Sorveglianza Speciale e Misure Preventive – Ovvero lo Stato di Polizia chiamato Prevenzione

Introduzione

La legge 1423 del 27.12.1956 intitolata “MISURE DI PREVENZIONE NEI CONFRONTI DELLE PERSONE PERICOLOSE PER LA SICUREZZA E PER LA PUBBLICA MORALITÀ” è stata successivamente modificata dal D.L.vo n. 159 del 2011 e nuovamente rubricata “Codice Antimafia”. La normativa prevede che possa essere proposta la sorveglianza speciale per tre categorie di persone: a) per coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) per coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) per coloro che, in base al comportamento, debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica (cfr. Art 1). Oltre ai soggetti indicati dall’art .1 D.L.vo n. 159 del 2011, la novella del 2011 ha esteso l’applicazione delle misure di prevenzione ad altre categorie di persone, quali ad esempio gli indiziati di appartenere alle associazioni mafiose ex art. 416 bis c.p. o coloro che, operanti in gruppo od isolatamente, pongono in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo IV, del libro II del c.p., così come indicato nell’art. 4 della predetta legge. Attualmente, diversamente da quanto disponeva la legge del 1956, la titolarità della proposta di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale è in capo al questore, al procuratore nazionale antimafia, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona e al direttore della D.I.A. La proposta è presentata al presidente del Tribunale del capoluogo della provincia in cui la persona dimora il quale fisserà la data dell’udienza che, di norma, si svolge senza la presenza del pubblico, a meno che l’interessato chieda che si svolga pubblicamente. A seguito dell’udienza il giudice statuirà se applicare o meno la misura di prevenzione della sorveglianza speciale e, qualora la disponga, nel provvedimento stabilirà la durata che non può essere inferiore ad un anno né superiore a cinque, ai sensi dell’art. 8. Alla sorveglianza speciale può essere aggiunto, a seconda delle c ircostanze, il divieto di soggiorno in uno o più comuni o Province, o alternativamente l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale. In relazione a ciò, all’interno del provvedimento, sono altresì determinate le prescrizioni che la persona sottoposta alla sorveglianza deve osservare. Le prescrizioni generali sono quelle di trovarsi un lavoro, avere una dimora fissa, di farla conoscere all’autorità e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza. In ogni caso, prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina prima di una certa ora e senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non partecipare a pubbliche riunioni. Inoltre, può imporre tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale; ed, in particolare, il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più Province etc. (art.8 comma 5). Qualora sia applicata la misura dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale o del divieto di soggiorno, può essere inoltre prescritto:
1) di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo avviso alle autorità preposta alla sorveglianza;
2) di presentarsi alle autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni indicati ed a ogni chiamata di essa.
Alle persone di cui sopra è consegnata una carta di permanenza (“libretto rosso”) da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. Se la proposta riguarda la misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, il presidente del tribunale, con decreto, può disporre il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente. Nel caso in cui sussistano motivi di particolare gravità, può altresì disporre che alla persona denunciata sia imposto, in via provvisoria, l’obbligo o il divieto di soggiorno fino a quando non sia divenuta esecutiva la misura di prevenzione. Chi contravviene agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno. Se l’inosservanza riguarda la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dai casi di flagranza. La sorveglianza speciale comincia a decorrere dal giorno in cui il decreto è comunicato all’interessato e cessa di diritto allo scadere del temine nel decreto stesso stabilito, se il sorvegliato speciale non abbia, nel frattempo commesso un reato (art. 75). In opposizione al provvedimento che dispone la sorveglianza speciale è possibile proporre appello e avverso il decreto della Corte d’Appello che dovesse confermare la misura è ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione. Quanto sin d’ora esposto rappresenta in sintesi il contenuto della legge 1423/1956 così come modificata dal D.L.vo n.159 del 2011.

Le modifiche apportate dalla L. n. 48 del 2017 (“Decreto Minniti”) e dal D.L. n. 133 del 2018 (“Decreto Salvini”) al D.lgs. n. 159 del 2011 e l’introduzione delle misure di prevenzione “atipiche”

