecore)

Ogni tanto qualche colpo di scena diverte lo spettatore della noiosa fiction della pace sociale; romantico e rassicurante, poi, credere che anche gli intoccabili prima o poi vengano toccati…

Talvolta, infatti, accade – come qualche mese fa a Lecce – che persino amministratori, alti prelati e giornalisti sentano vacillare la loro “onorabilità” sotto i colpi di inchieste che mettono parzialmente in luce corruzione e transiti di enormi quantità di denaro. Ma niente paura, a Lecce infatti, nonostante l’erosione marina, si fece presto a trovare tutta la sabbia necessaria a seppellire lo scandalo. E dire che in molti l’avevano previsto… saggezza popolare! La stessa saggezza degli ignoranti suggerisce che ogni esercizio di potere si fonda su abuso e sfruttamento, ma oggi molti preferiscono confortarsi credendo che le garanzie democratiche ci preservino dal peggio. Peccato che queste garanzie vengano evidentemente usate a protezione dei potenti e della loro privacy, mentre ogni atto di opposizione al potere in modo diretto e auto-organizzato, venga usato per sostenere accuse di terrorismo contro chiunque.

Infatti, sulle pagine dei giornali, nei tribunali e nelle patrie galere, ogni giorno finiscono, senza troppi complimenti, sfruttati e proletari, oppositori e ribelli descritti come violenti, o pericolosi criminali.

Dipinti come temibili terroristi, pure tre nostri compagni sono da un anno e mezzo agli arresti in attesa di giudizio perché accusati di associazione sovversiva. La loro lotta contro i Centri di Permanenza Temporanea ha messo in luce la natura detentiva ed escludente di questi posti, e quanto proficuo sia stato l’affare che la Curia ha sempre chiamato “accoglienza”, affare costruito sulla disperazione di migliaia di migranti, nonché la brutalità dei modi del direttore del centro: don Cesare Lodeserto. Anche quella lotta coraggiosa ha contribuito alla chiusura di quel famoso lager, ma poco è bastato per riabilitare il direttore e la sua buona opera.

Qualche mese fa un nostro compagno, trovandoselo di fronte, accompagnato dalla scorta personale, ha pensato bene di onorarlo con un solenne sputo (che l’ ha colpito in pieno). Prontamente, i media locali hanno descritto il fatto come un attentato violento da parte di un fanatico, pericoloso e «presunto» anarchico (come se essere anarchici fosse di per se stesso un reato). Questa ed altre cronache da giornaletto di oratorio, chiariscono senza ombra di dubbio quale sia il compito dei media: criminalizzare e creare allarme per gettare discredito attorno a chi si oppone ai noti potenti (siano essi onorevoli facce sorridenti o eminenti grugni ricoperti d’oro), impaurire e ammansire le brave persone.

Ora don Lodeserto, lungi dal porgere l’altra guancia, ha sporto denuncia e potrebbe reclamare qualche migliaio di euro, per sanare l’offesa subita e portare la giacca in tintoria. Siamo convinti che l’argomento accusatorio della minaccia pubblica indiscriminata, costituita da chiunque decida di lottare senza coperture istituzionali, avrà un senso finché gli individui continueranno ad accettare inermi, a ingozzarsi di plateali falsità e a delegare la giustizia sociale, la solidarietà, la cultura e molto altro ancora, allo Stato. Ebbene, di uno sputo è capace chiunque, non ci sono carte da firmare, né bolli da pagare: una piccola libertà tutti se la possono prendere… e tuttavia, continua a sembrarci il minimo.

Alcuni ineducati anarchici Non presunti

Giovedì 9 novembre ore 9 davanti al Giudice di pace di Lecce, via Brenta, si terrà il processo contro il compagno accusato di aver sputato su Cesare Lodeserto. Mostriamogli il nostro affetto e la nostra solidarietà

[Testo distribuito a Lecce il 6 novembre 2006]

Nessun dorma

«Non dovete dormire tranquilli, bastardi». Pare che questa sia stata una delle frasi rivolte ai collaborazionisti del Cpt di Lecce nel corso di improvvise telefonate notturne. Vero o falso che sia, essa esprime in poche parole il senso di un’azione che non va confusa con una petizione.

Di fronte a un lager, di fronte a una qualsiasi infamia com-messa da esseri umani sulla pelle di altri esseri umani, c’è poco da chiedere il rispetto di diritti o l’osservanza di regole. Se chi è in alto si macchia le mani di sangue, se chi è in basso distoglie lo sguardo per non vedere, allora che nessun dorma. Che nessuno si culli nell’alibi del ruolo sociale, che nessuno assuma il sonnifero dell’irresponsabilità del siste-ma, che nessuno indossi il pigiama della divergenza di opinioni. Dopo l’orrore niente può più essere come prima. E l’orrore ha un nome e un cognome.

Nei Cpt si rinchiude, si umi-lia, si tortura, si deporta, si uc-cide. I loro cancelli sono forse troppo alti per essere scavalcati, le loro mura sono forse troppo protette per essere abbattute, ma gli aguzzini che vi lavorano vivono in mezzo a noi. Sono magari nostri vicini di casa, frequentano i soliti bar, vanno al cinema, partecipano a incontri pubblici…

Render loro la vita impossibile è il minimo che si possa fare a chi rende impossibile a centi-naia di stranieri poveri la mera sopravvivenza. La lotta contro i Cpt condotta a Lecce ne è un esempio. Non ha avuto bisogno di programmi e orga-nizzazioni, né di esperti e di militanti, ma solo di testardaggine e determinazione, di fantasia e astuzia. È solo grazie a ciò che non è stato dato un attimo di respiro a chi pensa che l’aguzzino sia un mestiere come un altro. Sotto le mura del lager e nelle strade della città — non nelle sale dei palazzi o nei corridoi di studi televisivi — la rabbia contro i carnefici e la solidarietà nei confronti delle loro vittime sono state talmente forti da non poter essere taciute.

[Pubblicato su “Tempi di guerra” n.5, giugno 2005]

Terrorismo, la strategia della repressione

Da Lecce, alla Sardegna, da Pescara a Bologna, sono finora 22 gli anarchici incarcerati, un centinaio di indagati e quasi il doppio delle perquisizioni. Il tutto nell’arco delle due prime settimane del maggio 2005. Per tutti gli arrestati e gran parte degli indagati l’accusa è di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo”, in base all’art.270 bis del c.p. Grazie a questo articolo, eredità del fascista codice penale “Rocco”, non c’è più bisogno di contestare alcun reato specifico per rinchiudere in cella ribelli e rivoluzionari. Fino a due anni di carcere preventivo, prima ancora che la faccenda entri in tribunale e senza l’odiosa necessità di dover fornire prove concrete legate a fatti specifici. Questo giro di vite sulla libertà di tutti si inscrive nello sciagurato progetto messo in piedi dal ministro Pisanu col suo ultimo decreto antiterrorismo: con questo testo di legge l’accusa infame di terrorismo può essere scagliata contro chiunque osi manifestare e diffondere dissenso verso l’operato di uno Stato o organizzazione internazionale…in questa prospettiva anche manifestare pretendendo il ritiro delle truppe è un atto di terrorismo. Mai dimenticare che siamo un paese belligerante e la guerra si combatte anche su “fronti interni”, così lo Stato ha sequestrato “preventivamente” anarchici e ribelli che attraverso l’azione diretta, non schermandosi dietro la delega politica, hanno dimostrato che colpire un ingranaggio del potere è possibile. Lo Stato teme che queste azioni e le idee che le sottendono possano dilagare nella società, spinte anche dalle sempre più precarie condizioni di sopravvivenza degli stessi cittadini di questo paese. Molti di questi anarchici si sono mossi contro il meccanismo delle espulsioni e della reclusione nei C.p.t, veri lager, all’altezza dei campi di concentramento nazisti. Ora, parte del teatrino politico, sull’onda dello scandalo suscitato da qualche ardito reporter, finge di scandalizzarsi e indignarsi…nascondendo che fino a ieri le lotte concrete, le ribellioni, interne ai lager, le rivolte e la solidarietà scaturite sono state da loro additate come vera violenza o addirittura vandalismo. I compagni reclusi, secondo le parole dei giornali “seminavano il terrore”… Sappiamo che il compito della stampa e dei media – tutti – è di fiancheggiare la repressione statale, facendola meglio penetrare nella vita sociale sotto forma di infamia e diffamazione; i compagni arrestati, semmai, seminano la gioia rivoluzionaria per la libertà e l’autodeterminazione delle proprie vite… Viene da pensare che se tutto ciò lo si può seminare, ci sarà anche il tempo per un buon raccolto.

Libertà per gli anarchici arrestati

Libertà per gli immigrati sequestrati

Il vero terrorista è lo Stato

[Volantino distribuito a Lecce il 21 ottobre 2005]

Sovversivi per la libertà

Come molti si ricorderanno il 12 maggio scorso l’operazione Nottetempo portò tre nostri compagni in galera, due compagne ai domiciliari e 15, diventati a fine indagine ben 18, indagati a piede libero. Tralasciando ogni discorso di colpevolezza/innocenza (in quanto pensiamo che la giustizia non si trovi nelle leggi ma in ognuno di noi e nelle relazioni tra le persone stesse) e le accuse specifiche di attacco a strutture legate alla reclusione e alla deportazione degli immigrati, come anche quelle riguardanti la Benetton, predatrice delle terre e dell’esistenza del popolo Mapuche in Argentina, e la Esso, responsabile tra i tanti, del genocidio del popolo irakeno, ci sembra necessario ricordare, ancora una volta, la “natura” di un’operazione repressiva come questa basata sull’accusa do associazione sovversiva (270 bis).

Operazione esemplare, che seppur presentata nell’ambito di una “crociata” anti-terrorismo o anti-anarchica, ha un altro significato: far capire, anche indirettamente, a tutti gli sfruttati (cioè a coloro che stanno al limite della sopportazione) che lo Stato è pronto a usare tutti i mezzi necessari per annientare sul nascere ogni conflitto sociale. Punire alcuni per educarne tanti. E avvisarli che tentare di conquistarsi migliori condizioni di vita non mediando con i suoi fedeli servi, (partiti, sindacati asserviti, giornalisti, ecc) è rischioso per la propria libertà personale…che la vita è con lo Stato, o meglio dentro di esso, o non sarà niente. Avvisarli che chiunque non seguirà le sue democratiche norme d’oppressione al servizio dei padroni sarà marchiato di terrorismo.

E a proposito di questo vanno spese due parole sul cosiddetto “Pacchetto Pisanu”, cioè su quelle leggi che, con la scusa di alcune risposte cieche e indiscriminate (ma anche esasperate e quantitativamente senza paragone rispetto al genocidio di un milione e mezzo di irakeni dichiarati dai governi occidentali al mondo intero, definiscono terroristiche “le condotte che per loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un paese o a un’organizzazione internazionale, e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un paese o di un organizzazione internazionale”,- che a ben vedere è proprio quello che fanno gli Stati occidentali-.

Da questa definizione si capisce molto meglio che chiunque è insoddisfatto e non disposto a piegarsi alle imposizioni di padroni e compagnia bella, e scende in piazza, come hanno fatto per esempio i lavoratori portuali in Corsica e a Marsiglia, sarà un terrorista e quindi andrà trattato a dovere, arrivando persino a vedersi di fronte l’esercito per aver occupato il proprio posto di lavoro e per rivoltarsi contro la possibilità di vedersi minacciata la propria precaria sopravvivenza e quella della propria famiglia. Ciò spiega tra le righe che in qualche modo lo Stato ha paura delle voci di dissenso e delle rivolte degli sfruttati, e senza problemi quanto prima, quando il fastidio si comincia a sentire per le strade, li zittisce e li rinchiude additandoli come criminali o terroristi, specie quando si tratta di voci di protesta senza possibilità di controllo istituzionale.

E’ così che due dei nostri compagni ancora pagano (senza nemmeno la fondatezza dell’accusa) con la reclusione in carcere e altri due ai domiciliari, in attesa del processo.

Questo è lo Stato in cui siamo costretti a sopravvivere, ed è questo fedele oppressore insieme al suo padrone, il Capitale, ad essere il vero nemico dell’umanità.

Ad ognuno di noi quindi la scelta: o accettare questa esistenza e questa organizzazione sociale, diventando complici dei torturatori (ossia i veri terroristi organizzati con tanto di leaders, ideologi e servi operativi al seguito) oppure combattere per la loro estinzione, cominciando a pensare al riscatto e a un’altra esistenza autorganizzata senza la mediazione di potere e denaro…

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 6, aprile 2006]

Operazione Facce Pulite

Con grande uso di artificio retorico e abbondanza di espressioni solenni, continua l’operazione di restauro d’immagine intrapresa da qualche mese a questa parte dalla Curia leccese, al fine di riemergere dallo scandalo sulle torture al Regina Pacis.

Occasione e pretesto, nostro malgrado, sono sempre i soliti noti… gli anarchici.

Quando, in maggio, un compagno sputò contro don Cesare Lodeserto, questi lo denunciò per vilipendio.

Qualche giorno fa si è tenuta l’udienza davanti al Giudice di Pace, in un’aula stracolma di guardie del corpo, polizia e digos.

