Occasioni – Per tornare a parlare di rivoluzione, tra lotte quotidiane e spinte utopiche

L’ esiguità numerica degli ambiti di “movimento” odierni, quale che sia la loro matrice ideologica, è abbastanza evidente. Almeno in questa parte dell’emisfero – eccezion fatta forse solo per la Grecia – quest’esiguità dura ormai da qualche decennio e non si intravedono inversioni di tendenza prossime venture, anzi. La consistenza numerica delle diverse aree sembra continui ad assottigliarsi.

Alla base di questa dinamica ci sono certamente cause strutturali, proprie dei tempi che viviamo e che non riguardano solo gli ambienti antagonisti o sovversivi. La fine del collante ideologico ha messo in crisi tutte le organizzazioni di massa, partiti politici istituzionali in primis. Negli ambienti sovversivi la fine delle grandi narrazioni si è manifestata in una profonda disillusione riguardo la possibilità di lottare per provare veramente a fare la Rivoluzione. Basti pensare al tempo e all’energia dedicati, dai sovversivi di un secolo fa, a delineare i contorni del mondo di liberi e uguali per cui lottare; e allo sforzo invece pressoché nullo dedicatovi oggigiorno.

Il capitalismo, almeno a queste latitudini è bene ribadirlo, è riuscito a stendere un’ombra di irreversibilità che grava sulla nostra vita. E quest’ombra, assieme alla complessità del mondo attuale e alla scarsa conflittualità, rattrappisce pensieri, riflessioni di ampio respiro e finanche la capacità immaginativa dei compagni. Una disillusione che di certo ha un suo peso nella dinamica che porta molti, raggiunta una certa età, ad allontanarsi dai propri compagni, dalle lotte e dall’impegno fino ad allora profusovi. Se la causa principale di questo scollamento è da ricercare probabilmente nella debolezza complessiva espressa dalle lotte negli ultimi decenni e nella sensazione che le ipotesi elaborate girino un po’ a vuoto, l’inaridirsi della capacità di immaginare ciò per cui ci si sta battendo tende, nel tempo, a fiaccare ulteriormente la determinazione e la tensione con cui si lotta. Scriveva a proposito un rivoluzionario vissuto nella seconda metà dell’ ottocento: «Nessuno può voler distruggere senza avere almeno una lontana immaginazione, vera o falsa, dell’ordine delle cose che dovrà, secondo lui, succedere a quello esistente al momento presente (…). Perché l’azione distruttiva è sempre determinata, non solo nella sua essenza e nel grado della sua intensità, ma ancora nei modi, nelle prospettive e nei mezzi che essa impiega, dall’ideale positivo che costituisce la sua ispirazione prima, la sua anima».

Tornando all’oggi, per quanto anche la componente giovanile continui ad assottigliarsi, i nostri continuano comunque ad essere ambienti con una forte connotazione generazionale. Non è usuale vedere compagni appartenenti a generazioni differenti confrontarsi, ragionare ed elaborare assieme progetti. Un mancato incontro tra generazioni che porta con sé una serie di limiti e criticità di cui difficilmente si discute. Si è talmente abituati a questa mancanza da viverla come un fatto assolutamente normale, non meritevole di alcuna attenzione particolare. Ci sembra normale che molti dei compagni con cui abbiamo discusso, cospirato e lottato per anni, superata una certa età anagrafica, si allontanino. Eppure basterebbe soffermarsi a rifletterci un istante per accorgersi che non c’è niente di normale in questo ciclico sostituirsi di una generazione all’altra. Non servono certo degli storici dei movimenti rivoluzionari per spiegarci che non sempre è stato così. E del resto, senza voler scomodare la Rivoluzione, le lotte, e i problemi da cui queste nascono, sono fatti sociali, non generazionali.

Forse è il caso di partire proprio da quest’ultima affermazione, talmente banale da scivolar generalmente via senza che ci si soffermi più di tanto a rifletterci. Un’affermazione che può forse aiutarci ad andare avanti lungo il solco delle riflessioni approntate finora, e condurci un po’ più in là delle questioni da cui questo testo ha preso le mosse.

