In conflitto con lo Stato: Coniugare il territorio e le affinità durante la rivolta

Le lotte contro la normalità si sono susseguite una dopo l’altra, fino a diventare talmente complesse che è stato impossibile non rendersi conto che stavamo affrontando una vera e propria rivolta. Non erano solo le strutture del capitale a bruciare, né le vetrine o le auto della polizia ad andare in frantumi tutte nello stesso momento; qualcos’altro si stava incrinando, una crepa che permetteva all’ordine morente dell’autorità di crollare letteralmente ai nostri piedi.

È proprio in questa crepa, e nei suoi primi frammenti di macerie, che vogliamo scavare più a fondo, ponendo domande che non sono necessariamente nuove e che potrebbero anche non avere risposte, in modo che noi stessi, i compagni di altri territori e i compagni di altri momenti storici, possano trovare alcuni spunti per confrontarsi con i nostri contesti. Non temiamo domande senza risposte, ma piuttosto di non fare abbastanza domande o di tralasciare quelle giuste.

Si è aperto un nuovo ciclo della guerra sociale e con esso infinite possibilità. È in questo universo di mondi possibili che il territorio, le affinità e la loro temporaneità diventano elementi chiave da approfondire.

La guerra sociale nel suo territorio e il suo ritmo

Non mancano i testi che indicano una realtà in cui l’autorità e il potere sono completamente dispersi in un numero infinito di relazioni e interazioni all’interno dell’economia globalizzata. La natura intangibile di tali relazioni sembra essere la loro caratteristica principale.

Di regola, questa premessa è seguita dalla sua inevitabile conclusione: Non è possibile colpire perché non c’è più nessun posto dove colpire. Se a questi testi aggiungiamo la natura virtuale delle connessioni e delle dipendenze, insieme alla politica dell’identità, abbiamo la tempesta perfetta per far precipitare qualsiasi lotta nella completa asfissia. Dov’è il potere? Ovunque e da nessuna parte; un fantasma tanto invisibile quanto onnipresente, comincia a sembrare naturale, inalterabile e perpetuo.

La bellissima devastazione della rivolta attualmente in corso, mentre complica certe analisi, è anche riuscita a semplificare altre realtà, rendendole evidenti e chiare.

Il dominio deve essere esercitato in diverse dimensioni: dalle economie globalizzate e dalle imposizioni della cultura dominante alle tattiche repressive e all’industria estrattiva. È vero che i palazzi d’inverno non possono più essere conquistati per rovesciare automaticamente l’ordine dominante, ma è necessario comprendere che la dominazione usa e occupa uno spazio fisico. Un territorio.

L’amministrazione degli Stati all’interno della sovranità nazionale non è altro che il controllo di un determinato territorio da parte di un potere che richiede infrastrutture montate su un campo da gioco specifico – con le sue particolarità sociali e geografiche – su cui amministra l’oppressione.

Lo Stato, il capitale, il potere e i suoi agenti sono riuniti come una truppa di occupazione in questo territorio. Questa occupazione può essere contrastata e combattuta senza mai aspirare a presunte isole di libertà indipendenti e risolte. Un vero esercizio di lotta per la liberazione è possibile in uno spazio e in un luogo concreto, cioè in un territorio.

Il controllo della dominazione si intreccia su diversi livelli, dalle frontiere nazionali alle città e ai quartieri. È su questa geografia urbana del controllo e del potere che noi stessi ci siamo generalmente dispiegati nelle lotte antiautoritarie. Anche se la lotta nei territori rurali o semi-rurali ha chiaramente avuto le proprie dinamiche nella lotta contro l’estrattivismo e altre espressioni di potere che meritano una riflessione, queste non sono oggetto di analisi in questo testo.

La città è l’espressione e l’apice della civiltà: la centralizzazione del potere a livello amministrativo e simbolico. È nella città, con i suoi ritmi e i suoi spazi fisici, che si sviluppano le nostre lotte, i nostri legami di affinità e di complicità con tutte le loro opportunità e svantaggi. Facciamo un esempio: per andare in uno squat, in una biblioteca o ad una conferenza, possiamo attraversare la città senza problemi grazie ai suoi mezzi e alle sue infrastrutture organizzate secondo i suoi ritmi. La stessa sorte tocca a chiunque organizzi una manifestazione, faccia propaganda o compia azioni che sono precedute dal nostro muoverci dentro la città, conoscendo e adattandoci ai suoi ritmi per alterarli e interromperli.

