Transizione energetica in città? La faccia green e la mani sporche di rosso sangue

In questi giorni si fa una un gran parlare di transizione energetica in città, quando si nasconde il fatto che sembra più l’accumulazione della catastrofe. Tutta l’arco istituzionale cittadino mente sapendo di mentire. E anche chi crede ai venerdì del futuro fa lo stesso, perché la politica è l’arte della menzogna generalizzata. Veramente vogliamo credere a chi vince le elezioni toccando le corde delle anime belle dell’ambientalismo dicendo che chiuderà l’inceneritore per poi posticipare la chiusura fra vent’anni? Veramente vogliamo credere a chi finanzia Citelum per cambiare l’illuminazione pubblica, nota ditta di proprietà di EDF, mostro francese che produce il nucleare nella vicina Francia? Ormai la proposta verde del capitalismo mette d’accordo molti, sia chi sta alla destra del potere sia chi sta alla sua sinistra, ma il colore del risultato è sempre lo stesso, il rosso sangue delle morti provocate da inquinamento dell’aria e dalla corsa all’atomo, producendo disastri palesi come Hiroshima, Nagasaki, Fukushima e Chernobyl. E gli opportunisti fanno finta di non vedere: il problema è che questo mondo si basa sullo sfruttamento di qualunque risorsa e sulle guerre per depredare qualunque territorio. Non esiste transizione, ma solo addizione che sostiene questo mondo mortifero.

Con questo testo vorremmo mettere dei dubbi a tutti quegli individui che hanno ancora voglia di non bersi tutte le tristi cazzate del dominio. Buona lettura.

La casa del diavolo

«Il diavolo si è installato in un nuovo domicilio. E anche se fossimo incapaci di farlo uscire dal suo rifugio da un giorno all’altro, dobbiamo per lo meno sapere dove si nasconde e dove possiamo stanarlo, per non combatterlo in un angolo in cui non trova più rifugio da molto tempo — e affinché non si prenda gioco di noi nella stanza accanto»

Günther Anders

Per sviscerare la questione dell’energia, o meglio delle risorse energetiche da cui dipende il buon funzionamento dello sfruttamento capitalista e del potere statale, non serve un elenco di dati tecnici su questa o quella fonte di energia, o un calcolo delle nocività generate dalla voracità energetica del sistema industriale e l’enumerazione delle conseguenti devastazioni a livello ambientale. In linea di massima, sono sotto gli occhi di chi sa e vuole vedere.

A seguito dell’imposizione del nucleare da parte dello Stato, e con una crescita esponenziale dei bisogni energetici della produzione industriale, della guerra e del modello societario di consumo di massa, sono innumerevoli i conflitti legati alle risorse energetiche, alla produzione ed al trasporto di energia. Da un lato, gli Stati scatenano continue guerre per conquistare ed assicurarsi il rifornimento di determinate risorse, come il petrolio o le miniere di uranio. Dall’altro, si moltiplicano i conflitti cosiddetti sociali, a volte più ecologici, a volte radicalmente anticapitalistici, a volte di rifiuto di un’ulteriore devastazione del territorio o dell’imposizione di certi rapporti sociali conseguenti a quei progetti — come l’opposizione allo sfruttamento di una miniera, alla costruzione di una centrale nucleare, o alle nocività causate da una centrale elettrica a carbone.

Il lungo elenco di lotte e di guerre ci dà già un’idea dell’importanza che riveste l’energia, la sua produzione e il suo controllo.

Oggi, in tempi in cui ogni prospettiva rivoluzionaria di trasformazione totale dei rapporti esistenti, di distruzione del dominio, sembra essere quasi scomparsa, almeno nei paesi europei, esistono tuttavia non poche lotte di opposizione alle infrastrutture energetiche. Pensiamo alla gigantesca miniera di lignite a cielo aperto di Hambach, in Germania, dove la lotta contro la sua estensione è scandita da numerosi sabotaggi di ogni tipo che inceppano il funzionamento della miniera esistente; o alla lotta contro la costruzione del gasdotto TAP in Italia; o alle lotte in Francia contro la costruzione di nuove linee di alta tensione; o alle proteste contro l’installazione di nuove turbine eoliche o contro i permessi di esplorazione e sfruttamento del gas di scisto… Certo, tali conflitti non denotano sempre aspirazioni rivoluzionarie, e spesso al loro interno albergano il cittadinismo, l’ecologismo cogestionario, la ricerca di dialogo (quindi di riconoscimento) con le istituzioni, oltre ad una fastidiosa confusione. Ancor peggio, sovente sono afflitti da un evidente opportunismo politico, sul modello di ciò che i comitati invisibili e gli strateghi populisti di servizio teorizzano sotto forma di strategia della composizione: il tentativo di riunire tutto ciò che è incompatibile sotto la direzione di un alto comando politico.