A favorire l’allontanamento di tanti compagni, man mano che gli anni passano, crediamo in buona parte contribuisca il modificarsi della vita quotidiana, con i problemi, gli impegni e gli interessi da cui si è presi. Con il passare del tempo può capitare di doversi dedicare maggiormente al lavoro, alla vita dei figli quando si sceglie o ci si trova ad averne, a problemi di salute, e in generale capita di confrontarsi con problemi, esigenze e interessi che non sono più gli stessi di quando si avevano vent’anni. Problemi, esigenze e interessi che, soprattutto, sono molto lontani da quelli affrontati abitualmente con i propri compagni.

A cambiare poi può essere anche il ritmo della propria quotidianità e la propria disponibilità di tempo, e ci si accorge che i cambiamenti nell’organizzazione della propria giornata sono difficilmente compatibili con la vita “da compagno” fatta fino ad allora. Non si riesce più a esser parte di quella vorticosa attività in cui, quando le cose vanno bene, si ragiona, si cospira e si preparano iniziative insieme ai propri compagni ventiquattr’ore su ventiquattro.

È facile così ritrovarsi, per interessi e bioritmi, sempre più lontani dalle lotte e dai compagni frequentati fino a poco tempo prima, tanto più che la percezione che quanto sta avvenendo sia in qualche modo nell’ordine delle cose, impedisce che questa dinamica venga problematizzata. Intrappolati in una sorte di vortice, alimentato tanto da chi continua l’attività in cui è impegnato quanto da chi se ne allontana, i gruppi di compagni restano quindi fortemente caratterizzati da una dimensione giovanile, cosa che li rende più facilmente impermeabili a molti dei problemi vissuti da tanti altri uomini e donne.

Una dinamica che quindi, assieme al numero di compagni, riduce anche il ventaglio di problemi con cui si è soliti confrontarsi. L’idea che di conseguenza si ha della realtà che ci circonda, dei suoi cambiamenti, delle cause della rabbia e del rancore che aleggiano nella società e di come questi sentimenti tendano a manifestarsi, risulta nel migliore dei casi molto vaga. Stiamo ormai lasciando sullo sfondo la questione da cui ha preso le mosse questo scritto, quella generazionale. ciò su cui cercheremo di concentrarci da qui in avanti sono le ragioni che ci portano molto raramente, a voler essere generosi, a riflettere tra compagni su quei problemi che riguardano immediatamente le nostre vite e quelle degli altri uomini che vivono e lavorano attorno a noi.

Riflettervi per tentare di farne occasioni di lotta.

In base a quali criteri scegliamo su cosa concentrare le nostre energie? Quali ragionamenti ci spingono a impegnarci contro specifici progetti piuttosto che contro altri? Interrogativi che non ci sembrano oziosi e che, ancora una volta, non suscitano in genere chissà quali riflessioni e discussioni tra compagni.

Di certo ci sono alcuni terreni di scontro che tendiamo a privilegiare rispetto ad altri. Il carcere, la guerra e quei progetti che minacciano di devastare ancor più l’ambiente sono sicuramente tra questi. Difficile spiegare perché, invece, altri risultino sentieri poco o per nulla battuti dagli anarchici. Perché, tanto per fare un esempio, le riforme sanitarie succedutesi negli ultimi anni non hanno in alcun modo attirato l’attenzione dei compagni?Anche senza dover necessariamente pensare di articolare una lotta contro la chiusura di un reparto ospedaliero o contro l’aumento delle spese sanitarie, come mai le ristrutturazioni in ambito sanitario non sono mai state oggetto di altre iniziative di propaganda o d’attacco? Non si tratta forse di un atto di guerra, quello di ridurre drasticamente l’accesso a diagnosi, cure e ricoveri a chi non può permettersi di pagarle, laddove il capitalismo, nel suo avanzare, tende a distruggere sempre più la possibilità di soddisfare autonomamente le esigenze che gli esseri umani hanno? E se lo scenario che abbiamo davanti, non in base alle previsioni catastrofiste di qualche rivoluzionario ma sulla scorta delle valutazioni di un po’ tutti gli analisti mainstream, è quello di schiere sempre crescenti di persone che moriranno o saranno costrette a vite sempre più stentate per l’impossibilità di curarsi, una questione come quella della Sanità non dovrebbe suscitare la stessa rabbia di altre che fanno invece parte del nostro background? Anche da un punto di vista strettamente economico poi, la Sanità non è certo un settore di secondo piano per il capitalismo.