Il 18 aprile 2017 è stata approvata la legge di conversione del decreto – legge n. 14 del 20 febbraio 2017, cosiddetto “Decreto Minniti”, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città. Il provvedimento, dopo aver definito la nozione di “sicurezza urbana”, ha apportato alcune modifiche alle misure “tipiche” di prevenzione, come la sorveglianza speciale, nonché ha introdotte delle misure “atipiche” di prevenzione, come il cosiddetto “DASPO urbano”, connotate da forte somiglianza rispetto al divieto di avvicinamento già vigente in materia di contrasto alle forme di violenza manifestatesi in ambito sportivo, disciplinate dalla legge n. 401/89 e successive modifiche (cd. D.A.SPO.). Per quanto attiene le prime è stato inserito l’inciso che tra gli “elementi di fatto” da cui può desumersi la sussistenza della pericolosità, funzionale all’applicazione della sorveglianza speciale, potranno essere considerate le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio e dei divieti di frequentazione di determinati luoghi, previsti dalla vigente normativa. L’inosservanza ripetuta delle misure del foglio di via obbligatorio e del Daspo urbano può essere considerata come “elemento di fatto” ai fini della ricorrenza dei presupposti per l’irrogazione di misure di prevenzione risolvendo così il problema della valutabilità, ai fini dell’applicazione della sorveglianza speciale di P.S. e delle altre misure di competenza giurisdizionale, delle condotte trasgressive delle misure “amministrative”, come ad esempio del foglio di via obbligatorio. Altro dato importante è l’introduzione della clausola secondo la quale obblighi e prescrizioni della sorveglianza speciale potranno essere disposti, con il consenso dell’interessato, con i l c.d. braccialetto elettronico (art. 275 bisc.p.p.). Nella Relazione al testo di legge si chiarisce che la disposizione in esame mira a garantire una maggiore efficacia delle misure di prevenzione grazie all’effetto deterrente del controllo a distanza e a di agevolare l’attività di monitoraggio e controllo, rendendo disponibili le forze dell’ordine a compiti diversi, una volta sollevate dall’obbligo di verificare di persona il rispetto delle prescrizioni da parte del sottoposto.

Il D.A.spo Urbano

L’art. 9 e 10 del “Decreto Minniti” disciplinano l’ordine di allontanamento, provvedimento di polizia, tendente a realizzare concretamente la necessità di allontanare individui che hanno commesso violazioni amministrative previste dalla legge (indicate nei primi tre commi dell’art. 9). È un provvedimento amministrativo preventivo – cautelare che si realizza nella forma di comando, imposto dall’organo accertatore. L’ordine ha una durata di 48 ore e non è soggetto ad alcuna convalida da parte dell’autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza, vista la sua breve durata, la provvisorietà e il fatto di limitare esclusivamente e per breve periodo la circolazione o lo stazionamento in una zona ben delimitata e circoscritta. In caso di mancato rispetto dell’ordine è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria di una somma da € 200 a € 600, mentre il pagamento in misura ridotta, effettuato entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione, è pari a € 200. Ma le conseguenze dell’ordine di allontanamento non si esauriscono nella sua mera applicazione. Il legislatore ha infatti previsto che copia del provvedimento venga trasmessa con immediatezza al questore competente per territorio quale autorità provinciale di pubblica sicurezza, il quale, in caso di reiterazione dell’elusione del predetto ordine, potrà a sua volta emettere un proprio provvedimento interdittivo di “divieto di accesso urbano”. Presupposto per l’applicazione del predetto divieto di accesso a determinati luoghi è quindi la reiterazione delle condotte già stigmatizzate con la sanzione pecuniaria e l’ordine di allontanamento sindacale ai sensi dell’art. 9, co. I e II, e quindi la commissione di azioni che impediscano la libera accessibilità e fruibilità di infrastrutture di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, ovvero ancora condotte vietate, quali ubriachezza e atti contrari alla pubblica decenza, con la necessaria indicazione che dalla condotta tenuta «possa derivare pericolo per la sicurezza». In ordine alla durata esso non potrà avere una valenza superiore a sei mesi, ma allo stesso tempo dovrà avere una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni qualora le condotte ad esso presupposte siano state poste in essere da un soggetto già condannato negli ultimi cinque anni con sentenza definitiva, ovvero confermata in appello per reati contro la persona o il patrimonio. L’applicazione del divieto di accesso nella forma più gravosa prevista per un soggetto già condannato in via definitiva per reati contro la persona o il patrimonio, di durata non inferiore a sei mesi e non ulteriore dei due anni con eventuali prescrizioni, attesa la più severa incidenza sui diritti del soggetto oblato, in particolare sotto il profilo della compressione della sua libertà di circolazione, impone la convalida ad opera dell’Autorità giudiziaria (G.I.P.). In ultimo il Decreto Minniti ha previsto, poi, un’ulteriore misura di prevenzione affidata al Questore: nei confronti di persone condannate con sentenza definitiva o confermata in appello, nel corso degli ultimi tre anni, per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope, per fatti commessi in determinati luoghi o nelle loro immediate vicinanze, sempre per ragioni di sicurezza, detta autorità può disporre «il divieto di accesso agli stessi locali o a esercizi analoghi, specificamente indicati, ovvero di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi». L’ambito di applicazione del provvedimento si presta ad essere molto ampio poiché il Questore, di fatto, potrebbe includervi un numero imprecisato di luoghi analoghi a quello in cui sono state commesse le condotte; inoltre, al di là del divieto d’accesso, in questa fattispecie il Questore è legittimato ad imporre, in alternativa, un divieto di mero stazionamento. Infine, recentemente è stato emanato il decreto legge n. 113 del 4 Ottobre 2018 (Decreto Salvini) recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata». L’art. 21 è intervenuto in relazione all’ordine di allontanamento ed al “DASPO urbano”, ampliandone l’ambito di applicazione piuttosto che smussarne le criticità: « All’articolo 9, comma 3, del decreto – legge 20 febbraio 2017, n. 14, sono apportate le seguenti modificazioni: 1. a) dopo le parole “su cui insistono” sono aggiunte le seguenti: “presidi sanitari”; 2. b) dopo le parole “flussi turistici” sono aggiunte le seguenti: “aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli». In conclusione si allargano le maglie per l’applicazione del Daspo urbano: oltre alle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, aree urbane su cui insistono (scuole, plessi scolastici e siti universitari) musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, ora si aggiungono anche le aree urbane su cui si trovano presidi sanitari o su cui si svolgono fiere, mercati e pubblici spettacoli.