Davanti alla proposta del giudice di ritirare la denuncia, Lodeserto consente, aggiungendo che la sua è una irrinunciabile – ma non meglio specificata – scelta di vita. Il compagno accetta che la denuncia venga ritirata e la questione si chiude così.

Ma la mossa della denuncia – e, di più, della sua revoca – è servita a far accendere i riflettori su una vicenda che altrimenti sarebbe rimasta… infruttuosa. Infatti, l’ufficio stampa della Curia manda immediatamente la sua versione dei fatti agli organi d’informazione locali e cioè che Lodeserto, coerentemente alla sua scelta di vita, avrebbe perdonato l’offesa recatagli.

Una strana coerenza la sua, dato che quel giorno di maggio non esitò affatto a sporgere denuncia!!! Ma forse, Lodeserto, ancora non aveva chiara quale fosse la sua scelta di vita!!!

Diligentemente, televisioni e giornali riportano la “bella favola” dichiarata dalla Curia, spacciandola per nuda e imparziale cronaca… come nel loro usuale stile professionale. Peccato che sia il contrario di quanto è realmente accaduto: infatti, il compagno non ha mai chiesto scusa.

Attraverso questa sfacciata e rozza operazione mediatica, gli aguzzini e gli speculatori hanno provato di nuovo a passare dalla parte degli offesi e mettersi nella posizione di coloro i quali elargiscono perdono, pur avendo molto da farsi perdonare… (proprio una bella faccia di bronzo!!!)

Una triste assurdità, questa, resa possibile dal potere esercitato dai media sull’indifferenza sociale.

Eppure… che tutti i CPT siano luoghi miserabili che vanno chiusi senza compromessi è – e rimane – una innegabile verità. Che la Chiesa di Lecce, col CPT di San Foca, ci abbia fatto tanti soldi, pure.

La verità non si serve della retorica e non ha bisogno di alcun perdono.

Nonostante le molte mistificazioni, a dispetto della malafede, essa continua ad esistere e a rovinare il sonno di molti…

Alcuni imperdonabili anarchici

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 7, dicembre 2006]

Il mito della memoria, la realtà del presente

[Volantino diffuso in occasione della partenza da Lecce di un treno diretto ad Auschwitz, oggi museo, nella giornata della memoria. Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 6, aprile 2006.]

Quello dell’olocausto è, e rimarrà sempre, l’elemento essenziale dell’esperienza europea, una condizione di responsabilità storica non liquidabile solo con l’argomento della “follia dei capi”.

La partecipazione delle masse, il loro coinvolgimento, la loro complicità sono aspetti, non certo marginali, che continuano a mandare in crisi ogni tentativo di comprensione.

Oggi, la tanta retorica del “non dimenticare” vorrebbe, paradossalmente, risolvere il problema seppellendolo per sempre sotto il peso di monumenti e celebrazioni…imponenze gelide e vuote con cui la coscienza collettiva usa spesso liberarsi dalla Storia.

Il vero potenziale della memoria, che è coscienza del passato, è invece, nella sua azione critica sul presente, è nel coraggio di guardarsi intorno, capire, agire di conseguenza.

Sei milioni di ebrei sterminati dalla civiltà europea. Come è potuto accadere tutto ciò?

Seppure è vero che furono i nazisti a commettere il crimine, è innegabile che ovunque, uomini e donne hanno usato la parola “razza” ne loro linguaggio quotidiano, comprendendone e giustificandone il senso. In milioni hanno assistito attoniti alla preparazione e alla realizzazione di ciò che fu l’olocausto.

Anche oggi l’indifferenza sociale allestisce il tetro scenario in cui un’umanità giudicata “irregolare” dagli Stati Occidentali, viene depredata dalla propria terra , rinchiusa in Lager, deportata fuori dalle frontiere di un’Europa sempre più simile ad una fortezza.

Oggi i lager si chiamano Centri di Permanenza Temporanea, le deportazioni avvengono non più nei vagoni merce ma con gli aerei dell’Alitalia, rapidi e “invisibili”, i perseguitati non sono più gli ebrei, ma tutti coloro che il mercato considera eccedenti, non utilizzabili nemmeno come manodopera sottopagata, i diseredati dalle guerre con cui l’Occidente stesso si arricchisce.

Oggi come ieri, i gestori dei lager accumulano enormi profitti e talvolta coprono la loro attività di sciacalli e carcerieri sotto la maschera di benefattori. E’ il caso della curia leccese che per anni ha gestito un Cpt a S.Foca, fin quando le violenze del direttore e segretario del vescovo, di sbirri e altri collaboratori, sono venute a galla in modo così plateale che il Centro ha dovuto chiudere (ma la curia continua tuttora a “investire” sulla disperazione dei migranti). Poco dopo, alcuni giovani che con generosità e coraggio si sono opposti a quel Lager, che ne hanno denunciato il carattere detentivo e razzista, sono stati arrestati nel maggio scorso con l’accusa di associazione sovversiva con finalità terroristiche; tuttora sono agli arresti in attesa di giudizio.

Questo accade qui ed ora, non nella Germania degli anni 30.

Oggi, la mistica del nazionalismo, fondamento dei totalitarismi di un tempo, si è solo aggiornata in stereotipi nuovi: l’appartenenza e l’identità da proteggere, il binomio immigrazione-malavita ne costituiscono solo alcuni.

La retorica della memoria, il luogo simbolico di un passato sempre più sbiadito, non serve che a dirottare gli sguardi all’indietro, col rischio reale di inciampare di uno spaventoso presente.

Oggi la consapevole coscienza del passato deve aiutare a lottare nel presente, riconoscendo i vecchi avvoltoi anche sotto le nuove sembianze di colombe.

No lager No espulsioni. Libertà per Saverio, Marina, Salvatore, Cristian.

Dichiarazione in Tribunale

Abbiamo deciso di rendere questa breve dichiarazione, per fare chiarezza su alcune questioni che ci riguardano, e contrastare le menzognere affermazioni rese in questa stessa aula dal prelato Cesare Lodeserto nella scorsa udienza.

Come scopo iniziale, intendiamo restituire alle parole il loro reale significato, che porta con sé dei contenuti precisi, ma quando l’interesse è quello di mascherare la realtà, il primo passo è nominarla in altro modo, violentarla, sino a farle perdere ogni corrispondenza col vero. È un artificio in gran voga di questi tempi, in cui l’uso corrente della Neolingua permette che le guerre siano chiamate “missioni di pace” o “operazioni umanitarie”, e i lager siano detti “centri di accoglienza”. Allo stesso modo, don Cesare definisce “ospiti” quelli che erano gli internati nel Regina Pacis, e parla di un sistema di “vigilanza passiva”. Certo è strano che per degli “ospiti” occorra un sistema di video-sorveglianza, che ci fossero – ed usiamo le sue stesse parole –, “forze di polizia che dovevano intervenire all’interno”, e ancora “arresti all’interno della struttura”, e che “le persone presenti all’interno erano […] catalogate secondo le disposizioni che prevede una struttura di questo tipo”. Catalogate, proprio come si fa con la merce. Anche i detenuti vengono immatricolati. Ed anche i deportati nei lager nazisti lo erano.

Passando ad altro, sia don Cesare che gli inquirenti hanno affermato che le rivolte all’interno del Regina Pacis, avvenivano quando noi anarchici eravamo a manifestare fuori da quelle lugubri mura. Possedere o meno simili capacità non ci interessa; come anarchici cerchiamo invece di dotarci di tutti gli strumenti utili per potere intervenire su una realtà che riteniamo intollerabile.

La questione è invece ben diversa e, se vogliamo, banale. La rivolta infatti sorge spontanea, laddove la dignità è calpestata e la vita è offesa; questa semplice verità la racconta la storia delle istituzioni totali in generale, e quella del Regina Pacis in particolare, come un lunghissimo elenco di episodi dimostra ampiamente. L’autodeterminazione degli individui, quindi, e non le capacità degli anarchici, sono alla base di ogni rivolta individuale e collettiva.

Infine, chiarezza meritano anche le affermazioni fatte da don Cesare Lodeserto riguardo all’episodio del 10 agosto 2004, che ha costretto un uomo rumeno di nemmeno trent’anni, Vasile Costantin, alla paralisi totale per tutto il resto della sua vita. Senza stare a discutere se sia vero quanto quest’uomo ha affermato, e cioè di essere stato picchiato mentre giaceva per terra, in seguito alla caduta dal muro di cinta – queste gentili pratiche delle forze dell’ordine le conosciamo bene –, teniamo a chiarire che mai, assolutamente mai, don Cesare o qualsiasi altro personaggio legato al Regina Pacis, si sia “occupato di lui in tutto e per tutto”, come è stato dichiarato. Lo hanno anzi abbandonato a se stesso, comunicando alla moglie lontana che era in fin di vita, e non fornendo più ulteriori notizie. Vasile, detto Vali, è stato seguito in ospedale, al Vito Fazzi di Lecce, da alcuni compagni, che lo hanno circondato dell’affetto e dell’amore che esprime un senso di solidarietà autentico, non vincolato da tornaconti economici o interessi personali. Ed è stato sempre l’interessamento dei compagni, e di altri individui sensibili, che ha permesso il ricovero di Vali in una struttura specializzata nella riabilitazione spinale, a Montecatone di Imola, dove è rimasto alcuni mesi; queste stesse persone, lo sostengono ancora ora che ha dovuto fare rientro in Romania. Questo, sia chiaro, non lo diciamo per apparire caritatevoli, umanitaristi, o appuntarci sul petto decorazioni che aborriamo, ma per ristabilire la verità storica e squarciare il velo di menzogne di cui ama ammantarsi don Cesare. Il quale, peraltro, si è recato in ospedale da Vali, solo dopo aver saputo che altri gli stavano esprimendo solidarietà, cercando in primis di ottenere informazioni su chi fossero questi ignoti solidali.

Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, nelle memorie che ha lasciato mentre era in carcere in Polonia, in attesa di essere giustiziato, ha scritto: «Non divenni mai sordo alle sofferenze umane: le ho sempre viste chiaramente e ne ho sofferto. Dovetti calpestarle perché non potevo permettermi di essere molle». Si faceva anche vanto di non aver picchiato, personalmente, mai un internato. Don Cesare non può dire neanche questo.

È tutto.

Saverio Alemanno, Annalisa Capone, Andrea D’Alba, Alessandro De Mitri, Marina Ferrari, Davide Margari, Cristian Paladini, Laura Prontera, Salvatore Signore

Lecce, 23 Novembre 2006

Seconda dichiarazione davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Lecce

Ne abbiamo sempre più consapevolezza.

L’intenzione di mettere da parte gli anarchici in qualsiasi modo è ormai dichiarata anche in questa aula di tribunale, come avviene in numerose altre Procure dello Stato, frutto di una precisa scelta del potere a livello nazionale. Il mezzo dell’associazione sovversiva sarà servito ad intralciare le nostre vite, interessi ed affetti, e ad ostacolare un percorso di lotta che a Lecce ha cercato di essere realmente incisivo nel territorio, facendo di fatto scontare una pena in maniera preventiva al di là che l’inchiesta porti o non porti ad una condanna più o meno grave.

Con ostinato impegno ci si prodiga nel negare e reprimere ogni possibile spazio di “socialità” in aula durante le pause delle udienze, fra chi di noi è agli arresti domiciliari e chi imputato a piede libero, per mantenere i compagni ristretti isolati dal loro contesto sociale e affettivo. In tal senso va interpretata anche la negazione di qualsiasi permesso lavorativo nei riguardi sempre dei compagni agli arresti domiciliari, che permetterebbe loro di autodeterminare le proprie esistenze.

Gli anarchici a Lecce si sono opposti alla esistenza intollerabile dei Cpt. Ma poiché lo sfruttamento e la repressione sono i cardini di questa società, lo Stato ha deciso di dar loro una lezione; il fatto che a gestire il Cpt locale ci fossero personaggi molto potenti, ha acuito la vendetta.

Ma gli anarchici sono una scintilla che può essere contagiosa, perché amano la libertà e non tollerano chi la vuole spegnere.

Nonostante tutti i vostri sforzi, le idee e la solidarietà non si possono ingabbiare.

Per questi motivi oggi abbiamo deciso di abbandonare l’aula, e di disertare la prossima udienza del 22 febbraio.

Alemanno Saverio, Capone Annalisa, D’Alba Andrea, De Carlo Massimo, De Mitri Alessandro, Ferrari Marina, Paladini Cristian, Pellegrino Saverio, Prontera Laura, Signore Salvatore

Lecce, 8 febbraio 2007

Davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Lecce

Dichiarazione di Marina

Parto dai fatti: l’arresto di cinque compagni qui a Lecce, avvenuto quasi contemporaneamente ad altri in tutta Italia, è stato l’occasione per una campagna mistificatoria e denigratoria.

L’accusa di aver costituito un’associazione sovversiva con finalità di eversione dell’ordinamento democratico ha preso corpo per il solo fatto di essere stata teorizzata dagli inquirenti. Anche i media hanno avuto un ruolo fondamentale in tal senso, perché a forza di ripetere frasi come “cellula anarchica”, “associazione”, “azioni violente”, ecc, qualcosa sarebbe dovuto e potuto rimanere nella convinzione della gente comune, al di là dell’esito del processo. Ancora oggi, questo terribilismo verbale continua ad essere usato, e si spinge fino alla completa invenzione di notizie.

