Sul prelievo del DNA in seguito agli arresti dell’Operazione Ritrovo

Pur essendo trascorsi due mesi dalla nostra scarcerazione, vogliamo raccontare brevemente com’è avvenuto il prelievo del DNA in uscita. Sono stati scritti tanti testi e approfondimenti a riguardo, ma riteniamo importante collettivizzare le esperienze dirette, per trarne eventualmente degli spunti.

Premettiamo che eravamo in quattro differenti carceri (Vigevano, Piacenza, Alessandria, Ferrara) e la scarcerazione è avvenuta per tutte/i il 30 maggio, anche se in orari diversi.

Nel caso delle compagne e dei compagni che hanno inizialmente rifiutato di dare il DNA volontariamente, la reazione da parte delle guardie è stata la stessa: minaccia di trattenerci per più tempo, finché non fosse arrivato l’ok del PM per il prelievo coatto. In un caso hanno direttamente dichiarato che avrebbero proceduto con il prelievo coatto, dato che lo Stato glielo permetteva.

Successivamente, le linee tenute sono state le seguenti:

1) Alessandria: non essendo arrivato l’ok del PM in tempi brevi, le guardie hanno intimato i compagni di denunciarli per resistenza a pubblico ufficiale, ma nessuna denuncia è stata notificata. I compagni sono usciti senza essere sottoposti al prelievo del DNA.

2) Ferrara: siccome il PM non risultava reperibile e quindi l’ok tardava ad arrivare, le guardie hanno proposto ai compagni che fosse il personale medico (e non della penitenziaria) ad effettuare il tampone. I compagni sono riusciti a mettersi in contatto con l’avvocato e, dopo una consultazione con lo stesso, sono stati resi edotti dell’effettiva possibilità di un trattenimento in carcere assai dilatato e indefinito (a seconda dei tempi di attesa dell’autorizzazione del PM); hanno quindi deciso di accettare.

Alla fine il prelievo è stato effettuato da un’infermiera. Sarebbe importante capire cosa comporti il fatto che il tampone sia stato effettuato da una persona formalmente non abilitata a farlo e che non sia stato firmato il foglio in cui si dichiara di fornire spontaneamente il DNA (quindi c’è un prelievo che non è coatto, ma allo stesso tempo senza il consenso dell’interessato). Altra cosa da capire bene è per quanto tempo una persona può esser trattenuta una volta arrivato l’ordine di scarcerazione, perché a Ferrara hanno minacciato di farlo per almeno 3 giorni (fino al martedì, quando la scarcerazione è stata notificata il sabato) causa festività e relativo ponte; la cosa è decisamente poco probabile, ma sarebbe da accertare se esiste una disposizione univoca in merito o se l’eventuale trattenimento in carcere è a discrezione della direzione di ogni istituto.

3) Piacenza: in seguito al rifiuto di dare il DNA spontaneamente, sono partite minacce da parte delle guardie (“portatele la corda per impiccarsi” rivolto a una delle due compagne). Dopo circa due ore di attesa, un gruppo di diverse guardie tra uomini e donne -guidato dall’ispettore, noto soggetto amante dei metodi forti- ha preso separatamente le compagne con la forza per portarle nella sala del prelievo. È stato affermato che l’autorizzazione del PM fosse arrivata, ma -nella concitazione del momento- le compagne non hanno chiesto di vederla: a posteriori, questo è stato un errore, poiché successivamente si è scoperto che nelle altre carceri la stessa autorizzazione non era arrivata. In assenza di autorizzazione del PM al prelievo coatto, il DNA viene messo in banca dati ma, a quanto ci risulta, non dovrebbe essere utilizzabile qualora venga dimostrato che il prelievo sia avvenuto in assenza di autorizzazione. Dopo essersi infilato i guanti l’ispettore ha dichiarato di poter esercitare la forza “in quanto maschio” e che questo potere gli era stato “conferito dallo Stato”. In seguito al prelievo coatto ha falsificato la firma di una delle due compagne, minacciandola affinché non sporgesse denuncia. Il prelievo è stato fatto con la forza: ginocchia in pancia, naso tappato, braccia bloccate, pressione sulla mandibola e sulle guance e testa rivoltata indietro tirando i capelli. Nonostante gli spiacevoli metodi subiti ci si augura almeno che la precisione dei campioni prelevati sia venuta meno, dato che il tutto si è svolto in condizioni tutt’altro che asettiche.

4) Vigevano: il prelievo è avvenuto senza ostacolo per le guardie e per il medico. La compagna è stata prelevata e portata nell’ambulatorio completamente circondata da energumeni. Non ha opposto resistenza perché ha ritenuto di non sentirsi in grado di portarla fino in fondo.

Alla luce di queste esperienze, avvenute nell’arco della stessa giornata, risulta chiaro che qualora l’autorizzazione del PM non arrivi ogni carcere possa decidere a sua discrezione come procedere. Già sapevamo, ma abbiamo avuto ulteriore conferma, che sia possibile uscire con una denuncia o, ancora meglio, con una minaccia di vedersela notificare. Abbiamo purtroppo anche avuto conferma del fatto che il prelievo coatto, per il semplice esercizio della forza che comporta, sia vissuto da certe guardie come un’immensa soddisfazione e questo ci ha fatto riflettere. Tuttavia ci lascia un sorriso il fatto di poter sperare che la precisione di alcuni campioni sia stata resa meno certa.

Il prelievo del DNA non segue delle prassi standard in ogni dove; a maggior ragione è di grande importanza uno scambio di esperienze a riguardo, affinché chi si troverà in futuro di fronte ad un prelievo (e potrà esercitare una scelta) possa avere ulteriori strumenti esperienziali per scegliere fin dove spingersi e a che fine.

Il rifiuto di dare volontariamente il proprio DNA non è una postura ideologica, ma è una scelta che consente di ridurre i margini di precisione o di utilizzabilità di ciò che la controparte prende con la forza. Certo, i quesiti sono ancora tanti, ma è bene continuare ad approfondire il tema e le pratiche di contrasto all’utilizzo di un reperto che spesso in tribunale vorrebbe essere fatto passare come prova scientificamente oggettiva.

Fonte: RoundRobin