Tratto da Scheggia N°5 Ottobre 2008 e aggiornato al 2018

Sospetti chiamati indizi: la costruzione della pericolosità sociale

«Non è la pendenza di un procedimento penale, di per se stessa, ad essere sintomatica di pericolosità sociale, dovendosi avere riguardo a tutti quei comportamenti direttamente ascrivibili al soggetto, da cui si può trarre il convincimento – sulla base di elementi di fatto – della pericolosità sociale della persona proposta e del la ricorrenza di una delle ipotesi di pericolosità sociale tipicizzate nelle leggi del 1956 e 1965» (Cass. pen., Sez. I, dic. 1989, n 3253, RV.183047, Marcellino, in CED Cass.)
«In tema di applicazione di misure di prevenzione il giudizio di pericolosità non postula l’accertamento di fatti – reato, ma esige che siano individuati fatti specifici, obiettivamente sintomatici di una condotta abituale legata ad associazioni di tipo ….» (Cass. pen., Sez. I, 17 nov. 1989, n 182893, Nuvoletta, in Ced Cass.)
«Il procedimento penale e il procedimento di prevenzione hanno presupposti e finalità diversi, il primo ha ad oggetto fatti illeciti costituenti reato, la cui commissione va compiutamente provata, mentre il secondo ha riguardo alla pericolosità sociale in senso lato , ( …. ), per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di una persona con uno stile di vita presumibilmente delittuoso, rispetto alla quale non si raggiunga una prova sicura di reità per un delitto; tale pericolosità, pertanto, non si correla necessariamente ad una affermazione di responsabilità in ordine ad un reato, ma va ricavata dal serio esame dell’intera personalità del soggetto e da situazioni oggettive che giustificano sospetti e presunzioni , purché gli uni e le altre non siano frutto di apodittiche affermazioni ma appaiano fondati su elementi fattuali specifici ed accertati» (Cass.Pen.Sez.1, 5 dic. 1989, n.3196, Rv.183083, Costanzo, in CED Cass.). Il foglio di via, l’avviso orale e infine la sorveglianza speciale. Qual è il loro fondamento e a che cosa servono? Proviamo a fare una piccola disamina sulla questione, cercando di mettere in risalto qualche piccolo elemento e di offrire una pur limitata visione generale. Alla base delle misure preventive, in particolare della più limitante per il soggetto, cioè la sorveglianza speciale, la giurisprudenza pone il concetto di indizio. L’indizio, secondo la legge, non è né un sospetto né un’illazione, né tantomeno una banale intuizione di un giudice, bensì un elemento basato su una sorta d’inequivocabilità, su una certezza insomma. Secondo una serie di accadimenti penali, di analisi passate e rispetto allo sviluppo di una giurisprudenza precisa, un semplice e banale evento prende la forma dell’indizio, cioè un fatto sicuro e soprattutto significativo. Una trasposizione non da poco. Ma di che tipo di evento parla la giurisprudenza? Facciamo un esempio banale: nella città dove un soggetto dimora abitualmente, magari a qualche isolato dalla sua abitazione, si è svolto un evento criminoso, mettiamo una rapina. La presenza accertata in città del individuo in questione, nell’ora in cui si è svolto il reato, è l’indizio di cui si parla, non una coincidenza come un ingenuo potrebbe pensare, ma un fatto che proverebbe la sua possibile partecipazione al reato avvenuto. Ecco l’indizio, il fondamento delle misure preventive. Indizio può essere tante cose: la tua presenza nei paraggi se accade qualcosa, come detto, i tuoi precedenti penali indubbiamente, ma anche il bar che frequenti, il tuo gruppo di amici, le strade che bazzichi, gli orari che segui, quello che dici e scrivi, ciò che compri o indossi; tutto, proprio tutto. Afferma la giurisprudenza: «l’indizio è la prova indiretta attraverso cui l’esistenza di un fatto da provare si ricava per il tramite di