E’ uscito il n° 37 di Frangenti

GIUSTIZIA: TUTTO NELLO STATO, NIENTE AL DI FUORI DELLO STATO, NULLA CONTRO LO STATO

Pasquale Sansone e Ciro Falanga vengono scarcerati dopo essere stati condannati per aver stuprato dei bambini. Pochi giorni dopo, il 26 luglio ’99, vengono freddati in strada. Nel 2007 a Lecce una mamma tenta di uccidere a coltellate un 81enne perché da un anno molestava il figlio. Il 19 dicembre 2015 tocca a Francesco Fiorillo, pedofilo, ucciso a colpi di pistola a Vibo Valentia. Dopo dieci anni di carcerazione, Giuseppe Matarazzo viene assassinato il 20 luglio 2018, un mese dopo il fine pena: aveva abusato di due sorelle, ed una si era suicidata a 15 anni. Nel milanese un uomo vendica la figlia molestata dal nonno, l’ex suocero. All’uscita dalla caserma la famiglia applaude l’uomo prima di essere portato in carcere, mentre altri scrivono in rete che andrebbe scarcerato o che meriterebbe una medaglia.Questi accadimenti ci mostrano come possano essere individuati due modi di affrontare e risolvere i conflitti: insomma, di fare giustizia.Da una parte c’è la giustizia di Stato, ovvero il giudizio in tribunale e la punizione in carcere. Dall’altra parte c’è tutta una gamma di possibilità per affrontare in prima persona i conflitti, tra cui la vendetta individuale. La vendetta è per definizione non mediata, un’azione diretta, una presa di responsabilità della risoluzione dei propri conflitti rifiutando la delega. Ricordiamoci infatti che un processo comporta la mediazione tra le ragioni dell’accusato e quelle dello stato, che ha visto violato il suo ordine pubblico e la civile convivenza all’interno dei suoi confini. La carcerazione servirebbe quindi a ricostruire il rapporto tra condannato e società/stato (processi di rieducazione, accettazione delle regole di civile convivenza, insegnamento di un’attività lavorativa, ecc ecc), ed il fine pena ne dovrebbe sancire la riabilitazione e la riappacificazione con l’ordine sociale.Come ogni rifiuto di una mediazione, ovvero come ogni scelta di libertà (anche quella di riappropriarsi dei propri conflitti), la vendetta comporta la grossa responsabilità delle proprie azioni di fronte allo stato, che non può accettare di essere esautorato dal ruolo di giudice e arbitro, e di fronte a se stessi, perché ad esempio uccidere una persona che ruba dei copertoni da un piazzale è ben diverso dall’uccidere uno stupratore. Perché la vendetta che stringe l’occhio al pogrom o alla ricerca collettiva di un capro espiatorio non conduce alla distruzione del potere ma solo al tentativo di affermarne uno differente. Anche perché riappropriarsi di un conflitto vuol dire sia decidere se affrontarlo che come affrontarlo (decidendo magari anche di comprendere le ragioni dell’altra persona), ricordandosi che l’uccisione di un essere umano è solo una delle tante possibili scelte.

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