Con accanimento e isterismo si è tentato di far tacere gli anarchici e presentarli come mostri, come avviene con tutti i ribelli e sulla base di queste premesse alcuni di noi hanno scontato una custodia cautelare di quasi due anni, mentre un interminato tira e molla continua a fare della loro libertà una sorta di lotteria. Le regole? Mero strumento di interpretazione; che nel mezzo ci siano degli individui poco importa a chi si dovrà esprimere sul caso.

Degli individui appunto e per giunta consapevoli di quello che sono e che vogliono. Nonostante tutto infatti gli anarchici non hanno abbassato la testa e hanno continuato a difendere la propria dignità e le proprie idee. E da questo deriva la loro pericolosità, perché in un’epoca di cancellazione del dissenso, questo come altri, risulta essere ancor più di un processo alle intenzioni, ma rappresenta un processo alla propria appartenenza, ai propri desideri, al proprio modo di essere, al fatto di pensare con la propria testa e agire di conseguenza.

Gli anarchici amano la libertà e sono contro le galere di ogni tipo, ma a loro questo non basta dirlo. Lo esprimono, lo manifestano, lo praticano con l’arma migliore che hanno a disposizione: la solidarietà. Ed è anche per questo che sono considerati pericolosi. In una società in cui si cerca di isolare sempre più gli individui e di creare il terrore nella mente di ognuno, la solidarietà, quella vera, quella che ti fa sentire vicino a perfetti sconosciuti o che coinvolge da ciò che è comune, non può che essere considerata pericolosa. Per tale motivo, anche laddove palesemente le proteste sono sociali, e frutto della presa di coscienza della gran parte delle persone che le hanno mosse, esse sono tacciate di terrorismo. Basta poco per essere definiti tali al giorno d’oggi, persino una scritta sui muri. La solidarietà si diceva, come fonte di sospetto per inquirenti vari; non le sono da meno l’amicizia, o l’amore, e una prova lampante di tutto ciò è stata data proprio in questa sede, dove numerosi testimoni dell’accusa hanno raccontato di relazioni, incontri, vicinanze, legami, a conferma che ciò che si persegue non sono affatto dei reati specifici o meno, ma un’idea e gli individui che la ritengono propria. Qualcuno obietterà che lo Stato democratico consente a chiunque di dire la propria nel rispetto dei diritti e delle garanzie personali. Bene, la mia custodia cautelare agli arresti domiciliari è stata giustificata dal fatto che nel 2004, in seguito all’arresto del mio compagno ho inviato delle mail in cui comunicavo l’accaduto.

Mentre si comprende il tentativo di impaurire e umiliare insito in queste basse manovre che provano a farci rinunciare alla nostra vita, ai nostri affetti, al nostro futuro, al nostro passato, ritengo che esse dimostrino ancora una volta l’infondatezza di tutto questo teorema, e l’affanno nel cercare di tenerlo in piedi.

Un altro elemento che ritengo ancor più lesivo della mia identità, è il tentativo di inquadrarmi in una sorta di organizzazione chiusa e rigida. Ciò è sintomatico dell’incapacità degli inquirenti di capire un modo di vivere orizzontale e privo di gerarchie, fatto di rispetto e reciprocità prima di tutto; loro, al contrario, sono in grado di individuare leader, capi e sottomessi tra chi, come noi, ripugna tali concetti. Così come affermato spesso negli atti dell’accusa, se si appartiene al genere femminile poi non si può che essere la fidanzata o la compagna del più autorevole maschio, o tutt’al più la sua manipolatrice a seconda dell’occorrenza del momento. Che uomo e donna si relazionino orizzontalmente non sembra proprio possibile.

È opportuno però giungere a ciò che formalmente si giudica in questo procedimento, l’esistenza o meno di un’associazione terroristica. Se si prende in considerazione la definizione classica di terrorismo come “l’uso della violenza indiscriminata al fine di conquistare, consolidare e difendere il potere politico”, si comprende bene chi sono i terroristi e dove siedono. L’imposizione, l’autorità, la forza, la violenza, quella diretta verso popolazioni inermi, sono i loro mezzi e le loro armi. Da chi dichiara e conduce una guerra, che ha l’effetto di uccidere milioni di civili, per di più con l’inganno, presentandola come utile e necessaria, a chi impone con la forza un’opera che devasta la natura e la vita dei suoi abitanti, a chi toglie loro le risorse per vivere. A ben vedere, tutti elementi collegati a un’altra ragione fondamentale di questo processo: la criminalizzazione delle lotte contro i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati. Oggi essi vengono definiti lager anche da quella sinistra che in Italia li ha istituiti e che pure intende confermarli, mentre da tempo molti individui tentano di smascherarne la natura e di affermare che, nonostante la propaganda mediatica continui a chiamarli, quasi sempre, centri di accoglienza, come fanno anche gli inquirenti nel loro comune linguaggio, essi, i Cpt, sono dei luoghi di reclusione per persone straniere la cui unica colpa è quella di non avere un documento in regola e, che per la gran parte dei casi, sono fuggite proprio da guerre, miseria, catastrofi, oppure sono semplicemente alla ricerca di condizioni di vita migliori. Ricerca che, molto spesso, costa loro anche la vita. Così, se da un lato si tenta di far passare a livello generale l’equazione clandestino = criminale e di occultare la natura dei luoghi in cui tali individui vengono rinchiusi (di cui un esempio, era appunto il Cpt di S. Foca), dall’altra, si è cercato di zittire con ogni mezzo necessario coloro che hanno ritenuto intollerabile questa realtà, e per farlo meglio li si è chiamati terroristi, come è accaduto a Lecce, utilizzando ad arte i media, per spaventare l’opinione pubblica e creare il vuoto attorno a loro. Ma questo non bastava, così la repressione è continuata colpendo chi ha solidarizzato con gli inquisiti, per dare una lezione che fosse definitiva e di anarchici a Lecce non se ne parlasse più.

Con un colpo di magia, due sedi aperte al pubblico in cui si realizzavano iniziative, concerti, dibattiti, cene sociali, cineforum, biblioteca e diffusione di libri, sono state considerate una specie di covo; i rapporti tra alcuni individui sono diventati un gruppo organizzato con capo annesso; qualsiasi azione avvenuta a Lecce e provincia è stata ricondotta a questi individui, mentre un proficuo taglia e cuci di frasi, citazioni, opinioni, rigorosamente slegate dal loro contesto, e la loro falsa o superficiale interpretazione, hanno costruito un programma truce degli stessi. Metodo che ha trovato conferma anche in questa sede, nella costante omissione da parte dell’accusa di tutto ciò che poteva risultare a favore degli imputati. Questo grottesco quadro è stato completato dalle esasperate attenzioni degli uomini in divisa rivolte verso libri, riviste, giornali, volantini, manifesti, materiale informativo magari conosciuto anche da decenni. Sarà per questo, mi sono detta, che tentano di togliere di mezzo gli anarchici, magari “regalandogli” un po’ di anni di galera come se nulla fosse, perché scrivono e pensano troppo.

In conclusione, posso dire di essere consapevole che la repressione che ci ha coinvolto viene subita ogni giorno dai ribelli e dagli esclusi di questa opulenta società sull’orlo del baratro, e che le condizioni di vita a noi imposte in questi mesi di privazione della libertà (isolamento, privazione degli affetti, intrusione e controllo morboso e ossessivo della vita personale), sono vissute, a volte in situazioni drammatiche, dalle migliaia di detenuti in Italia e nel mondo e dagli stranieri trattenuti nei Cpt, o in altri moderni lager, mentre un delirio generalizzato punta tutto sulla questione sicurezza, evitando di vedere la precarizzazione diffusa che coinvolge sempre più persone. Ed è proprio perché mi sento straniera tra gli stranieri che desidero ricordare Vasile Costantin, un uomo rumeno che, il 10 agosto 2004, è rimasto completamente paralizzato nel tentativo di fuggire dal Centro di Permanenza Temporanea di S. Foca (Le). La sua storia, come tante altre, è esplicativa della vera violenza cui ci troviamo di fronte, quella che spossessa della propria vita ogni giorno milioni di individui. La gestione di questa privazione, propagandata come carità, ma talmente falsa da essere smascherata anche dalla magistratura, è stata spesso giustificata dai suoi responsabili, e mi riferisco in particolar modo alla struttura di S. Foca, come la semplice e necessaria esecuzione della legge. Le numerose fughe e rivolte che nei Cpt si sono avute, compreso il “Regina Pacis”, hanno mostrato più di tutto, la realtà che quei luoghi rappresentavano e ciò che quella legge era stata e continua ad essere: il frutto di razzismo, sfruttamento e repressione. D’altro canto anche i lager nazisti erano legali così come le leggi razziali italiane, ma non erano certo legittimi.

Con questo scritto, rimando al mittente l’appellativo di terrorista.

Lecce, 28 giugno 2007

Marina Ferrari

Dichiarazione di Salvatore

«Vi sono situazioni, infine, in cui ogni uomo appassionato è obbligato a scrivere. Quando la tribuna è muta e il popolo schiacciato, quando una società di schiavi ha per re il bottegaio, quando sono condannati tutti quelli che pensano, bisogna bene che, esiliati dal presente, questi si intrattengano con l’avvenire».

Ernest Cœurderoy, Giorni d’esilio

Voglio innanzitutto chiarire che la lettura delle dichiarazioni che seguono, non ha assolutamente carattere giustificazionista, perché non ho nulla di cui giustificarmi, né tanto meno può averne in un’ottica chiarificatoria all’interno di quest’aula, dove difficilmente potranno essere comprese nella pienezza del loro significato. Questo non perché io vi consideri stupidi, ma perché sono ben cosciente del fatto che, dati gli opposti “campi di appartenenza” – voi in rappresentanza del potere costituito, io di un suo nemico – ci si muova su piani comprensivi ed interpretativi della realtà, assolutamente “altri” e reciprocamente alieni. Trattandosi però di un processo evidentemente ed esclusivamente politico, e quindi sociale, quello che qui mi vede in veste di imputato, non posso e non voglio esimermi dall’esprimere quello che penso, fermo restando che questi miei pensieri sono diretti fuori, indirizzati a quel tessuto sociale e a tutta la vasta schiera di sfruttati, di esclusi, nei quali mi riconosco ed a cui mi sono sempre rivolto, nei modi e con i mezzi di cui dispongo e di cui, nel tempo, mi sono dotato.

Affermato ciò, la prima cosa che tengo a dire è che rimando al mittente l’epiteto di “terrorista”, più volte espresso nei miei confronti, da quando questa storia ha avuto inizio, ma anche da prima; ciò avviene, come sempre, principalmente per contribuire a costruire una adeguata opinione pubblica, che «è fatta dagli imbecilli», come giustamente sosteneva Stendhal, e preparare quindi il campo alla persecuzione ed alla repressione; è un concetto che riprenderò in seguito. Da parte mia, come già spesso mi è capitato di fare, ribadisco che storicamente il terrorismo è sempre stato l’arma privilegiata degli Stati, che si sia trattato di vecchi imperi o, più di recente, di dittature nazi-fasciste, socialiste o avanzate democrazie. Sebbene i detentori del potere, e quindi i manipolatori della Storia e della Cultura, cerchino di cambiarne il significato, il termine terrorismo va inteso come «l’uso della violenza indiscriminata al fine di conquistare, consolidare e difendere il potere politico». Contrariamente a ciò, quando anche gli anarchici, nel corso della loro storia, hanno deciso di utilizzare la violenza, non vi hanno mai fatto ricorso in maniera indiscriminata, ed è poi quantomeno ridicolo pensare che gli anarchici vogliano conquistare il potere quando, invece, il loro scopo è abbatterlo. Del resto, le bombe sui treni e nelle piazze, il massacro di intere popolazioni o “l’esportazione della democrazia”, non sono certo pratiche anarchiche.

Riguardo invece alla qualifica di sovversivo, ammetto candidamente di esserlo. In che altro modo può essere considerato, infatti, un individuo che disprezza profondamente qualunque tipo di potere, e si batte per una società totalmente “altra” e per la libertà di tutti gli esseri viventi, indistintamente? È certo che ciò, inserito all’interno di un mondo e di relazioni sociali fondate invece sullo sfruttamento, sulla spoliazione, sull’esclusione e sulla sopraffazione sistematica dell’altro, del più debole, siano pratica e pensiero profondamente sovversivi. Per contro, non potrei mai appartenere ad una “associazione” sovversiva, che sarebbe davvero ben poca cosa, impedito in ciò proprio dal mio essere anarchico – che rivendico con fermezza – che qui si processa.