È all’interno del funzionamento urbano che la normalità viene interrotta e sabotata, ma anche dove ci si incontra, dove tessiamo reti, dove costruiamo legami di compagnia e complicità. Ci muoviamo all’interno del ritmo urbano per sviluppare le nostre espressioni antagoniste.

Alcuni potrebbero cercare di sfuggire a questa contraddizione di base, investendo in una sorta di autogestione controculturale limitata principalmente dalla vita quotidiana unidimensionale, flirtando con la comodità di un nuovo ghetto, tribù urbana o stile di vita alternativo che, senza confronto, viene facilmente recuperato dal dominio.

Nell’ottobre 2019 la scena nel territorio dominato dallo Stato Cileno è cambiata completamente, costringendoci a porci nuove domande e sollevando nuove possibilità di portare avanti le nostre negazioni al limite del possibile, nella distruzione di questo mondo e nella creazione di altre realtà possibili. La pratica e le difficoltà in un territorio specifico durante un periodo di rivolta armano la passione distruttiva.

Percorsi informali di affinità, la loro temporaneità e il loro vantaggio

Lo sviluppo delle relazioni di affinità e dell’organizzazione informale è stato esplorato in profondità in molti testi della corrente anarchica. Si è scritto molto sulla libera associazione tra individui, rifiutando le categorie imposte dalla dominazione e le sue mille segmentazioni. Doversi organizzare con individui solo perché partecipano allo stesso lavoro, si trovano nella stessa situazione o appartengono allo stesso paese rafforza in parte le categorie imposte(1).

Prima di tutto, comprendiamo la necessità di organizzarsi per la sopravvivenza o per un minimo di resistenza in certi contesti, ma vediamo che passare da questo a caratterizzare tali approcci come rivoluzionari e conflittuali è intrinsecamente impossibile. Nella lotta contro il potere, una parte della tendenza anarchica ha rifiutato quelle categorie che ci vengono imposte riguardo al dove, come e con chi legarsi e relazionarsi. L’affinità si apre allora come un percorso che rompe con le categorie preesistenti e ci fa incontrare tra coloro che hanno visioni comuni in certe dimensioni della realtà, superando categorie e segmenti.

Le affinità forgiate nelle esperienze di lotta possono organizzarsi in modi diversi. Mettere permanentemente in discussione le strutture stabilite è una parte inseparabile della lotta anarchica, per cui è necessario identificare i vizi dell’organizzazione formale per costruire altri modi di collegamento. Salvaguardare l’organizzazione fine a se stessa al di sopra degli individui coinvolti, mantenendo la struttura organizzativa al di sopra delle volontà degli individui, o la forma di decisione democratica in cui la minoranza viene spazzata via e gli anticorpi dell’organizzazione espulsi, può solo portarci alla riproduzione in scala di un partito politico, il germe dello Stato e le sue strutture nate nelle nostre mani.

Per noi, lo stimolo dell’organizzazione informale sta nella sua mobilità, nell’instabilità dei suoi componenti e nel loro dinamismo. L’organizzazione non deve essere mantenuta o durare oltre quello che le affinità e le volontà determinano, essendo un veicolo momentaneo nel tempo che si dissolve una volta raggiunto l’obiettivo. L’informalità rende il suo funzionamento variabile ma stabile e permanente nella lotta contro il potere.

Alcuni potrebbero far notare che stabilire legami di affinità e organizzazione informale come priorità nel nostro lavoro politico obbedisce solo all’attuale contesto di dominio (società fortemente modernizzate e tecnologizzate, cittadinanza, minimo senso di comunità o di classe, ecc.) Potrebbero considerarlo il metodo più semplice per sviluppare la lotta rivoluzionaria nelle condizioni attuali, una sorta di opportunismo in cui affinità e informalità sono solo un metodo utile per il contesto attuale, ma in un altro momento storico queste forme cambierebbero o semplicemente diventerebbero obsolete. Oggi gruppo di affinità informale, ieri sindacato, domani partito politico o organizzazione piattaformista, ecc.