un’inferenza logica costituita da regole di esperienza consolidate ed affidabili». Un’inferenza logica, dunque, una relazione perfetta tra variabili, nelle intenzioni dei giudici, un risultato certo e scientifico insomma. È inutile mettere in evidenza che quando la lingua di legno delle istituzioni cita la logica, in questo caso come in altri, in realtà voglia nascondere il vero senso delle parole e cioè voglia dire discrezione, arbitrarietà, interpretazione personale. È infatti nella decodifica arbitraria dell’istituzione repressiva che si fonda il concetto di indizio, una totale discrezionalità che conduce a mirabolanti costruzioni e categorizzazioni ad opera di giudici e forze dell’ordine nei confronti del soggetto. È evidente che ci possano esser e delle relazioni tra i precedenti penali di una persona e la frequentazione del bar “malfamato” in quartiere (non siamo mica nati ieri!), ma tutto ciò non accerta niente sul comportamento penale attuale della persona, sul reato avvenuto o su altri reati ancora “in cantiere”. Esso diventa però indizio certo e assoluto solo per la presunta logica dell’istituzione che con creatività e immaginazione criminologica, mette insieme tutti i pezzi del puzzle, nel gergo repressivo detti informazioni “certe” sulla personalità del soggetto, e costruisce il profilo di pericolosità sociale. Eccoci al dunque, la famosa pericolosità sociale. Esso è il costrutto artificialerisultato finale della sommatoria degli indizi. Con i tempi che corrono è importante non sottovalutare questo concetto, esso la dice lunga sulle possibilità repressive attuali nelle mani di giudici e soprattutto delle forze dell’ordine. Il concetto di pericolosità ormai sta permeando tutto l’apparato giuridico e repressivo italiano, le misure preventive so no solo un esempio a riguardo, ma basti pensare a come tale concetto abbia invaso la questione migratoria, facendo da presunta base teorica alla reclusione nei Cpr, al diniego dell’asilo e alla stessa deportazione per averne un’idea più chiara. La pericolosità sociale permette al repressore di effettuare il grande salto. Questa nozione giuridica dà infatti all’istituzione la possibilità di catapultare il soggetto nei ranghi di un diritto parallelo, colpendolo con strumenti disciplinanti costruiti ad hoc, tra cui, appunto, la sorveglianza speciale, che, oggi è il pezzo forte dell’armamentario attualmente a disposizione. Nasce e si sviluppa, grazie all’emergenzialità della pericolosità stessa, una sorta di deroga normativa che consente ciò che, giuridicamente, non potrebbe essere permesso in condizioni normali, primo fra tutti l’applicazione di restringimenti alla libertà in assenza del reato, un qualcosa di inaccettabile anche per i convinti democratici della CEDU. La Sorveglianza speciale è quindi la condanna senza reato, la pena senza processo ordinario, l’eccezione permessa dallo Stato. La scomparsa del reato dall’orizzonte dell’applicabilità della sorveglianza esprime in pieno il nocciolo del discorso e ci permette di svelare quello che è l’obiettivo lungimirante della prevenzione stessa. Le misure preventive non sono strumento razionale di una punizione misurata sul criterio legge – reato, ma mirano a qualcos’altro, hanno cioè uno scopo a lungo termine. La personalità costruita, prodotto, come visto, de ll’accostamento di singoli eventi e caratteristiche, è il vero target da colpire. I reati passano in secondo piano, l’attenzione si sposta sulla persona in sé. Lo strumento punitivo da adottare non ha niente a che fare con i crimini commessi, le condanne o le denunce, ma invece si lega indissolubilmente a qualcos’altro, alla condotta, alle abitudini, le frequentazioni, lo stile di vita, le idee. Non il fatto specifico, il delitto, ma l’intima personalità del soggetto.