In quanto tale, pongo infatti due principi irrinunciabili davanti a me: l’individuo e l’antiautoritarismo. In virtù di questi, che per me sono valori fondamentali, non potrei mai organizzarmi in maniera non solo verticistica – sono stato definito “leader” e “capo” e occuperei una “posizione apicale” secondo l’accusa; tutti termini che mi ripugnano profondamente –, ma neanche potrei organizzarmi in maniera rigida, perché in questo caso l’organizzazione stessa mi sovrasterebbe, ed io ne diventerei un semplice strumento, una mera appendice e la mia individualità, il mio essere individuo unico tra altri unici, scomparirebbe dietro di essa. Invece, mi rapporto con gli altri sulla base delle necessità del momento, dell’amore, dell’amicizia, dell’affinità che ad essi mi legano, e posso rapportarmi per un istante e subito dopo essere in netto disaccordo su un’altra questione, ma questo rapporto si svolge sempre in maniera orizzontale, informale, mai gerarchica, proprio per il principio di base dell’antiautoritarismo. Secondo questa libera e temporanea unione, come individuo anarchico sono libero di muovermi autonomamente, da solo o con chiunque voglia rapportarsi con me; al contrario, in una struttura organizzata, gli individui si muovono solo all’interno di questa “associazione”, esattamente come i partiti. Agire in questo modo sarebbe religione, ma come anarchico sono contro i partiti e le religioni, qualunque significato ad esse si voglia attribuire, nel senso che sarei anche contro l’anarchismo stesso se dovesse diventare dogma, e quindi religione, esso stesso.

Un’altra delle accuse che mi sono state mosse e su cui tengo a far chiarezza, perché mi disgusta, è quella di fare “proselitismo”. È una cosa che non ho mai fatto, perché è pratica che appartiene, giusto per fare qualche esempio, alle varie forze armate che girano per le scuole ad incoraggiare i ragazzi all’arruolamento, ed ai preti e ai missionari, in ogni parte del mondo, ma io sono sempre stato immune da questa “logica del missionario”. Per me quella del cambiamento sociale non è una missione storica che sono chiamato a compiere, né tanto meno una ineluttabilità figlia di un sogno determinista, bensì una possibilità aperta che potrà o meno realizzarsi, che potrà o non potrà essere giusta e valida, e non sarà nessun “partito” di anarchici a poter trasformare radicalmente il mondo ma, semmai, gli sfruttati che si autorganizzano, assieme alla presenza degli anarchici. Se vivessi il mio pensiero e la mia vita come missione storica, anche questo scavalcherebbe la mia volontà, trasformandola ancora una volta in strumento di qualcosa che non mi appartiene, e quindi, tutto il contrario dell’individualità. Io sparirei dietro la missione storica, dietro l’ideologia. Invece, non ho mai avuto la presunzione di essere detentore della verità di fronte a masse ignoranti che non hanno capito nulla e che sono chiamato a “convertire”, a “catechizzare”; in questo modo mi porrei in un’ottica avanguardista che gli anarchici, storicamente, rifuggono: non ho mai preteso, né ambito ad essere, avanguardia di chicchessia. Ciò che invece faccio e qui si pretende giudicare, attraverso articoli sui nostri giornali, manifesti, comizi, diffusione di libri, manifestazioni, assemblee e tutte le iniziative a cui ho preso parte, si chiama propaganda, ovvero uno strumento per l’esposizione del mio pensiero e l’espressione delle mie idee. E si badi bene che ho detto Idee, non mere e stupide opinioni, che delle idee rappresentano solo il guscio svuotato del contenuto e del loro potenziale sovversivo. No. Le idee sono qualcosa di più, sono pericolose, soprattutto in tempi d’anestesia sociale quali quelli che viviamo, ed è per questo che fanno paura.

Ecco allora qual è il vero punto: che cosa si processa, realmente, in questo tribunale? Non certo dei “reati”, per giustificare la maggior parte dei quali gli inquirenti hanno dovuto costruire “prove” ed interpretare parole, frasi e concetti a modo loro, evidenziando quel che gli torna opportuno ed omettendo tutto il resto; no, non è questo. Qui si processano l’idea, il pensiero e la pratica anarchica, ed alla storiella dello “Stato di diritto” non può credere più nessuno, tanto più che, come aveva ben intuito Hobbes, «a parità di diritti, vince la forza».

Diventa quindi evidente che i tribunali sono a tutela degli interessi di classe, quella degli inclusi, contro la stragrande maggioranza di popolazione esclusa, sempre in costante aumento. Basta osservare la composizione sociale del corpo prigioniero che popola le democraticissime carceri italiane, per trovare la migliore conferma a queste affermazioni. È quindi intollerabile lasciare a piede libero degli individui che propugnano la libertà, l’abbattimento di ogni potere ed una vita degna di essere vissuta per tutti. Non è una caso che sia in atto un continuo e costante attacco a quello che genericamente si può definire “movimento anarchico”, attacco che ha subìto un incremento negli ultimi dieci anni; tutto ciò è reso possibile anche per via della linea emergenziale che lo Stato adotta e su cui fonda ormai la sua stessa sopravvivenza; è ormai norma quella di creare costantemente un nemico fittizio verso cui incanalare le paure dei propri sudditi, in modo tale da costringerli a fare fronte comune contro il “pericolo” di turno, evitando che possano alzare gli occhi e smascherare i reali responsabili della propria miseria: un giorno è l’emergenza mafia, un altro quella ambientale, un altro ancora è l’emergenza immigrazione. In questa logica è stato creato oggi il nemico esterno – gli stranieri in genere, e gli arabi in particolare –, e quello interno – tutti gli oppositori a questo stato di cose, e gli anarchici in particolare.

Contro gli anarchici sono stati intentati decine di processi per associazione sovversiva, quasi tutti clamorosamente risoltisi in nulla. Quello che qui si cerca di ottenere, quindi, non è tanto e solo di incarcerare me e qualche altro compagno, che sarebbe un ben misero risultato, ma si tenta di arrivare con ogni mezzo ad una condanna che diventi semplice sentenza di Cassazione da citare in futuri procedimenti penali, per sbarazzarsi finalmente degli anarchici per un po’ di anni, e che sia da monito per tutti gli altri. Le teste pensanti dello Stato hanno certamente creduto che Lecce possa essere la piazza giusta per creare questo precedente, per vari motivi: perché ci troviamo in una piccola città di provincia, alla periferia dell’Impero, dove secondo le loro previsioni ci sarà meno clamore, e perché non esistono precedenti specifici. Ma la cosa davvero straordinaria è che si voglia arrivare ad una condanna, alla creazione di questo precedente, adoperando gli stessi strumenti che altrove hanno fallito, cioè questa barzelletta vecchia come il cucco, che riempie gli scritti di inquirenti e Pubblico Ministero, secondo cui gli anarchici agirebbero strutturandosi su un doppio livello – pubblico e clandestino – e la volutamente distorta e falsa interpretazione di alcuni scritti pubblicati su vari libri da un compagno. Tutto ciò, non fa che dimostrare lo svolgimento di un unico filo repressivo su scala nazionale, applicato a livello locale solo per poterlo meglio gestire. Ancora pochi passi in questa direzione e chissà che non si arrivi al punto di criminalizzare chiunque avrà in casa determinati libri! In fondo, è stato questo ad essere cercato e sequestrato nel corso delle perquisizioni effettuate in concomitanza ai nostri arresti… È indicativo dei tempi che viviamo ricordare che la caccia ai “libri pericolosi” sia avvenuta, per esempio, durante l’inquisizione ed il nazismo, ed altrettanto indicativo è ricordare che proprio pochi giorni fa a Bologna sono state eseguite perquisizioni ed aperta una indagine per associazione sovversiva, col pretesto della diffusione di un opuscolo di critica alla famigerata “Legge Biagi” ad opera di alcuni compagni! È poi curioso che si indichino alcuni scritti come fonte di determinate teorie e strategie, nonostante i vostri stessi tribunali abbiano sentenziato la falsità di tali costruzioni!

Contrariamente a quanto l’accusa cerca di far credere, io come individuo sono pericoloso non perché parlo ed agisco clandestinamente, ma per il motivo esattamente opposto: perché non ho bisogno di farlo. Credo di essere un uomo libero conseguente a me stesso, o quantomeno ci provo, quindi dico apertamente ciò che penso e faccio quel che dico: la teoria si riversa nella pratica e la pratica si fa teoria, e capisco come tutto ciò possa risultare fastidioso e spiacevole per il potere costituito. Come sia spiacevole per esempio per la sindaca Poli che nella sua “polis”, cioè in una città governata da una cupola di sfruttatori sotto cui si piegano gli schiavi, ci sia ancora qualcuno che voglia riappropriarsi dell’”agorà”, in quanto libera piazza, luogo di discussione e di divulgazione di quella cosa terribile che tanto spaventa: l’Idea. Sanno bene infatti gli inquirenti, perché più volte mi hanno controllato o anche ostacolato e provato a fermarmi, che contrariamente a quanto affermano, io soffro il chiuso di quelli che si vogliono far passare come “covi” – ovvero le nostre sedi –, tanto più che sarebbe anche un grave errore tattico da parte mia, perché gli esclusi a cui mi rivolgo non sono certo abituali frequentatori di tali posti.

Tanto più pericolosi e fastidiosi, assolutamente da arginare, poi, sono il mio pensiero e la mia pratica anarchica, quando dirette a smascherare e contrastare la violenza e il terrorismo di uomini molto, molto influenti, e quella intrinseca che si perpetra all’interno dei nuovi lager di Stato, i cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea. Il pretesto con cui sono stato incarcerato e vengo processato, infatti, è proprio la mia opposizione radicale a questi luoghi.

Io rivendico con forza il mio percorso di lotta contro di essi, e contro il Regina Pacis in particolare, un luogo infame che fortunatamente ha smesso di esistere, per quanto il suo cadavere continui ad emanare un tanfo indicibile, e le sue mura ancora trasudino del sangue e della rabbia delle migliaia di individui che vi sono stati rinchiusi e violentati delle loro vite. A mio avviso, simili luoghi non solo dovrebbero essere chiusi ma essere completamente abbattuti, rasi al suolo in maniera definitiva, affinché non permanga nel tempo neanche il ricordo di infamie così grandi; altro che “giornata della memoria” di cui si fa una gran parlare da alcuni anni: se non vivessimo in un mondo alla rovescia, quella da istituire sarebbe probabilmente la “giornata dell’oblio”, la rimozione totale, sotto ogni aspetto, dei lager. E sia chiaro che non uso il termine “lager” per un artificio retorico, oppure perché è ora di gran moda anche tra i rappresentanti politici della sinistra che li ha istituiti, ma per una definizione rigorosa. Come nei vecchi campi coloniali e nazi-fascisti, infatti, chi vi è rinchiuso non è accusato di aver commesso nessun reato, ma si tratta semplicemente di indesiderati a disposizione degli organi di polizia e, in fondo, anche dei padroni di turno; oltre ad avere funzione di contenimento, i Cpt sono funzionali ad operare una sorta di scrematura della forza lavoro straniera, maggiormente ricattabile: non bisogna infatti sottovalutare l’importanza dello sfruttamento di tale forza lavoro, all’interno di un regime di economia capitalista.

Un ultimo aspetto su cui ritengo importante soffermarmi è il particolare momento in cui sono scattati gli arresti che mi hanno coinvolto, giunti a chiudere il cerchio di una teorema che si voleva ben orchestrato. Si è cercato chiaramente di spostare l’attenzione dall’avvenuto arresto del direttore del Regina Pacis, don Cesare Lodeserto, e dai numerosi guai giudiziari che vedevano, e vedono coinvolto, lui e tutto lo staff di cui degnamente si circondava nella gestione del lager: operatori, medici, carabinieri. Queste vicende hanno pubblicamente sollevato il velo sulla realtà di questi luoghi, hanno allargato nel muro una breccia che per anni anch’io ho provato ad aprire e permesso a tutti di guardarci dentro; è a questo punto che si è reso indispensabile deviare lo sguardo, e quale colpo migliore, quindi, che spostare l’attenzione sui suoi più acerrimi nemici? Nulla che mi meravigli: semplicemente un braccio dello Stato che arriva in soccorso dell’altro che in quel momento si trova in difficoltà. C’è un detto popolare che sintetizza bene il concetto, e dice che «una mano lava l’altra, e tutte e due lavano la faccia».

Nel periodo della mia detenzione ho potuto toccare con mano, personalmente, l’accanimento esasperato che lo Stato attua nei confronti della parola, di cui si è dichiarato spietato nemico e contro la quale ha mosso guerra totale, come già emergeva chiaramente dal controllo su tutti i miei discorsi con anni di intercettazioni, e dalla enorme mole di materiale cartaceo sequestrato nella mia abitazione. Un odio ed un controllo verso la parola in ogni suo aspetto: scritta e parlata e quindi, fondamentalmente, pensata. Si tratta del tentativo di “suicidare” l’assunto cartesiano «penso, quindi sono», perché non si vuole più che gli individui continuino ad essere, in un sistema sociale in cui più degli “esseri” contano gli “averi”, e non è solo questione di un verbo ausiliare che si sostituisce ad un altro.

Me ne sono reso conto dall’accanimento della censura – ufficiale e non, che tuttora prosegue… – nei riguardi delle mie lettere e delle mie letture, ed il senso di tutto ciò è racchiuso in una sola ma indicativa frase, più volte ripetuta, con cui un ispettore di polizia penitenziaria ha risposto alle mie reiterate proteste per avere dei libri, bloccati dalla censura per due mesi: «Lei legge troppo!»

Ecco, questa breve frase a mio avviso è pregna di significati e contiene in sé tutto il senso della mia carcerazione e del mio processo: «Lei legge troppo!». Se le cose stanno così, sono spiacente, ma non mi sento di potervi tranquillizzare, perché io continuerò a pensare, quindi a leggere, scrivere e parlare, e quindi a lottare, a prescindere che i prossimi anni mi trovino dall’una o dall’altra parte delle sbarre di questa galera a cielo aperto chiamata società, convinto come sono che nei tribunali non si amministra la giustizia, ma si esegue la vendetta.