Tutte queste lotte, a noi anarchici e anti-autoritari — che scrutiamo sempre l’orizzonte per scoprire i segni del malcontento e di possibili sbocchi insurrezionali, dimenticando troppo spesso l’importanza di agire in prima persona, sulla base di idee e di tensioni nostre — non potrebbero farci immaginare un progetto di lotta, non necessariamente nuovo ma abbastanza assente da qualche tempo, che proponga di tagliare l’energia a questo mondo, qualsiasi energia, sia essa nucleare, termica, solare, eolica?

Ma andiamo con ordine. Che cos’è questa Energia di cui si parla? Pur trattandosi di un termine che proviene dal lessico delle scienze fisiche, per misurare e quantificare determinati processi come ad esempio il calore, in genere si tende ad equiparare l’energia alla vita. Senza energia, niente vita. Senza energia, niente movimento. Oggi però il discorso sull’energia è penetrato dappertutto, anche dove in passato veniva ancora e giustamente distinto dai processi vitali. Per determinare la vita si misura ad esempio l’energia chimica delle cellule — base della vita biologica — ed è così che la stessa consapevolezza che la vita sia molto più di una serie di dati chimici o di un filamento di DNA, tende rapidamente a svanire. Non dimentichiamo che ciò che non è quantificabile non può essere accumulato. Quindi la qualità, come l’esperienza singolare, le passioni, le sensazioni, insomma tutto ciò che costituisce la poesia della vita, non possono essere misurate e facilmente trasformate in merce. Energia, quindi, non è sinonimo di vita. La distinzione potrebbe sembrare un po’ ridicola, un po’ superflua, ma non lo è: se proponiamo di tagliare l’energia a questo mondo, questa precisazione preliminare assume tutta la sua importanza.

Quando parliamo di energia, di risorse energetiche, è necessario quindi intendersi. Non si tratta, come solitamente si dice nella lingua parlata, che «l’umano libera energia» contenuta nell’atomo, nel petrolio, nell’olio di colza, nel gas o nel vento. No, è attraverso strumenti, strutture, processi e macchine che l’energia viene misurata, prodotta, generata, convertita, accumulata, immagazzinata e trasportata. Il soffio del vento non è semplice «energia cinetica»: occorrono pale eoliche, turbine, cavi e quant’altro per trasformarlo in energia elettrica.

Ci sarebbe molto da dire sulla conversione delle risorse in energia elettrica ad uso industriale o domestico, e sul rendimento di queste conversioni. Basti pensare a quanti litri di petrolio sono necessari per produrre un chilo di grano, che si potrebbe a sua volta quantificare in termini di energia (calorie), per constatare come il rendimento dell’agricoltura industriale a petrolio non sia affatto così razionale come si pensa.

Riprendiamo allora il filo: col termine Energia intendiamo tutti quei procedimenti, oggi quasi tutti industriali, utilizzati per convertire qualcosa in forza motrice, in energia elettrica. Checché se ne dica, questi diversi procedimenti messi a punto nel corso della storia non derivano da una semplice volontà di razionalizzazione, ed ancor meno da una preoccupazione etica o ambientale come millanta oggi il dominio, che investe massivamente nello sfruttamento di altre risorse come le cosiddette energie rinnovabili in conseguenza di precise strategie. La generalizzazione dell’uso del petrolio come carburante è istruttiva a tal proposito, essendo in buona parte una risposta, non solo a scopo preventivo contro i rischi di una paralisi della produzione, ai movimenti operai rivoluzionari sviluppatisi massicciamente proprio alla fonte della riproduzione del capitalismo. Benché lo sfruttamento del petrolio necessiti anch’esso di manodopera, i pozzi non ne richiedono quanto una miniera di carbone.