Coloro che si avvicinano a questo “opportunismo”, o che forgiano relazioni di affinità dalla facilità del loro contesto, non conoscono l’antichità e la profondità dei gruppi di affinità e delle associazioni informali in tutta la lotta contro l’autorità. Basta dare un’occhiata al nostro passato per scoprire che sono facilmente rintracciabili in ogni contesto; piccole minoranze che hanno naturalmente optato per questa forma di organizzazione continuano a comporre il filo nero della lotta anarchica.

L’affinità non è un veicolo ma una decisione in sé, l’atomo di ciò che concettualizziamo come la negazione dell’autorità.

Se a queste riflessioni aggiungiamo il fattore temporale che può essere inteso anche come mezzi e fini, il discorso acquista un significato pratico che riguarda il nostro sviluppo, le scommesse e le aspettative nel presente.

C’è chi intende le modalità di organizzazione e di relazione come metodo di lotta che ci permetterà di conquistare un’idea di libertà, di come vogliamo vivere, nel futuro. Oggi ci organizziamo e lottiamo come possiamo per il futuro prospero che un giorno arriverà. Guardare al futuro è la chiave di questa visione.

Altre posizioni affermano che i nostri vincoli e metodi si basano sulle possibilità del momento attuale. Queste posizioni anelano a momenti storici precedenti in cui altri elementi erano più preponderanti – gli scioperi sindacali, i processi delle grandi organizzazioni, la disciplina militare di certi gruppi. Il loro metodo è nelle loro possibilità, nella nostalgia di un passato che non c’è più.

Dall’altra parte osserviamo coloro che sottolineano l’importanza di mantenere la coerenza nei mezzi e nelle forme organizzative del presente per un supposto futuro, dove il fine deve essere direttamente in linea con i mezzi. Il futuro deve essere tracciato a partire dal presente.

Fortemente nutriti da certi elementi del nichilismo dove la negazione è la bussola, possiamo continuare ad alimentare posizioni in cui la temporalità e il classico rapporto mezzi/fini cominciano a scomparire. Il futuro non esiste, non si trova e forse non è nemmeno possibile raggiungerlo. La realizzazione di un mondo libero potrebbe non avvenire mai. I mezzi, in questo caso l’organizzazione informale e le relazioni di affinità, diventano un fine in sé. Il futuro è il presente, ed è nel presente che si stabilisce la rottura con la società su tutte le basi.

Certo, questa logica può portare all’evasione in uno stile di vita alternativo in cui ci sentiamo soddisfatti e pienamente convinti di fare del nostro meglio, o nel peggiore dei casi di vivere semplicemente in “libertà”. Ma la visione che ci interessa rafforzare è una risoluzione dell’offensiva, dell’attacco qui e ora, di un anelito permanente tra coloro che comprendono che l’anarchia non è solo una tensione né un compimento, ma anche oggi e non domani, in tutti i contesti che possono sorgere nel nostro presente.

La rivolta esplode… Questa volta i monumenti sono caduti ai nostri piedi, le banche e i ministeri sono bruciati oggi, non in un ipotetico domani. Di quanta benzina abbiamo bisogno per finire di incendiare la Capitale? Quanti altri martelli sono necessari per distruggere lo Stato? È il momento di rafforzare l’affinità e l’informalità nella lotta contro il potere?

Rotture nella Rivolta: Nuovi e vecchi incendi, nuove e vecchie domande

La rivolta non è una rivolta, nemmeno una rivolta generalizzata. La rivolta è la rottura colossale di molteplici aspetti in cui si sosteneva il funzionamento e la normalità del potere. È la pace dei cimiteri spaccati da migliaia di crepe. Sono gli incendi simultanei, sporadici e incontrollati che bruciano le strutture su cui si sosteneva la necropoli. La rivolta non è la distruzione completa del loro mondo, ma l’inizio. Prima di vivere una rivolta, non conoscevamo la dimensione di questo concetto, anche avendo partecipato a rivolte generalizzate con alti livelli di violenza.