Tranne che non si dia per buono quanto affermava Dostoevskij, che ha scritto: «Quando divennero criminali si inventarono la giustizia e si imposero tutta una serie di codici per conservarla, e per conservare i codici essi installarono la ghigliottina». In tal caso, l’innocenza è davvero la cosa peggiore che possa capitare.

Non ho altro da dirvi.

Salvatore Signore

Lecce, 28 giugno 2007

Dichiarazione di Cristian

Sono due, fondamentalmente, le ragioni per cui siedo su questa sedia in qualità di imputato, unico ruolo che, mio malgrado, posso rivestire in un’aula di tribunale.

Innanzitutto sono un rivoluzionario e sono un anarchico e, a giudicare dal numero delle compagne e dei compagni che tuttora sono sequestrati nelle galere dello Stato italiano, questo, di per sé, pare già essere un motivo sufficiente. Del resto, chi vuole rompere con questa maledetta organizzazione sociale assassina basata sulla miseria e sullo sfruttamento, cos’altro mai potrebbe aspettarsi da quella classe che detiene il potere, che non intende affatto rinunciarvi, e di cui questo tribunale non è che una semplice espressione chiamata a tutelarne gli interessi?

La seconda ragione in realtà è intimamente legata alla prima, o meglio ne è una diretta e logica conseguenza, visto che si tratta delle lotte che, da anarchico e rivoluzionario in questa società, ho intrapreso e portato avanti negli ultimi anni.

Ecco allora che, dopo aver cercato di preparare socialmente il terreno con un periodo piuttosto lungo di criminalizzazione preliminare, ad opera dei soliti pennivendoli di stampa e televisione, puntualmente e senza alcuna sorpresa è arrivato il carcere. Prima quello propriamente detto in una cella di circa 8 mq da dividere in tre per oltre venti ore al giorno, poi quello domiciliare dove le sbarre a porte e finestre ci sono ma non si vedono. Quest’ultimo, che pure sotto certi aspetti è meno afflittivo, si presta meglio a servire il disegno statale del completo isolamento, venendo meno anche la possibilità del confronto con gli altri prigionieri ed essendo costretti ad affidarsi, come unico mezzo per mantenere i propri rapporti, alla corrispondenza epistolare, che come sa benissimo questo Pm – perché ne ha dirette responsabilità – è decisamente poco affidabile.

In questo modo dal 12 maggio 2005 sono trascorsi un anno e dieci mesi che i miei compagni, le mie compagne ed io abbiamo vissuto tra isolamento, trasferimenti, continui tentativi di intimidazione, angherie e abusi di ogni genere, ma sempre confortati e sostenuti dall’affetto e dalla solidarietà pratica di tanti altri sfruttati come noi. Certo non è stato facile, come non lo è per tutte le donne e per tutti gli uomini reclusi in ogni tempo e in ogni luogo, ma non è mio interesse lamentarmi, presentarmi come un semplice dissidente che, per un errore di valutazione o chissà cos’altro, si è trovato coinvolto in una clamorosa montatura giudiziaria e che ora attende di avere giustizia.

Nulla è più lontano dal mio modo di essere e di vivere. Condanna o assoluzione, la giustizia – quella vera – non abita mai le aule di un tribunale.

È vero questa è sì una montatura, per giunta decisamente grossolana e a tratti anche piuttosto ridicola, ma lo è unicamente perché l’Accusa, non avendo alcuna prova tra le mani, ha pensato bene di ricorrere al vecchio e sempre utile costume di costruirsele da sé, deformando la realtà, stravolgendo le conversazioni ignobilmente origliate, e cancellando i contesti, al fine di rappresentarci come un’associazione sovversiva punibile dall’art.270 bis. Quando si mente di professione probabilmente alla lunga non ci si rende più conto di quale sia la misura entro cui rimanere per non dirla troppo grossa. Deve essere così, credo, che questo Pubblico Ministero, cercando di conciliare l’inconciliabile, si è spinto oltre, riuscendo ad individuare una struttura gerarchica con leader, capi e gregari, a regolare i rapporti tra individui che sono anarchici e che perciò detestano l’autorità.

Ma, imbrogli a parte, il Potere nel mio caso c’ha visto giusto: ha visto un individuo che rifiuta lo Stato, non si cura delle sue leggi e desidera ardentemente la sovversione di questo esistente in catene; sbarazzarsi di ogni autorità per creare le condizioni per una vita libera e degna. Questa è l’idea pericolosa che, per quanto si affannino a dichiarare il contrario, il Potere non può permettersi di tollerare, ben al di là delle ormai logore chiacchiere su libertà e diritti su cui si fonda l’ideologia del regime.

In realtà nei diritti non c’è nessuna libertà. Il diritto non è altro che una concessione che si riceve in quanto vassalli, che, come tale, può essere sospeso e soppresso, che rafforza il potere di chi lo concede, e che lo Stato dà e toglie unicamente sulla base delle sue esigenze di conservazione. Compreso ciò, non stupirà ad esempio che l’art.270 bis, di cui siamo accusati, sia figlio del vecchio art.270, concepito durante la dittatura fascista con il Codice Rocco come strumento per reprimere gli oppositori e che poi è passato indenne dal ventennio alla Repubblica che si fregia di essere nata dalla Resistenza. In altre parole, quella che in dittatura era l’arma legislativa più valida per schiacciare il dissenso è stata conservata, e anzi migliorata nel tempo per far fronte alle mutate condizioni storiche, attraversando i decenni e i governi di ogni colore come segno di continuità tra due poteri che evidentemente non sono, nella sostanza, poi così diversi. L’applicazione di questo articolo, che prevede una custodia cautelare prorogabile di sei mesi in sei mesi fino ad un massimo di due anni, ha permesso allo Stato di farci scontare, di fatto, una pena considerevole prima ancora che sia emesso un giudizio, smentendo nella pratica il principio della cosiddetta “presunzione d’innocenza”, da cui probabilmente il buon suddito democratico ama tanto sentirsi tutelato.

Tra le accuse per i reati specifici che ci vengono mosse molte riguardano la lotta per la chiusura dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e, in particolare, per quella del famigerato Regina Pacis di San Foca, lucrosamente gestito fino al marzo di due anni fa, data della sua chiusura, dall’omonima Fondazione della curia leccese. Ancora meglio, se possibile, il tema dei CPT e delle espulsioni rende visibile il filo che lega il presente al passato, un passato che non passa. I campi di concentramento fascisti e nazisti, prima di diventare centri di sistematico sterminio, erano luoghi in cui si veniva rinchiusi a seguito di una disposizione di polizia e senza aver commesso alcun reato. È esattamente ciò che accade nei CPT. Ecco perché, da sempre, li chiamo lager. In questi moderni lager ad essere rinchiusi sono gli immigrati che, tra mille peripezie e spesso a rischio della vita – i fondali del Mediterraneo sono ormai veri e propri cimiteri senza croci e senza nomi – riescono a raggiungere il territorio italiano, ma senza avere in tasca il documento necessario per restarci. Per loro, colpevoli di essere poveri e stranieri in fuga, alla disperata ricerca di una vita migliore, il razzismo di Stato ha stabilito che vengano rinchiusi, a causa di quello che per un italiano sarebbe solo un “illecito amministrativo”. Trattenuti per il tempo necessario ad essere identificati, sulla carta massimo 60 giorni, saranno in seguito deportati, con la collaborazione di compagnie come Alitalia e Trenitalia, verso i luoghi di origine o comunque, è questo che conta, fuori dalla fortezza Europa. Diversamente si troveranno in mano un decreto di espulsione che intima loro di lasciare il Paese in pochi giorni. Per chi non obbedisce c’è la galera. Non avendo scelta di fronte alla fame, alla miseria e alla guerra da cui si è scappati, si è costretti a vivere nell’ombra, perennemente braccati dalle forze dell’ordine, sfuggire ai rastrellamenti, scontrarsi con i pregiudizi e con l’ostilità fomentata dalla propaganda mediatica che dipinge il clandestino come un criminale e un potenziale “terrorista”, racimolare qualcosa di che sopravvivere accettando condizioni di lavoro ancora più odiose, perché si è ancora più ricattabili sotto la minaccia dell’espulsione, convivendo costantemente col terrore di essere presi, sbattuti in un CPT, e poi rispediti a ritroso lungo quello che era il viaggio della speranza. La condizione di “clandestinità” degli immigrati risponde, quindi, ad un preciso progetto di sfruttamento: i padroni, da un lato, richiedono la manodopera legale di cui hanno bisogno allo Stato che, con questo criterio, stabilisce le quote d’ingresso; dall’altro dispongono di enormi serbatoi di indesiderabili come forza lavoro sfruttabile fino all’osso perché priva di qualunque diritto. Ovviamente, al contempo, non mancano di utilizzare questi ultimi come monito per tenere a freno le possibili rivendicazioni dei primi, ricordando loro che il permesso di soggiorno è strettamente legato alla presenza di un contratto di lavoro…

Tutto a questo mondo è subordinato alle ragioni dell’economia. È una verità talmente lampante che il Potere non si prende nemmeno la briga di mascherarla, anzi un po’ per volta ce la somministra come una realtà ineluttabile, da cui tutti trarremo vantaggio.

Per falsificarla la realtà invece, sembra che l’espediente più utile sia nominare le cose con parole che abbiano un significato quanto più lontano possibile dal vero. È così che è stata coniata l’espressione “guerra umanitaria”, o che i lager per immigrati sono stati chiamati “centri d’accoglienza” e i reclusi nientemeno che “ospiti”, come ha dichiarato proprio in quest’aula quel (a questo punto) “carceriere-benefattore” di don Cesare Lodeserto. Secondo quanto raccontano gli internati, il Regina Pacis, di cui era direttore, è stato ripetutamente teatro di violenze, pestaggi e vessazioni di ogni sorta, soprattutto come rappresaglia in seguito a rivolte e tentativi di evasione. Ma anche se atrocità simili non fossero mai accadute, la mia lotta per pretendere la chiusura di quel lager sarebbe stata la stessa, perché il problema centrale non è come il CPT è gestito, ma è la sua stessa esistenza, in quanto luogo di reclusione. Da tempo questi luoghi sono chiamati lager addirittura da quella sinistra che, con i propri voti, ha contribuito a crearli e da tanta parte della società civile, senza tuttavia che a ciò seguano conseguenze pratiche. I nuovi governanti che, per puro calcolo politico, si erano espressi nel loro programma elettorale a favore di un volutamente vago “superamento” dei CPT, ora hanno girato le carte in tavola: il “superamento” altro non è che una razionalizzazione di questi luoghi. Verrebbero ridotti di numero, resi ancora più blindati, e servirebbero ad imprigionare “solo” i cosiddetti “irriducibili”, ossia coloro che non sarebbero disponibili a collaborare con la polizia per farsi identificare e rimpatriare volontariamente. Nient’altro che una fregatura per quei poveri illusi che li hanno votati. La verità è che, come la stessa classe politica ammette, i CPT sono necessari nell’attuale gestione della questione immigrazione, al punto che, pur rappresentando la completa demistificazione della menzogna democratica, e svelando come l’esclusione sia a fondamento della democrazia, il Potere non ne può fare a meno. Da parte mia la faccenda non si sposta di un capello, ho sempre saputo che i CPT scompariranno solo se e quando avremo socialmente la forza per imporlo. Perciò, oggi come ieri, continuo la mia battaglia contro i lager e le espulsioni, individuando le responsabilità di coloro (gestori e collaborazionisti) che ne permettono materialmente l’esistenza ed il funzionamento, e comportandomi di conseguenza senza mai perdere di vista il nesso che esiste tra CPT, guerra permanente e militarizzazione della società.

La martellante propaganda del regime da sempre si serve della paura come mezzo attraverso il quale produrre consenso. La continua creazione di una minaccia, di volta in volta opportunamente enfatizzata, giustifica un controllo sempre più asfissiante su ogni aspetto della vita e permette al Potere di dotarsi di leggi via via più liberticide. Il nemico è ovunque, è chiamato “terrorista” e può avere all’occorrenza le sembianze dell’immigrato come quelle del rivoluzionario. La realtà è capovolta: chi massacra a cuor leggero intere popolazioni per il controllo delle risorse energetiche, accusa di terrorismo chi lotta per la libertà. Ma se il terrorismo è, secondo la sua definizione storica, l’uso indiscriminato della violenza per conquistare e mantenere il potere, allora è quanto mai evidente ad essere TERRORISTA È LO STATO!

Cristian Paladini

Le catene dell’umanità sono fatte di carta di Ministero

Chi ama la libertà non tollera che l’esclusione sia la quotidianità di alcuno, che l’aria che si respira sia infestata dagli abusi su cui si fonda questa società del privilegio. Non può accettare che si muoia di lavoro o di stenti, in un mondo le cui risorse vengono depredate dall’avidità di pochi a scapito dei molti.

Chi ama la libertà non può tacere l’inganno quotidiano che giustifica la guerra e la distruzione di interi territori; non può non agire perché è toccato da vicino dallo spossessamento e dalla brutalità di questo esistente.