Sorveglianza e lotte

La sorveglianza è applicata su tutta la popolazione che compie reati, con particolare attenzione alle cosiddette organizzazioni criminali, oppure a chi è accusato di stalking e di violenze sessuali, ma anche ai soggetti che si “macchiano” dei reati tra i più diffusi come quelli legati allo spaccio e ai delitti contro il patrimonio. Nei quartieri poveri delle città, perciò, non è un discorso sconosciuto ed è abituale incontrare sorvegliati nelle strade. La sorveglianza, come tutto l’armamentario repressivo, ha il compito di arginare e tenere a bada la popolazione povera delle città italiane, ruolo e scopi che condivide con la repressione in tutte le sue forme. Negli anni però tale misura preventiva è stata richiesta ed utilizzata anche nei confronti dell’ambito cosiddetto “politico”, andando a colpire i soggetti per la loro partecipazione alle lotte cittadine e per le loro attività di conflitto. Un passaggio questo molto delicato proprio per la valenza e il significato storico che assume, alla luce di ciò che accaduto in passato nei confronti degli oppositori politici. Da che cosa è resa possibile l’applicazione di una misura tale anche nei confronti della cosiddetta conflittualità sociale? Un piccolo comma apre all’utilizzo della sorveglianza a infinite categorie di persone ed è il seguente: «Essa si applica ai soggetti che vengono ritenuti pericolosi per la sicurezza e per la pubblica moralità ed, in particolare, a quei soggetti che, sulla base di elementi di fatto: siano sospettati di essere dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica». La sicurezza e la tranquillità pubblica, dunque. Questa ultima parte del testo è ciò che permette l’utilizzo allargato della misura stessa, è ciò che garantisce la sua applicazione agli ambiti della conflittualità sociale, a chi si oppone con la lotta allo Stato e ai suoi progetti. Come viene costruito l’edificio sul quale si produce una richiesta di sorveglianza speciale nei confronti di un soggetto attivo nelle lotte, reati a parte, chiaramente? Un ruolo preponderante è assunto, in questi casi, dall’appartenenza ideologica, l’identità “politica” del soggetto. I valori che lo animano diventano essi stessi “indizio”, facendo in modo che la personalità criminale e la pericolosità sociale che vengono costruite si nutrano soprattutto della questione identitaria. Nei fatti, volenti o nolenti, e lungi dal voler provocare indignazione con queste parole in chicchessia, l’applicazione della sorveglianza speciale, diventa in parte anche un processo alle idee, dove ad essere sotto i riflettori è la tua appartenenza ad un gruppo di compagni\e, la tua ideologia, i tuoi valori, il tuo impossibile ravvedimento, la tua ostilità continua e dichiarata. Non il reato, ma, in toto, la vita e il modo di pensare.