Queste spaccature si verificano in luoghi diversi, il che ci porta a una comprensione completamente diversa del territorio con cui porci domande tanto nuove quanto vecchie. Ottobre brucia e scuote l’ordine dominante a Santiago, Antofagasta, Valparaíso, Concepción e altre grandi città, che diventano gli epicentri urbani della rivolta. Non è più così facile muoversi per la città, attraversarla completamente non solo ha migliaia di ostacoli (da quelli repressivi – coprifuoco, posti di blocco della polizia – a quelli causati dalla distruzione della città o come risultato delle innumerevoli manifestazioni). Il tempo viaggia alla sua velocità e il solo viaggio significa astenersi da altre attività.

Spontaneamente, il territorio diventa una forza rilevante a causa dell’interruzione urbana e della prominenza dell’azione in ogni distretto e quartiere. La molteplicità dei saccheggi avviene a livello territoriale; manifestazioni e rivolte sorgono istintivamente nelle strade principali vicino a dove vive la gente. Il centro della città si trasforma in un nuovo territorio in contestazione, a cui si aggiunge l’azione quotidiana e di routine della periferia e delle zone residenziali.

All’unisono con questo panorama, emergono e si moltiplicano le assemblee territoriali, organizzate autonomamente e rispondenti a molteplici necessità. Le motivazioni iniziali delle assemblee vanno dall’organizzazione delle prossime barricate, alle manifestazioni sonore contro il coprifuoco, al sapere come stanno i vicini, all’organizzazione di centri sanitari di fronte all’innumerevole numero di feriti, e infine il tentativo di dare una prospettiva e un approccio politico alla rivolta. Le assemblee sono composte da persone dello stesso territorio, sia esso quartiere, città, isolati, ecc., che con posizioni diverse cominciano a organizzarsi in modo orizzontale, al di fuori di qualsiasi partito politico e in modo aperto.

Lungi dall’idealizzarle, è importante riconoscere che le assemblee hanno aderito a diverse tendenze politiche, per cui ci sono assemblee più autonome e altre con discorsi più liberali. Molte volte si sono incaricate di formare petizioni per negoziare con lo Stato (principalmente sui temi della salute, dell’educazione, della pensione, ecc.), ed è così che il culmine di queste negoziazioni le porta a coprire le loro scommesse su un’assemblea costituente per riformare e – perché non dirlo – rafforzare lo Stato.

All’interno delle assemblee dove ognuno opta per un percorso diverso e posizioni diverse, sono sorte iniziative con chiare caratteristiche di autogestione e autonomia all’interno dei territori dello Stato (occupare una proprietà, gestire i bisogni collettivi e cercare soluzioni fuori dallo Stato).

La rivolta è stata una rottura con le forme abituali di lotta, almeno nella dimensione territoriale per quanto riguarda le incursioni sporadiche in alcune zone della città, ripetendo giorni di rivolte o proteste straripanti. La rivolta ha rotto e frantumato ritmi, nozioni di tempo e spazio, aiutandoci a formulare domande con l’unico scopo di abbattere il loro mondo.

Come possiamo combinare l’affinità con prospettive territoriali in cui la connessione risiede principalmente nella posizione geografica? Dove si intersecano e dove divergono? Possiamo ignorare le iniziative territoriali o concentrare tutti i nostri sforzi solo su questi spazi?(2)

Intreccio tra territorio e affinità

Queste domande, pratiche ma anche teoriche, non fanno che condurci a nuove domande, dicendoci che siamo sulla strada giusta. Non c’è un futuro certo, non ci sono risposte, linee guida o formule da seguire.

Il territorio non è definito dalle nostre volontà ma dal nostro quartiere, dove ci troviamo, dove viviamo o sviluppiamo la maggior parte delle nostre attività. L’affinità, invece, prende come punto di partenza che i nostri legami devono essere con quelli con cui abbiamo e con cui costruiamo punti in comune, accordi di base per aspetti specifici.

Il territorio è fatto di problemi particolari e situazioni uniche di tensione dove il potere si esprime nella vita quotidiana in modi diversi, a volte più elementari e semplici (presenza repressiva della polizia) o altre volte in modo molto più complesso (dinamiche di potere, traffico di droga, autorità religiose e/o di quartiere). I grandi simboli del potere sono lontani – le infrastrutture, le arterie del sistema e le strozzature economiche sono protette dalla distanza. Bisogna viaggiare per combatterli, come è successo più volte durante la rivolta, quando manifestazioni, proteste e rivolte hanno fatto incursioni nei quartieri commerciali. Lo Stato e il potere si inseriscono nei territori attraverso la necessità, la normalità e l’impotenza di intervenire nello sfruttamento quotidiano.