I Centri di Permanenza Temporanea per immigrati ben rappresentano questi aspetti: essi sono luoghi di privazione della dignità di persone, di reclusione per immigrati poveri e sprovvisti del pezzo di carta giusto, i cosiddetti clandestini, considerati dalla propaganda mediatica e politica il nemico numero uno verso cui indirizzare le nostre paure; in realtà degli individui che fuggono da guerra e miseria,cercando condizioni di vita migliori.

Il famigerato lager di San Foca, gestito dalla Curia leccese tra violenze e soprusi di ogni genere, era uno di questi. Fughe,rivolte, scioperi e resistenze si sono moltiplicate al suo interno lasciando emergere la sua vera natura.

Ad esso si sono opposti in tanti e fermamente lo hanno fatto anche gli anarchici. Per spostare l’attenzione da quanto accadeva in questo centro e dall’arresto del suo direttore, il 12 maggio 2005 cinque anarchici sono stati arrestati con l’accusa di associazione sovversiva ed etichettati come terroristi insieme ad altri dieci compagni. Oltre a ciò anche l’accusa di aver sabotato dei bancomat e delle pompe di benzina di grosse compagnie,direttamente coinvolte nella gestione dei lager per immigrati e nella guerra.

Sotto accusa è finito anche il loro modo di essere,di agire e di pensare.

Giovedì 12 luglio vi sarà la sentenza del processo di primo grado; l’accusa ha richiesto che vengano condannati a pene che vanno dai 5 ai 9 anni, mentre alcuni di loro, ora in libertà,hanno già scontato quasi due anni di custodia preventiva.

Non ci interessa se i nostri compagni siano colpevoli o innocenti, perché sappiamo che i veri terroristi sono quelli in doppio petto che gestiscono la vita di ognuno di noi. Dalla nostra abbiamo la solidarietà, i desideri, le idee; dalla loro solo catene e sfruttamento. Da quale parte stare lo abbiamo già deciso da tempo.

Nessuna sentenza potrà mai arginare il gusto per la libertà! Solidarietà agli anarchici processati e a tutti i ribelli che non si arrendono! Tutti fuori!

Anarchici

[Manifesto affisso sui muri della città, 10 luglio 2007]

Sentenza del processo “Nottetempo”

Giovedì 12 luglio, alle ore 23.30 è stata pronunciata la sentenza di primo grado del processo contro gli anarchici di Lecce e provincia. Vi è stata l’assoluzione per associazione sovversiva ma quattro compagni sono stati condannati per associazione a delinquere (art. 416 c.p.). Salvatore ha subito la pena più pesante a 5 anni, perché considerato il promotore di questa associazione; Saverio e Cristian, considerati partecipanti, sono stati condannati a 3 anni, mentre Marina, sempre considerata partecipante, a 1 anno e 10 mesi. Gli stessi compagni, in maniera differente sono stati condannati anche per alcuni reati specifici: danneggiamento delle pompe di benzina di un distributore Esso, occupazione del Capolinea, manifestazioni non autorizzate, violenza a pubblico ufficiale, istigazione a delinquere nei confronti degli immigrati che si trovavano all’interno del centro di detenzione, una scritta murale, diffamazione, minacce telefoniche nei confronti dell’ex direttore torturatore dell’ex Centro di Permanenza Temporanea di San Foca, Cesare Lodeserto, e nei confronti di due medici che vi avevano prestato servizio e che avevano redatto dei certificati falsi per occultare le violenze procurate dallo stesso prete e da alcuni carabinieri a molti immigrati che avevano tentato di fuggire; ai medici e a Lodeserto sono state riconosciute alcune migliaia di euro di risarcimento per le minacce telefoniche che avrebbero ricevuto, mentre a uno dei due medici, dott.ssa Cazzato, è stato riconosciuto un risarcimento di 50.000 euro per diffamazione.

Per alcuni di questi reati sono stati condannati altri compagni; Sandro ad 1 anno, Massimo a 4 mesi e Laura a 100 euro di multa. Altri 8 anarchici imputati sono stati assolti completamente. Tutti i reati sono sottoposti ad indulto. È sicuramente chiaro il messaggio che da questa sentenza deriva: punire pesantemente la lotta che è stata condotta in questi anni a Lecce contro il Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis”, e un monito agli anarchici che nonostante la galera e la repressione non hanno abbassato la testa; si è trovato così lo strumento dell’associazione a delinquere, non avendo elementi per poter applicare l’associazione sovversiva, per dare una lezione a coloro che hanno toccato i nervi scoperti di alcuni intoccabilipotenti leccesi.

La difesa ha presentato ricorso in appello, e lo stesso ha fatto anche il P.M. per provare a far passare l’accusa di associazione sovversiva.

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 8, dicembre 2007]

Partita doppia

[Quello di seguito è il volantino diffuso nella serata di domenica 6 maggio 2007 a Lecce, volantino il cui scopo era di denunciare le mire della repressione e del Tribunale di Lecce nel processo contro gli anarchici salentini scaturito dagli arresti del 2005. Il pomeriggio dopo il volantinaggio – per cui era stato dato regolare preavviso – cinque compagni hanno ricevuto la visita della Digos, che gli ha notificato il sequestro del volantino con la motivazione che “presentava contenuti diffamatori, denigratori ed offensivi nei confronti delle sottoindicate persone: Lino Giorgio Bruno, sost. Proc. Rep. presso il Tribunale di Lecce; Alfredo Mantovano, Senatore della Repubblica; Cesare Lodeserto, prelato della Curia di Lecce; Cosmo Francesco Ruppi, vescovo della diocesi di Lecce; Giudici del Tribunale di Lecce, componenti della sezione del Riesame, non meglio indicati; Personale di Polizia Giudiziaria, non meglio indicato, chiamato a deporre in dibattimenti penali a carico di anarchici”.

A parte il chiaro intento intimidatorio e la conferma che a Lecce stanno provando a fare piazza pulita degli anarchici utilizzando qualunque mezzo ed attaccandosi a qualunque minchiata pur di creare fastidi, questo episodio è solo la conferma che la verità fa male e che, a fare pubblicamente i nomi e cognomi di certa gente, si toccano dei nervi scoperti che fanno sempre male. È quasi banale dire che domenica prossima saremo nuovamente in piazza, a diffondere lo stesso volantino; l’appuntamento è esteso a tutti i solidali.

Domenica 15 maggio, dalle ore 17.30 alle ore 21, via Libertini ang. via Palmieri (di fronte al Duomo), Lecce, presidio e volantinaggio.]

Da una parte, gli anarchici. Una trascurabile minoranza di persone contrarie a tutto, un sogno nel cuore ed un progetto nella testa. Sono trascorsi esattamente due anni da quando la repressione è venuta a bussare alle nostre porte, portandosi via cinque di noi tra carcere e arresti domiciliari e indagando molti altri per associazione sovversiva con finalità di eversione dell’ordine democratico. Solo dopo un anno e dieci mesi gli ultimi compagni vengono scarcerati, mentre il processo di primo grado è tutt’ora in corso. Che il vero terrorista sia lo Stato è cosa risaputa da tempo.

Dall’altra parte, don Cesare Lodeserto. Con esso anche l’arcivescovo di Lecce, Cosmo Francesco Ruppi e l’intera Fondazione “Regina Pacis”. Contro costoro da anni piovono pesanti accuse alternate a riabilitazioni mediatiche, mentre l’intera gestione di quello che era il Centro di Permanenza Temporanea è stata messa sotto accusa e tutta la “caritatevole” opera svolta dalla Fondazione ha subìto una pesante perdita di immagine.

Oggi, l’ennesimo ricorso contro le scarcerazioni degli anarchici effettuato dall’accusa è stato ancora una volta accolto da un Tribunale del Riesame asservitissimo, che ricalca pedissequamente i dettami del P. M. e contraddice le decisioni della Corte d’Assise, che segue il processo e valuta in base agli elementi processuali, contrariamente ai giudici del Riesame che decidono sulle scartoffie degli sbirri e – come appare sempre più chiaramente –, anche in base a direttive che giungono dall’alto. E rivolgono un chiaro invito a chi dovrà esprimere un giudizio sugli anarchici imputati: quello di cambiar rotta. È certamente un caso, ma questa nuova decisione arriva proprio mentre per don Cesare si chiudono le indagini che lo vedono coinvolto nell’ennesimo gioco di prestigio (avrebbe incassato illecitamente seicentomila euro) e alla vigilia di un nuovo processo che lo vede imputato. Casualmente, anche due anni fa gli arresti degli anarchici arrivarono dopo quello del “caritatevole” prelato…

In mezzo a tutto ciò, tanto altro. Un Pubblico Mercenario, Giorgio Lino Bruno, Accusa nel processo agli anarchici, personaggio schizofrenico, misogino ed ignorante, accecato dall’odio profondo nei confronti di chi ama la libertà; forse solo uno squallido personaggio in cerca d’autore (e di un po’ di gloria) per uscire dal grigiore della sua esistenza, oppure pedina di un progetto più ampio.

Poi, altri Pubblici Mercenari e altri Giudici, tutti – sia detto chiaramente – personaggi squallidi quanto Bruno, perché il loro stesso ruolo si accompagna ad un fetido puzzo di galera e a un fastidioso rumore di catene. Accusano don Cesare di aver rubato qua o malmenato là: per quanto ci riguarda non abbiamo bisogno della sentenza di un Tribunale per sapere che un carceriere è colpevole in quanto tale.

A difendere gli anarchici e solidarizzare con loro, solo i compagni, gli amici, alcuni onesti pregiudicati e altri individui non addomesticati. A schierarsi con don Cesare ed i suoi scherani, tutta la stampa leccaculo, politicanti di destra e di sinistra, senatori al flambé ed integralisti cattolici talmente reazionari da fare impallidire qualunque cosiddetto “estremista islamico”.

Eppure… La sensazione è quella che le parti in gioco non siano solo queste, e che la posta sia ben più alta che non quella di far scontare ad alcuni anarchici salentini un bel po’ di anni di carcere. Certo, già così si otterrebbe il non misero risultato di togliere di torno alcuni individui insuscettibili di ravvedimento, fare il vuoto tutto attorno e provare a chiudere definitivamente il discorso anarchici nel Salento. Ma le mire dello Stato non possono solo essere queste, così come qualche infuocato senatore, ad esempio Alfredo Mantovano quando era al Ministero della Repressione, non può avere orchestrato tutto ciò solo per compiacere se stesso e fare un favore ai suoi compagni di merende della Curia leccese, questa associazione a delinquere di stampo cattolico.

Quello che a Lecce si sta provando ad ottenere è un precedente: una condanna per associazione sovversiva che si possa estendere, come sentenza di Cassazione da citare, a qualunque altro processo venga intentato contro gli anarchici in Italia. È questa manovra che va denunciata ed è in questo contesto che va inserito l’accoglimento sistematico del Tribunale del Riesame di Lecce contro ogni scarcerazione dei compagni pronunciata dalla Corte giudicante. Gli anarchici si sono opposti ad un lager a San Foca gestito da potenti, certo, e questo sarebbe già un valido motivo per fargliela pagare; ma è su scala nazionale (e non solo) che gli anarchici danno fastidio, addirittura pensano, quindi bisogna spazzarli via. A tal proposito nel processo salentino si lavora alacremente a qualcosa che per il momento appare solo in nuce; lo scopo è quello di preparare il terreno ad ulteriori manovre repressive di più ampio raggio – probabilmente a carattere nazionale – negli anni a venire. In questo senso sono da interpretare le testimonianze rese in aula da sbirri di ogni zona d’Italia dove ci siano compagni attivi nelle lotte: testimonianze che sono andate oltre il puro e semplice vaneggiamento poliziesco. Non crediamo sia un caso che deposizioni del genere siano state rilasciate in un processo a Lecce, dove l’assenza di precedenti del genere rende più agevole costruire castelli di carta abitati da fantasmi immaginari.

Denunciare pubblicamente le sporche manovre degli apparati repressivi è il primo mezzo per provare a contrastarle. Proseguire nelle nostre lotte di sempre significa non soccombere alla logica dell’intimidazione mafiosa tipica degli organi di Stato. Essere ancora per strada alla ricerca di complici, riconoscendosi sfruttati tra gli sfruttati, è solo la naturale conseguenza.