Sorveglianza e ortopedia sociale

Se è evidente che il primo scopo che la sorveglianza speciale si prefigge è quello del banale allontanamento del soggetto dagli ambienti sensibili che frequenta (nel caso di chi agisce per la conflittualità sociale sono i momenti di lotta e gli spazi organizzativi), ciò che produce questo tipo di misura preventiva va chiaramente però ben al di là di questo primo risultato da raggiungere. Essendo la vita, come visto, ad essere posta al centro del discorso repressivo, ciò che è necessario è un intervento olistico del repressore che stravolga totalmente la quotidianità. Non un conteggio ponderato in relazione al reato dei giorni da passare in carcere, come visto, ma un intervento più invasivo. Uno stravolgimento vero e proprio che si serve di diversi utensili in un mix atipico di misure cautelari e semplici proibizioni che hanno lo scopo di distruggere direttamente le relazioni da un lato e le abitudini dall’altro. Trasformare il soggetto attraverso l’obbligo scriteriato di vivere onestamente o del dimostrare che si è alla ricerca di un lavoro, il divieto di frequentare ambienti di lotta, gli arresti domiciliari notturni, obblighi e divieti di dimora … ciò che si viene a creare è una vera e propria ortopedia disciplinante che mira allo stravolgimento della personalità e del corpo attraverso l’auto addomesticamento. La costante minaccia dell’imprigionamento per qualsiasi reato anche al di fuori della flagranza o per una segnalazione delle forze dell’ordine porta l’individuo sorvegliato all’auto controllo, a creare da sé limiti e imposizioni, a costruirsi intorno le famose sbarre invisibili. In questo la Sorveglianza speciale non è nient’altro che una delle tante proiezioni del carcere fuori dalle mura con la piccola differenza che ad essere sul banco degli imputati non è il singolo evento, ma tutta la vita. Integrarsi nella società, questo è ciò che impone l’istituzione. Partecipare, a testa bassa, al mondo della produzione e del consumo, imponendosi il giogo dell’affitto o la triste quotidianità del lavoro alienato. Sembrerebbe finito tutto lì, una pura accettazione della realtà, un assenso dato a ciò che per tanti è la pura normalità. Non è così, tuttavia. L’imposizione all’integrazione sociale per chi è sottoposto a tali misure porta con sé una contraddizione in termini, assai importante, che diventa un’ulteriore penalità con cui fare i conti. La sorveglianza diventa, prima di ogni cosa, stigma. Il sorvegliato è infatti marchiato, etichettato, anche concretamente perché egli non è più come gli altri, un normale cittadino, ma egli è il suo libretto rosso, il suo documento timbrato dalla questura. Ed è quello stesso documento a presentare la persona, ad essere lo strumento d’accesso al mondo del lavoro o il “biglietto da visita” del sorvegliato davanti ai proprietari di casa o nei confronti di chiunque altro, ente privato o istituzione. L’obbligo all’integrazione sociale posta dal giudice e considerata come meta da raggiungere è da affrontare sotto le spoglie di chi porta uno sfregio. Ed è qui la contraddizione: le prescrizioni del tribunale impongono la partecipazione ai dettami della società, ma alla società essenzialmente non piace e rifiuta chi porta con sé uno st igma. La vita del sorvegliato, nella ricerca di una casa, di un lavoro diventa qualcosa di altro. Si pone la necessità di mentire sulla propria situazione, quando si riesce, ma non è sempre possibile. Quale datore di lavoro accetterebbe mai un soggetto sorvegliato nella propria azienda? Quale affittuario o possibile coinquilino aprirebbe mai le porte a persone di questo tipo? È evidente che per chi non gode di legami familiari o di una forte rete solidale che garantisca un domicilio o un lavoro, l’unica strada percorribile diventa quella dello scivolamento ai margini. Presa in termini assoluti, senza cioè considerare le singole situazioni, la sorveglianza di fatto getta le basi dell’esclusione sociale, obbligando paradossalmente nello stesso momento all’integrazione. Il ruolo del sorvegliato può divenire facilmente quello del parìa metropolitano, che deve faticosamente trascinare con sé la zavorra della sorveglianza in ogni ambito a cui accede. Una nuova identità, una spinta alla marginalizzazione, una costante minaccia che grava sulle azioni quotidiane. E con questo arriviamo al punto. Nei fatti, l’effetto che la sorveglianza produce non si limita a prevenire un reato, ma consegue lo scopo della produzione del perfetto soggetto docile, continuamente ricattabile, muto, privo di energia. Il soggetto che necessariamente evita in tutti i modi le conflittualità, sottomettendosi in tutti gli ambiti della vita. Basti pensare al caso del contesto lavorativo dove le possibili proteste, le rivendicazioni, l’opposizione al datore di lavoro diventano complicate e limitate, pena, sempre, l’arresto per qualsiasi reato venga commesso. In quest’ottica la sorveglianza appare come un piccolo laboratorio sperimentale dove, grazie all’intrecciarsi di strumenti e analisi, si modella la perfetta docilità, il cittadino ideale.

Conclusioni

Quanto è utilizzata su scala nazionale tale misura? Come si evolverà nel futuro prossimo? Le risposte sono difficili da trovare, ma è necessario mettere in evidenza alcuni fatti. Nuove forme di repressione preventiva si stanno moltiplicando e il concetto di pericolosità sociale aumenta sempre più la propria applicabilità sulla popolazione marginalizzata, sui migranti e nei confronti delle esigue sacche di conflittualità. Strumenti nuovi come il Daspo urbano, i percorsi di de – radicalizzazione, oppure l’espulsione ad opera del ministero, fino al concetto di “rischio di fuga” per i migranti assumono sempre più un ruolo preponderante, così come guadagna un sempre maggiore potere decisionale il singolo organo di polizia da cui, di fatto, provengono giudizi e proposte d’applicazione delle misure stesse.

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Fonte: RoundRobin