L’incontro territoriale e i legami di affinità possono a prima vista essere letti come contraddittori o addirittura dicotomici. Ma la loro confluenza può portare all’eccezionalità nei pensieri e nelle azioni di lotta.

Nei quartieri e nei territori si sono moltiplicati gli attacchi alle stazioni di polizia, le cucine comunali, le lotte di strada, le assemblee per risolvere i bisogni primari. I gruppi di affinità all’interno di un territorio, anche se già esistevano, sono cresciuti o si sono spostati. Molte volte possiamo avere la fortuna di costruire nuove affinità in base al contesto di rivolta, altre volte siamo meno numerosi o siamo sparsi per la città, tutti spostati in un determinato territorio. Sarebbe miope non visualizzare la forza che la dimensione territoriale assume in una rivolta e nelle possibilità di scatenare l’insurrezione. L’affinità deve saper contemplare questa dimensione quando se ne presenta l’occasione; è in quei momenti di rottura assoluta e completa che la forza e il contesto in certi luoghi può tirare fuori il meglio di sé per la distruzione del mondo dell’autorità.

Non possiamo abbandonare le nostre affinità perché “il Cile si è svegliato” e passare a forme che rifiutiamo nel loro nucleo. Al contrario, è il momento di rafforzarle, rafforzare il discorso, consolidarlo, dare tutto e allontanarsi da posizioni immobilizzanti che continuano a persistere come: “il popolo non è pronto”, “le condizioni non sono adatte”, o posizioni paternalistiche che cercano di guidare i percorsi o intervenire e mostrare il “vero modo di combattere”. Le strade sono in fiamme, le banche distrutte, le farmacie e i supermercati saccheggiati, i momenti e le condizioni sono per sempre e le forme di lotta sono lì, tra le rovine fumanti.

Le relazioni di affinità sono incubate e rafforzate, ma possono anche essere coordinate e potenziate dalla frantumazione di temporalità, scuse e contesti idealistici per, attraverso una lettura della realtà, poter godere della libertà oggi, proprio nel momento del confronto e della distruzione dello Stato e del potere.

Nell’attuale contesto di rivolta, situare l’assemblea territoriale in opposizione, di per sé all’esistenza dei gruppi di affinità, è una falsa dicotomia mentre – per ora – possono completarsi e persino potenziarsi a vicenda negli aspetti di confronto, autonomia e indicatori di controllo territoriale. L’affinità in ambito territoriale può valorizzare spazi di rottura, negazione e costruzione di relazioni libere. È una scommessa necessaria per chi vede una crepa da approfondire. Questi gruppi di affinità possono funzionare al di fuori delle assemblee territoriali, coordinarsi informalmente in obiettivi comuni o anche in modo completamente autonomo, pur riconoscendo l’esistenza e le attività di entrambi all’interno di un territorio.

Alcune tracce e sfumature nei territori: “Le Comuné”, il controllo territoriale o le bolle e le isole di libertà

Con l’avanzare della rivolta, Plaza Dignidad(3) si è trasformata in un palcoscenico sul quale si è intensificata la lotta nel centro stesso della città, assumendo rapidamente nozioni territoriali dal punto di vista sopra sviluppato. Le assemblee territoriali e le diverse iniziative(4) si sono combinate con l’azione multiforme dei gruppi di affinità, mentre i quartieri e le città contemporaneamente continuavano a prendere forza.

Lo sviluppo di questa lotta ci porta a una questione che non si pone nel futuro ma nel presente. L’intensificazione di questa forma territoriale porta immediatamente alla concentrazione delle forze repressive in un settore che cercano di controllare. Questo recinto repressivo ha caratteristiche diverse in Plaza Dignidad che nelle comunità; il primo di questi luoghi non è una zona residenziale o di abitazione permanente, mentre nel secondo la pressione repressiva diventa una costante insieme alla necessità di soddisfare le esigenze di base della vita quotidiana.