Alcuni anarchici amanti del flambé

Nel grande campo del mondo

Vorrebbero trasformare questo mondo in una galera; vorrebbero metterci gli uni contro gli altri per poter tranquillamente depredare le risorse di questo pianeta. Vorrebbero che tra la guerra e la pace non ci fosse più differenza; che bombardamenti, violenze, soprusi fossero la quotidianità di ognuno di noi, a cui nessuno presta più attenzione. Vorrebbero farci dimenticare cos’è la solidarietà, quella che da sempre ha legato gli sfruttati. Il fatto è che questo scenario i potenti della terra lo stanno già realizzando. Esso sempre più sta diventando la normalità per la vita di ognuno, con poche differenze ancora tra chi vive al Nord o al Sud di questo immenso campo a cielo aperto. Uno dei meccanismi utilizzato in questo scenario di guerra permanente, per ghettizzare, rinchiudere e deportare, è rappresentato dai Centri di Permanenza Temporanea per immigrati, luoghi in cui vengono ammassati gli stranieri, “rei” di non avere un documento in regola. L’intollerabilità della loro esistenza e la sconcertante normalità di soprusi che si vive al loro interno, non possono permetterci di chiudere gli occhi, e diventarne complici. Dopo viaggi estenuanti, in cui spesso si è perso tutto, compresa la vita, gli immigrati vengono posti in queste galere che, per beffa, non vengono neanche riconosciute come tali dalle istituzioni, che li spacciano per centri di accoglienza. La lingua, la distanza dalla propria terra, la paura non permettono di sapere perché e per quanto tempo si rimarrà reclusi. Alla detenzione spesso segue la deportazione, magari in un Paese che non è neanche il proprio…

A Lecce alcuni anarchici hanno deciso e provato a rompere l’indifferenza verso questa quotidianità iniqua e crudele, come molti individui fanno in tutto il mondo. Tre di loro sono ancora detenuti agli arresti domiciliari dopo un anno e otto mesi, per essersi opposti alla esistenza dei lager per immigrati. Ma questo è stato solo uno degli aspetti che ha portato alla loro repressione. L’arresto degli anarchici, a Lecce come in tutta Italia, è un monito contro chiunque voglia levare la voce e agire contro i potenti di vario tipo che gestiscono la nostra vita. Ma essa appartiene solo a noi, così come la nostra libertà; non dobbiamo far altro che riprenderci ciò che ci spetta.

Anarchici salentini

[Volantino distribuito a Lecce nel gennaio 2007]

Lodeserto missionario!!!

Nella serata di venerdì 7 dicembre, una dozzina di pecorelle (nere) smarrite si sono recate dove erano certe di trovare alcuni pastori… Nella chiesa di San Guido, a Lecce, si teneva infatti una messa officiata dall’arcivescovo Cosmo Francesco Ruppi, per conferire l’incarico di missionario a don Cesare Lodeserto, inviato a svolgere le sue caritatevoli funzioni in Moldavia, dove la Fondazione/Fundatia “Regina Pacis”, di cui è presidente, è specializzata nello sfruttamento della disperazione, arrivando a gestire ben nove strutture.

Le pecorelle (nere) sono entrate in una chiesa gremita di gente, ma anche parlamentari, politici locali, agenti della Digos, della scorta personale (!) di don Cesare e poliziotti vari. Due compagni hanno provato a raggiungere l’altare per aprire uno striscione con scritto “Mi$$ionari della violenza”, ma sono stati bloccati mentre lo facevano e trascinati di peso fuori dalla chiesa, passando dal retro, ed inseguiti da alcuni poliziotti della scorta che provavano a malmenarli, tentando anche di estrarre la pistola. Intanto, le altre pecorelle (nere) lanciavano volantini nella chiesa e urlavano slogan contro don Cesare, prima di essere a loro volta spinte fuori dall’edificio, tra strattonamenti e qualche cazzotto.

Quando sembrava essere tornata la calma, i guastafeste sono tornati dall’esterno sul lato della chiesa, e sostando all’altezza dell’altare hanno fatto arrivare dalle vetrate, parlando col megafono, il loro augurio a don Cesare, “mi$$ionario della violenza”, ed il più sincero in bocca al lupo per la sua missione, certi che anche in Moldavia sapranno apprezzare la sua bontà, dispensata con croce e manganello. Hanno anche augurato al prelato una buona latitanza, dato che alcuni malpensanti affermano che la mossa dell’andare missionario in Moldavia sia dettata dalle tante condanne che la giustizia italiana gli ha comminato, non essendo riuscita a riconoscere come caritatevole la sua opera nella gestione di quello che fu il Cpt di San Foca.

Nuovamente allontanati da un consistente gruppo di sbirraglia, i contestatori si sono recati nei pressi del Duomo di Lecce, a distribuire il volantino precedentemente lanciato in chiesa, prima di tornare a disperdersi, restando sempre fuori dal gregge.

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. 8, dicembre 2007]

Chi lascia la via vecchia per la nuova…

L’esperienza non gli manca, le capacità gestionali nemmeno, il suo curriculum infatti vanta ottime referenze da carceriere e torturatore. In questi anni il candidato Cesare Lodeserto, si è distinto per aver gestito con impareggiabile pugno di ferro un lager per migranti, quello di San Foca, balzato agli onori della cronaca per la violenza e la crudeltà che si perpetrava al suo interno. Varie sono state le denunce a carico suo e di alcuni suoi degni collaboratori: brutalità e abusi erano la quotidianità della sua opera. In alcuni casi essa ha suscitato anche l’attenzione della magistratura leccese che ha intrapreso contro il benefattore Lodeserto sei procedimenti, di cui tre giunti a condanna di primo grado. Così il buon prete aguzzino ora si presta a prendere residenza in Moldavia, dove farà il missionario. La scelta non è casuale. In Moldavia la Fondazione Regina Pacis, specializzata nello sfruttamento della disperazione, ha messo da tempo solide radici arrivando a possedere ben nove strutture senza temere concorrenza alcuna. Nella ragione in cui opera, la Transinistria, nota per essere una zona franca per la fabbricazione e il traffico di armi, non è ammessa la presenza di nessun altro organismo straniero. Spesso le missioni cattoliche non sono state altro che degli avamposti di colonizzazione culturale ed economica nel mondo, ma ora la parola missione assume significati ancora più tetri. Se la guerra di conquista ad opera degli eserciti armati si fregia del titolo di missione di pace, se ne potrà fregiare anche, a buon diritto, l’opera di speculazione umanitaria della Chiesa in generale e della Curia di Lecce in particolare. D’altro canto essa è stata sempre spacciata per carità e beneficenza, con l’aiuto di media e personaggi potenti, anche laddove l’evidenza della realtà dimostrava il contrario.

Ma noi, da tenaci malpensanti, auguriamo al neo missionario una buona latitanza, magari allietata dall’incontro con qualcuno che fu suo ospite nel Centro di Permanenza Temporanea di San Foca, qualcuno che certamente non potrà dimenticare il servizio resogli fra quelle mura di detenzione e abuso.

Alcune pecorelle (nere) smarrite

[Volantino distribuito a Lecce nel dicembre 2007 durante l’investitura a missionario di don Cesare Lodeserto, direttore del CPT Regina Pacis]

Sulle lotte al Regina Pacis

Concluso il primo grado del processo per l’inchiesta “Nottetempo”, rimangono ancora in piedi contro alcuni anarchici salentini tre procedimenti “minori” presso il Tribunale monocratico di Lecce: per affissione abusiva, per blocco stradale e per aver fornito generalità non esatte durante un fermo di polizia. Un quarto processo per manifestazione non autorizzata davanti all’ex Cpt Regina Pacis si è concluso con l’assoluzione dei compagni imputati, e un altro ancora, sempre per lo stesso motivo ma in diversa circostanza, si è chiuso per prescrizione. In caso di condanna, da questi procedimenti conseguiranno solo delle pene pecuniarie, ma sono indicativi dello zelo repressivo messo in campo dai cani da guardia della Questura leccese nel tentativo di stroncare ogni singola espressione della battaglia contro l’odiato lager per immigrati di San Foca.

Inutile ripetere che minacce e repressione non ci faranno abbassare la testa.

Inoltre, un paio di mesi fa il Quotidiano di Lecce ha dato notizia della conclusione di indagini contro due compagni, uno leccese ed uno bolognese. Le indagini riguardano il danneggiamento dei bancomat di due filiali di Banca Intesa a Bologna. Questi due attacchi sono citati anche negli atti del processo “Nottetempo”: gli sportelli sarebbero stati danneggiati col fuoco il 23 aprile 2004 e qualche giorno dopo ad una delle agenzie sarebbe arrivato un foglio di rivendicazione contenente riferimenti al Regina Pacis e al suo direttore don Cesare Lodeserto e firmato “Nemici dei lager e dei loro finanziatori”.

Va ricordato che Banca Intesa gestiva i fondi del Cpt salentino e i questurini chiamati a deporre nel processo leccese citano altre simili attenzioni per le filiali della stessa banca, che di seguito riportiamo. Di alcuni di questi fatti, nessuna notizia era apparsa all’epoca sulla stampa: forse a volte il potere e i suoi servi scribacchini preferiscono occultare le notizie riguardanti azioni di attacco ai responsabili di questo ordine iniquo, nella speranza di limitarne la diffusione.

8 novembre 2003, Lecce e Lequile. Incendiati i bancomat di due filiali Intesa.

16 marzo 2004, Maglie (Le). Incendio fallito. Sul posto viene rinvenuto un volantino con la scritta: “Nessuna pace per i complici del Regina Pacis: libertà per i reclusi”.

23 aprile 2004, Bologna.

26 giugno 2004, Milano. Un ordigno rudimentale inesploso viene ritrovato all’ingresso di una filiale, insieme ad un biglietto di rivendicazione: “Banca Intesa complice nella gestione del Cpt. Fuoco a ogni lager, fuoco a ogni carcere, fuoco a ogni Stato”.

14 luglio 2004, Riva del Garda (Tn). Danneggiato il dispositivo di accesso alla sala bancomat.

15 luglio 2004, Milano. Ancora un’azione e stavolta l’ordigno esplode. Anche in questo caso viene ritrovata una rivendicazione: “Solidarietà per gli immigrati nei Cpt”, “Contro gli sfruttatori”, e un riferimento ad un compagno arrestato a Lecce.

24 luglio 2004, Milano. Un altro ordigno esplode contro una sede di Banca Intesa. In un biglietto si fa riferimento alla lotta contro i Cpt e si esprime solidarietà ad alcuni anarchici arrestati a Trento.

31 ottobre 2004, Sannicola (Le). Imbrattati con vernice il bancomat e la vetrata dell’agenzia, lasciata una rivendicazione in solidarietà con i detenuti in sciopero nel carcere di Lecce.

6 gennaio 2005, Taviano (Le). Incendio dello sportello bancomat.

9 gennaio 2005, Taranto. Incendiati i bancomat di tre distinte filiali, mandando in fumo oltre ai terminali anche 70.000 euro.

1 e 23 marzo 2005 a Milano e 15 giugno a Firenze. Ancora attacchi contro Intesa.

3 febbraio 2006, Viareggio. Ennesimo incendio. Nel comunicato lasciato si solidarizza con gli anarchici accusati della lotta contro i Cpt.

5 marzo 2006, Milano. Nella notte sono messi fuori uso 12 bancomat di Intesa.

[Pubblicato su “Peggio. Pagine salentine” n. ?? , dicembre 2007]

Disertiamo la paura

Consumatori di paura in un mondo di insicurezze: questo è ciò che tentano di fare di noi.

Per raggiungere tale scopo e preservare il potere e il privilegio, gli Stati instillano fobie fasulle e ingrassano mostri immaginari; l’ossessione securitaria, declinata negli infiniti pacchetti sicurezza, individua di volta in volta il nemico di turno: rumeni, rom, lavavetri, prostitute e più in generale lo straniero, diventano i bersagli verso cui sfogare le proprie ansie. In realtà perdere il lavoro o morire di esso ha ben altre cause, così come altre sono le ragioni che non permettono di avere una casa o una cura. La macchina del terrore statale ed economico dietro l’ombra della democrazia, ci presenta qualsiasi progetto di sopraffazione come utile e necessario: dal nucleare alle grandi opere di devastazione ambientale, dalla guerra fino all’ultima trovata fantasiosa del sindaco sceriffo di turno. Il divieto di mangiare per strada come l’elemosinare, di lavare i vetri come di fare i castelli di sabbia sono dei modi per buttare fumo negli occhi di chi, stanco e alienato dalla propaganda, non si rende conto che tutto ciò non gli aveva mai provocato nessun problema. Così non siamo più sicuri nemmeno di cosa avere veramente paura. E se domani l’acqua e il cibo non fossero più nei supermercati? Se un’influenza improvvisa ci colpisse e non sapessimo porvi rimedio? A soccorrerci non ci sarebbero più i saperi di un tempo che permettevano di essere autosufficienti, né le relazioni tra gli individui che garantivano una rete solidale.

Non più padroni di noi stessi, non saremmo più in grado di prendere in mano le nostre vite.

Avremo inseguito un nemico che non esiste, mentre i veri responsabili di questo sfacelo, padroni e governanti di ogni colore, saranno al loro posto a programmare la prossima devastazione. Soprattutto avremo perso coscienza della realtà e di noi stessi nel mare dell’indifferenza e del rancore, mentre il potere modifica costantemente il passato facendoci perdere la memoria della storia e della cultura. Accetteremo, come stiamo facendo, che gli stranieri poveri siano rinchiusi in dei lager chiamati centri di Identificazione ed Espulsione e cacciati dal castello perché poco decorosi per la nostra vista. Accetteremo i morti in mare in cerca di una possibilità di sopravvivenza e il razzismo strisciante che uccide.

Invertire la rotta è un gesto da compiere senza indugi, per uscire dallo stagno della pacificazione sociale in cui vorrebbero farci annegare.

Questo hanno fatto alcuni anarchici che negli ultimi anni hanno condotto con chiarezza delle lotte, in particolar modo contro il lager a gestione cattolica che era il “Regina Pacis” di San Foca (Le). Lotte condotte dal basso, seguendo i principi da sempre propri degli anarchici: autogestione, informalità, orizzontalità nelle relazioni, azione diretta… Lotte e metodologie che lo Stato vorrebbe fermare con il terrore, i processi, le condanne e gli anni di carcere.