A sua volta, la nuclearizzazione del mondo non deriva affatto da una presunta ricerca di indipendenza energetica, in risposta alle crisi petrolifere, quanto dalla necessità di assoggettare le popolazioni. Con il nucleare, l’organizzazione gerarchica è diventata tecnicamente inevitabile, ponendo grossi ostacoli ad ogni orizzonte rivoluzionario di sconvolgimento dell’esistente. In altre parole, lo sfruttamento di una tale fonte energetica segue i disegni del dominio.

Ma allora, le energie rinnovabili odierne, in nome delle quali le colline ed i mari sono coperti di pale eoliche, i campi ed i deserti di pannelli fotovoltaici, le valli inondate e il corso e il flusso dei fiumi modificati e regolamentati? Una preoccupazione ambientale? Certo che no, oppure sì, se intendiamo la loro estensione come la prosecuzione dello stesso mondo industriale con altri mezzi. Le irreversibili devastazioni e contaminazioni lasciate in eredità da due secoli di industrialismo spingono oggi gli Stati a cercare soluzioni e superamenti tecnici per ridurre l’inquinamento e l’avvelenamento. Si tratti di fantasmi o di possibilità reali, il risultato è lo stesso: è la perpetuazione di quello stesso dominio che vogliamo abbattere.

Le energie rinnovabili tentano oggi di mitigare un rischio importante. Cioè, per far fronte a bisogni energetici esponenziali e ad una dipendenza sempre maggiore da un rifornimento elettrico stabile di interi settori dell’economia, dell’amministrazione statale o dell’orizzonte cibernetico che si afferma ad una velocità e con una potenza impossibili da sopravvalutare, il dominio deve non solo moltiplicare, ma anche diversificare i processi per generare energia elettrica. E visto che i progressi tecnici consentono oggi un rendimento più elevato (sebbene le pale eoliche abbiano un fattore di capacità molto basso, attorno al 20%), il sistema si è lanciato in questa diversificazione energetica con le energie dette rinnovabili. Per l’ennesima volta, non si tratta di una transizione energetica, bensì di una addizione, come dimostra non solo il fatto che le centrali nucleari o convenzionali non siano state tutte chiuse, ma che altre nuove centrali vengano costruite o sviluppate, che altre fonti di energia vengano esplorate, testate ed utilizzate (come gli impianti a biomassa) e che uno dei tre principali programmi di ricerca finanziati dall’Unione Europea sia quello del trasporto di elettricità per cercare, soprattutto attraverso l’uso di nano-materiali, di ridurre al minimo la perdita di calore sulle linee.

In generale, motivi economici e di controllo sociale a parte, le energie rinnovabili consentono di accrescere la capacità di continuare a funzionare in caso di intoppi: di una tempesta, di un accidente o di un sabotaggio. Ciò determina anche un decentramento della rete elettrica, con strutture disseminate dappertutto, quindi più facilmente attaccabili, anche in considerazione della vasta rete di trasporto e distribuzione da cui deve necessariamente dipendere.

Non sorprenderà nessun nemico dell’autorità che le infrastrutture energetiche siano quindi classificate dall’Unione Europea (così come da quasi tutti gli Stati del mondo) con il leggiadro eufemismo di «infrastrutture critiche», si tratti di una centrale, di un gasdotto, di una linea d’alta tensione, di trasformatori elettrici, di pale eoliche o di pannelli fotovoltaici. Nella relazione annuale 2017 dell’Agenzia di osservazione delle tensioni politiche e sociali nel mondo (sovvenzionata dai giganti mondiali delle assicurazioni), si poteva leggere che sull’insieme di attentati e sabotaggi contati come tali nel mondo e compiuti da attori «non statali», messe insieme tutte le tendenze ed ispirazioni, niente meno che il 70% hanno riguardato infrastrutture energetiche e logistiche (ossia: tralicci, trasformatori, oleodotti e gasdotti, antenne di trasmissione, linee elettriche, depositi di carburante, miniere, ferrovie). Indipendentemente dalle motivazioni che stanno dietro a tutti questi sabotaggi, che possono essere le più disparate, ciò su cui ci interessa riflettere è la possibilità di una progettualità anarchica su questo terreno — sapendo che l’energia è un perno del dominio, necessaria alla sua riproduzione oltre che all’acquietamento dei dominati.