Quando l’intensificazione del conflitto si sviluppa in alcuni determinati quartieri, riuscendo ad accostare le forze di repressione del settore(5), queste zone vengono rapidamente militarizzate e riconquistate nei loro confini.

Di fronte a questa realtà, è necessario ribadire il rifiuto di creare feudi, castelli o bastioni di combattimento contro lo Stato, perché la forza militare di chi è al potere è infinitamente maggiore di quella dell’insurrezione. D’altra parte, credere nella creazione di bolle di libertà all’interno del sistema è un miraggio e una falsa oasi.

Teoricamente, le isole di libertà non possono essere libere finché esistono lo sfruttamento e l’oppressione, ma anche tatticamente questo approccio è disastroso quando si tratta di affrontare gli assalti dello stato. In considerazione di ciò, è importante guardare ad altre esperienze storiche legate al territorio dove troviamo il Controllo Territoriale creato dall’autonomia all’interno del popolo Mapuche, o espressioni di presa del territorio esercitate durante la dittatura e l’inizio della democrazia.

La lotta si basa su un territorio e riuscire ad espellere lo schema dello Stato, anche parzialmente e momentaneamente, da un territorio ci permette di pensare alle possibilità di vivere senza di esso. Apre la strada, lontano da petizioni e negoziazioni. La moltiplicazione di questo esercizio presenta una possibilità di uscire dall’asimmetria aprendo nuovi focus sempre a partire da e per la distruzione dei rapporti di potere e delle loro strutture, risolvendo il quotidiano lontano dalle sue istituzioni.

In questa dimensione territoriale, l’affinità diventa la porta e l’asse per la connessione, sfuggendo alle nozioni di potere popolare, comitati centrali o grandi federazioni di “liberi comuni”. Intendendo come priorità la libertà e lo sviluppo dell’individuo e dei suoi legami, le relazioni di affinità mirano a responsabilizzare i soggetti in totale libertà. Se ci stacchiamo da queste nozioni e strumenti per legarci al territorio, ipotecando il presente per un futuro in cui lo sviluppo dell’individuo sia integrale, non solo ci scaveremo la fossa da soli, ma la scaveremo con la stessa pala usata da altri compagni in altri momenti storici. Il nostro presente è il futuro.

Il rafforzamento dei territori in rivolta è inevitabile e benefico nella lotta contro lo Stato. La contestazione della dimensione territoriale risulta essere uno dei tanti assi su cui si sviluppano i combattimenti nella rivolta. Nonostante ci si possa organizzare per le necessità minime di sopravvivenza nei territori o in altre categorie imposte, è nel quartiere, nella comunità o nel territorio in cui ci si sviluppa che si possono rafforzare i gruppi di affinità, le loro nozioni di relazione e le loro coordinazioni, portandoci a sviluppare il conflitto senza ipotecare la nostra storia, le nostre forme o traiettorie anarchiche informali.

1) Uno degli specchi perversi di questa dinamica è il raggruppamento basato su categorie identitarie, la cui lotta è per il riconoscimento e il rispetto di questa identità da parte del sistema.

2) Domande presenti in “Più di due mesi di rivolta contro lo Stato del Cile: Rapido bilancio, proiezioni istintive e negazioni permanenti”. Kalinov Most/Kalinov rivolta speciale, gennaio 2020.

3) Plaza Italia, ribattezzata Plaza Dignidad durante la rivolta, si trova in una zona non propriamente residenziale ma è diventata un simbolo e l’epicentro delle proteste. Nonostante non sia un quartiere residenziale, alcune persone sono andate a passare la notte e a vivere nella piazza e nei suoi dintorni durante la rivolta.

4) Queste espressioni vanno dalla distribuzione di cibo ai manifestanti, ai concerti, alle attività collettive e comunitarie, alla copertura di diverse necessità con iniziative di solidarietà e mutuo sostegno.

5) In particolare nel caso dei settori di Lo Hermida o Pudahuel, dove per giorni consecutivi la stazione di polizia e tutte le forze dell’ordine del settore sono state attaccate, lasciando il territorio sotto il controllo degli abitanti, che avevano, tra l’altro, posti sanitari per i feriti e punti di raccolta di cibo.

Tratto da: Kalinov Most #6 via actforfree.noblogs.org

Traduzione: infernourbano