Il 9 ottobre si aprirà presso la Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Lecce il processo di secondo grado a carico di dodici compagni. La solidarietà nei loro confronti è un primo, minimo gesto per iniziare a disertare la paura.

Anarchici

[Manifesto affisso a Lecce nel settembre 2008]

Una storia già scritta? Alcune note sul processo agli anarchici salentini

L’idea e la legge, la passione e la quiete sociale.

Spesso in questa storia vi sono state forti contrapposizioni tra chi professava liberamente le proprie idee, e chi tentava di reprimerle; tra chi si batteva con determinazione perché degli individui stranieri non fossero reclusi, solo per non avere un documento in regola, e chi invece sbandierava quella reclusione come mezzo per ottenere più sicurezza. Da un lato gli anarchici, dall’altro la polizia, la magistratura, la Chiesa, che gestiva un Cpt, giornali e politici vari. Eppure questo, non può che essere un quadro riduttivo di ciò che vi è stato e vi è in gioco.

Nel marzo 2005 il centro di permanenza temporanea per stranieri irregolari gestito dalla curia leccese chiude definitivamente. Gli ultimi anni della sua esistenza hanno visto in continuazione scioperi, rivolte, fughe da parte degli immigrati all’interno. All’esterno l’opposizione tenace da parte di alcuni anarchici e la contestazione di altri gruppi. Nello stesso tempo diventa di pubblico dominio, la gestione violenta ad opera del direttore Don Cesare Lodeserto, di alcuni suoi collaboratori e dei carabinieri all’interno. Lodeserto viene arrestato e poi condannato, tra le altre cose, per violenza privata e sequestro di persona. Ma lo Stato non poteva permettere di processare se stesso e i suoi amici e lasciare liberi i suoi più acerrimi nemici. Così, nel maggio 2005, anche alcuni anarchici vengono arrestati con l’accusa di associazione sovversiva e molti altri inquisiti. Dopo una lunga detenzione quattro anarchici vengono condannati per associazione a delinquere, altri tre per reati minori. In otto vengono completamente assolti. Le condanne sono pesanti ma i compagni sono ormai liberi e continuano ad occuparsi dei loro interessi. Cala il silenzio su tutta la vicenda, compresi i vari processi di Lodeserto e company. Intanto i Cpt vengono trasformati in Centri di Identificazione ed Espulsione, le carrette del mare vengono subito rimandate indietro verso altri lager, la caccia allo straniero e al diverso diventa sempre più cavallo di battaglia delle politiche securitarie e xenofobe dei governi che si succedono. I Cie divengono un meccanismo fondamentale per il potere, per gestire con la reclusione e la repressione sia una manodopera ricattabile e in eccesso (gli stranieri irregolari), sia per contenere un’umanità indesiderata. A Lecce di tutto questo si rincorrono gli echi, fino a che non ricominciano gli sbarchi dei disperati stranieri che riportano in auge la questione. Ma non è certo quest’ultimo aspetto ad essere determinante per i giudici che il 9 dicembre emetteranno la sentenza d’Appello nei confronti degli anarchici sotto processo. Molto altro forse si muove sotto e al di là di questo processo, almeno tenendo conto della modalità con cui si è svolto. Il primo presidente, dopo aver rinviato per varie udienze, ha chiaramente manifestato l’intenzione di non voler andare avanti e passare ad altri la patata bollente. Il secondo ha rinviato per tre volte la sentenza, assumendo pretesti alquanto “anomali” per la procedura corrente.

Il motivo non è facile da individuare ma potrebbe essere cercato nella volontà di peggiorare la condanna di primo grado a carico dei compagni. Se i Cie sono così importanti per il dominio, e lo sono, condannare esantemente chi ad essi si è opposto duramente, può essere da monito per chi continua a portare avanti queste lotte. D’altro canto i Cie rappresentano una spina nel fianco, date le numerose proteste che si ripetono all’interno e all’esterno sia in Italia che nel resto del mondo. La storia di un ex Cpt, definitivamente chiuso, come di un Cie che brucia, non sono buona propaganda per gli Stati. E poi vi sono le questioni locali. Il potere e l’immagine della curia leccese offuscato da tutta la vicenda. L’influenza e la affiliazione dei suoi uomini con personaggi politici molto potenti a livello istituzionale (come può essere un Sottosegretario all’Interno). Una procura assetata di vendetta verso alcuni amanti della libertà. La necessità di reprimere chiunque non si adegui alle regole. La fine della storia? Si vedrà! Per il momento possiamo solo dire che circostanze e personaggi non sono puramente casuali, ma si possono trovare in qualunque storia in cui l’autorità si scontri con l’autodeterminazione di chi non chiude gli occhi di fronte all’oppressione e all’ingiustizia. In gioco non vi è solo la repressione di qualcuno, ma la maggiore libertà per tutti.

Alcuni anarchici

[15 ottobre 2010]

La ricerca del nemico

In un mondo sempre più sottomesso e governato dalla tirannia dell’economia, provare a mettere un bastone tra le ruote del meccanismo economico può rivelarsi espediente in grado di inceppare, o quantomeno infastidire, il buon funzionamento della macchina. Se il percorso di opposizione e di lotta ai Cpt che negli ultimi anni si è provato a percorrere nel Salento può comunicare qualcosa, è che la ricerca e l’individuazione del nemico, paga. La ricerca costante, caparbia e minuziosa di informazioni, intesa come primo passo per liberarsi dalla paura e passare all’azione. Quello che è avvenuto con Banca Intesa è un buon esempio; l’istituto di credito che funge da braccio economico della fondazione “Regina Pacis”, è stato individuato quale ente collaborazionista del Cpt salentino, la notizia è stata ampiamente socializzata, e da molte zone si è avuta notizia di una critica manifestata verso diverse filiali dell’istituto di credito, critica che ha trovato diversi canali espressivi. Tale modo di agire può essere valido per diversi aspetti della quotidianità, dai Cpt alla guerra, senza contare che talvolta le due cose combaciano. È il caso per esempio della Croce Rossa italiana, che gestisce molti Cpt italiani attualmente in funzione e che – proprio come la fondazione “Regina Pacis” – ha un istituto di credito presso il quale è possibile effettuare donazioni e di cui si serve per tutte le operazioni economiche. Si tratta della BNL, Banca Nazionale del Lavoro. Questo almeno a livello nazionale, cosa che non esclude che su scala locale si faccia riferimento ad altre banche, tutte vogliose di adoperarsi nella beneficenza. Anche smascherare altri enti o individui che si trasformano in carcerieri di poveri e lucrano sulla loro pelle, è molto più semplice di quanto si possa credere. Da parte di alcuni esiste forse un’erronea interpretazione della lotta al lager salentino, che potrebbe apparire come specialistica e, come tale, essere pensata come non praticabile da chi dovesse credere che è necessario avere una “specializzazione” per opporsi ai Cpt, o ancora che siano indispensabili grossi numeri per ingaggiare uno scontro quantitativo basato su manifestazioni oceaniche. Per fortuna la realtà è molto più semplice, e necessita solo di un po’ di fantasia, buona volontà e coerenza. A partire, come detto, dalla ricerca e individuazione del nemico. Questo bollettino, altro non aspetta che le corrispondenze che la contengano.

Un nemico delle frontiere

[Pubblicato su “Tempi di guerra” n. 7, Febbraio 2007]

Istigazione a delinquere!

La contestazione di questo reato è il perno su cui è ruotato il teorema accusatorio della Corte d’Assise d’Appello di Lecce, servito a condannare per associazione sovversiva 12 anarchici, con pene comprese tra un anno e cinque anni e cinque mesi. Siamo stati accusati di aver istigato gli immigrati internati nell’ex CPT “Regina Pacis” di San Foca affinché dessero vita a rivolte, evasioni, distruzioni del centro. È convincimento utile allo Stato e ai suoi servitori quello di credere che le rivolte nei CPT (ora chiamati CIE) siano frutto di un lavoro di istigazione svolto da pochi sovversivi, e non già pratica endemica alla stessa condizione di reclusione: quando un essere vivente è rinchiuso, spesso si ribella. La storia dei CIE, dalla loro nascita nel 1998 ad oggi, è la dimostrazione più chiara di questa affermazione.

Il “Regina Pacis” è stato un campo di internamento per stranieri poveri come tutti gli altri campi. Al suo interno veniva praticata ogni sorta di nefandezza: somministrazione massiva di psicofarmaci nei pasti per sedare gli internati, pugno di ferro nei loro confronti, pestaggi contro chi si ribellava o provava ad evadere. Non erano anomalie, né pratiche svolte da poche “mele marce”, bensì prassi svolte da tutti: dal direttore, don Cesare Lodeserto, ai carabinieri che erano di guardia, agli operatori, passando per i medici che coprivano i massacri sistematici con falsi referti. Tutto ciò è anche venuto fuori pubblicamente, suscitando un po’ di scandalo e tanto imbarazzo nella curia leccese che gestiva il centro e nel mondo della politica che lo sorreggeva ideologicamente e lo difendeva pubblicamente. Affinché calasse il silenzio su queste nefandezze e cessasse questo imbarazzo, è stato necessario mandare don Cesare a fare il missionario per conto di Dio. Ora è in Moldavia, dove continua a fare le sue porcate e a ingrassare i suoi conti e quelli della curia.

Davanti ad uno scenario del genere, è l’esistenza stessa di questi centri a rappresentare una “istigazione a delinquere”, perché non si possono chiudere gli occhi davanti alla vita reclusa in quanto priva del giusto documento in tasca, di fronte alle torture inflitte per mano democratica e statale. Non si può tacere quando centinaia di disgraziati periscono nel deserto, in migliaia annegano nei mari o muoiono sugli scogli appena sbarcati, mentre altri ingrassano su tutto ciò in nome dell’accoglienza. Chiunque dovrebbe sentirsi istigato davanti ad una situazione del genere, per fermare questo abominio. Chi non lo fa e resta nel silenzio si rende complice, come la maggioranza silenziosa dei tedeschi era complice di Auschwitz. Noi abbiamo raccolto questa istigazione e abbiamo reagito, e la discriminante non è stata il codice penale, bensì l’etica individuale.

Essere sovversivi, di fronte a tutto ciò, è davvero solamente il minimo…

Sovversivi senza Associazione

20/1/2011

Postfazione

Fenomeni dalla portata enorme investono tutto ciò che ci circonda, si annunciano prorompenti.

Centinaia di migliaia di persone si spostano continuamente da zone di guerra, da zone aride, distrutte da secoli di colonialismo economico, culturale e tecnologico. Si spostano da ciò che conoscono verso qualcosa che non conoscono, a rischio di altra morte, di altra fame, di altra schiavitù. Non c’è niente di razionale in tutto ciò, niente di prevedibile, niente di controllabile.

Le società imbellettate in cui viviamo mostrano già di non saper affrontare un fenomeno di così grandi e complesse dimensioni. Ci sono in gioco lo spazio, il cibo, la sicurezza, la presunta superiorità di una cultura, quella occidentale, “sacra” e intoccabile, incastonata in ogni angolo di vita pubblica e privata. Ci sono in gioco questioni vitali di fronte alle quali, aldilà di responsabilità coloniali oramai chiare a tutti, di certo a niente potranno servire buoni propositi solidaristici, muri visibili e invisibili, appelli alla misericordia e alla buona coscienza, piccoli o grandi galere, piccoli o grandi tentativi di assimilazione.

Già nell’ultimo decennio la composizione dei flussi migratori, secondo l’inquadramento che di questi fanno la dottrina giuridica e la giustizia, è notevolmente mutata influenzando le modalità con cui i poteri li affrontano. Dai cosiddetti migranti “economici” si è passati alla crescita del numero dei rifugiati. Accanto ad azioni governative prettamente repressive e di deportazione sono stati affiancati interventi di “accoglienza”, assimilazione e integrazione.

Attorno a noi ancora timidi appelli all’ordine, all’accettazione, all’accoglienza, intrisi di sapore politico, rincorrono sporadiche, ma significative, barricate erette contro l’arrivo di migranti, in piccoli e grandi centri, che si fondano, quelle sì, sulla volontà di difendere le proprie misere catene, i propri supposti privilegi.

Ogni giorno che passa appare evidente come la portata del fenomeno aumenti e si complichi lasciando aperti scenari difficilmente decifrabili oggi. Un numero è un ente astratto atto a indicare la quantità degli elementi di un insieme. Se pensiamo a mille persone possiamo immaginare di fronte a noi qualcosa di concretamente conosciuto; se aggiungiamo un “semplice” zero al numero 1000 avremo in mente qualcosa di meno tangibile, se aggiungiamo due o tre zeri l’immagine di un insieme di persone così costituito avrà contorni ancora più astratti. Quali equilibri politici, sociali, economici potrebbero reggere a quel punto? Non vogliamo fare le cassandre della situazione, perdendoci in discorsi catastrofisti, impregnati di allarmismi e paure sempre facilmente recuperabili. Ma porre degli interrogativi.

Quello che potrebbe accadere attorno a noi non è l’esasperazione o la continuazione della situazione odierna, ma altro . E di fronte a questo altro noi cosa sapremo fare?

Gennaio 2017