In altre parole: disponiamo di analisi sufficienti per comprendere il ruolo svolto dall’energia, per cogliere l’importanza dei nuovi progetti energetici, ed è immaginabile sviluppare e proporre un metodo di lotta basato sull’azione diretta, la conflittualità permanente e l’auto-organizzazione che miri alle infrastrutture che permettono a questo mondo di alimentarsi di energia? Riusciamo ad immaginare ed elaborare una progettualità che riesca a portarci al di là delle occasioni offerteci dal calendario dell’attualità, così da determinarne noi stessi i tempi e gli angoli d’attacco?

Sì, perché, se gli anarchici smettessero di correre dietro agli avvenimenti (anche quando si presentano situazioni simpatiche come scontri con la polizia o azioni distruttive), potrebbero cercare loro stessi di creare gli avvenimenti. Non subire l’iniziativa altrui, ma prendere l’iniziativa. Non seguire il corso delle cose, ma andare contro corrente, vivificare la nostra corrente nel fiume della guerra sociale. È da lì che bisognerebbe partire: da un progetto autonomo che sia nostro, che intervenga in una realtà che ci circonda e ci ingloba, un progetto che renda possibile l’agire, che ci proietti nella realtà della guerra sociale con degli obiettivi in mente, con metodi e proposte nostri, con approfondimenti per cercare di cogliere i movimenti del nemico.

Non può essere la realtà a surclassarci, a suggerirci o sconsigliarci le cose da fare. Smettiamo di correre dietro agli altri solo perché è la situazione del momento o il soggetto politico del giorno (cioè senza altra idea in testa se non quella di partecipare). Se parliamo agli altri, è perché abbiamo qualcosa da dire, da proporre e da suggerire. Se analizziamo i conflitti che avvengono intorno a noi, non è per perdere la nostra bussola nell’ammirazione o nel disgusto di quanto fanno o non fanno gli altri. Se disertiamo le scene della contestazione concertata e della composizione, è per aprire terreni di lotta su ben altre basi.

Elaborare una progettualità anarchica nostra che ci permetta di agire in prospettiva, qualcosa che abbiamo creato, che ci appartiene, che amiamo, che approfondiamo, senza farci limitare da ciò che succede vicino a noi, da ciò che si dice nei social network o nei siti di movimento, attraverso cui l’attualità viene bombardata come soggetto da commentare all’infinito… tutte cose che alla fine subiamo. Senza progettualità è difficile arrivare da qualche parte, si finisce con l’agitarsi e lasciarsi agitare senza orizzonti propri.

Ecco perché elaborare una progettualità contro l’energia e il suo mondo. Pur essendo vero che finché non si prova non sappiamo cosa possa generare in termini di trasformazione sociale il suo disturbo o la sua paralisi, ciò non toglie che è indispensabile che la macchina si fermi perché possa emergere qualcos’altro. Esistono già molti conflitti in atto o emergenti, che possono consentire superamenti insurrezionali nel contesto di lotte specifiche contro un obiettivo preciso, come potrebbe esserlo ad esempio una nuova centrale nucleare, una miniera, un parco eolico o una linea ad alta tensione. Ma, soprattutto, il modo in cui è costruito il sistema energetico (dalle centrali elettriche ed eoliche ai trasformatori, dalle linee ad alta tensione alle scatole elettriche di media tensione, che corre sotto i marciapiedi e lungo le strade) non richiede una concezione centralista o autoritaria dello scontro, al contrario. Una simile progettualità fa appello a piccoli gruppi autonomi, che agiscano ognuno secondo la propria analisi, la propria abilità, la propria creatività e le proprie prospettive, praticando l’azione diretta contro decine di migliaia di obiettivi dislocati ovunque, spesso senza particolari difese e raggiungibili in molti modi differenti.

Se la storia delle lotte rivoluzionarie è piena di esempi significativi sulle possibilità d’azione contro ciò che fa girare la macchina statale e capitalista, basta gettare uno sguardo alle recenti cronologie di sabotaggi per accorgersi che in diversi contesti europei nemmeno il presente ne è sprovvisto. A patto di disfarsi degli imbarazzi che accompagnano molto spesso i dibattiti tra rivoluzionari quando si tratta di tagliare la corrente di questo mondo, per affrontare la questione di una progettualità indispensabile per emanciparsi dal triste destino di anarchici troppo spesso al rimorchio di altri. Nessuno può prevedere a cosa ciò potrà portare, ma una cosa è certa: è una pratica di libertà.

Fonte: filoscoperto.noblogs.org