Alla base del nostro disinteresse non vi sono quindi ragioni etiche o valutazioni sulla scarsa importanza strategica del settore sanitario. Una delle ragioni, allora, va forse ricercata nel ritenere a noi più congeniali le lotte che si oppongono alla realizzazione di un determinato progetto. Impedire la realizzazione di una ferrovia ad alta velocità, di un gasdotto o di una base militare riteniamo possa essere meno contraddittorio e più radicale. Lottare per un No chiaro e secco ci metterebbe al riparo da eventuali concessioni o interlocuzioni con la controparte. E del resto, impedire che un’ulteriore nocività faccia capolino in questo mondo, andrebbe nella direzione, per quanto breve sia il passo, di quel progetto di distruzione del capitalismo che auspichiamo. Di contro, lottare contro la chiusura di un reparto ospedaliero, piuttosto che contro le politiche dell’edilizia residenziale pubblica, equivarrebbe a battersi per la sopravvivenza di servizi erogati dallo Stato, e alla fine, quale che sia l’esito del conflitto, non potrebbe che rafforzarne la presenza e il controllo sulle nostre esistenze.

Una valutazione non molto convincente. Proviamo a partire da un altro presupposto. Riuscire oggi ad invertire, lottando, la tendenza di politiche statali volte a peggiorare le condizioni di vita di molti, rafforzerebbe principalmente la determinazione e il coraggio di chi si è battuto e probabilmente anche di chi ha vissuto questa lotta in posizione più defilata. E sono le esperienze conflittuali, quale che sia l’oggetto del contendere, che possono portar via la sensazione d’impotenza così diffusa, e con essa il senso di ineluttabilità riguardo i problemi delle nostre vite. Sono le esperienze conflittuali che possono rompere il feroce isolamento sociale che caratterizza oggigiorno la vita di gran parte degli sfruttati.

Il capitalismo si regge, anche, come forza promotrice di determinati rapporti sociali. La solidarietà, oggi giorno, più che un punto di partenza da cui possono svilupparsi dei conflitti è piuttosto la conseguenza di eventuali percorsi di lotta. Non è un a priori già dato da cui partire, ma uno dei diversi obiettivi che delle lotte dovrebbero perseguire. Un obiettivo, quello della costruzione di rapporti solidali, sine qua non è possibile pensare di fare grandi passi in avanti sul terreno dello scontro con le autorità. E la solidarietà molto difficilmente può essere costruita attraverso una discussione, attraverso uno scambio di sole parole, per quanto precise e ben dette.

Si possono condividere centinaia di parole e continuare a sentirsi soli. È la condivisione di un’ esperienza che può rompere questo sentimento di solitudine, quest’atomizzazione grazie a cui i padroni dormono sonni sereni. Il condividere un’esperienza conflittuale, per quanto piccola, è la condizione necessaria per rompere i rapporti sociali prodotti dal capitalismo e consentire di riconoscere i nemici e riconoscersi tra potenziali compagni di lotta. Non ci sembra, dunque, che un’inversione di tendenza riguardo le politiche di lacrime e sangue perseguite di questi tempi dallo Stato, rischi di rafforzarne la presenza e il controllo, specie in un periodo storico come questo poi, in cui la disponibilità delle autorità a stemperare i conflitti attraverso concessioni è ai minimi storici.

Oggi per provare ad ottenere dei cambiamenti significativi lottando, bisognerebbe mettere in campo una notevole forza, e una profonda rottura della normalità si produrrebbe quindi nelle vite di molti. Sarebbe questo il risultato più prezioso del conflitto. col crescere e diffondersi del sentimento che padroni e governanti sono nemici, e che tutto ciò che cedono è strappato dalla forza o dalla paura della forza, si riduce il rischio che una parziale vittoria si trasformi in un frutto avvelenato, donato dallo Stato per diffondere i semi della servitù, e si rafforza invece la possibilità che ciò che si ottiene, piuttosto, stimoli ulteriori desideri e pretese in chi si è battuto.

Al centro c’è quindi la lotta. L’esperienza conflittuale che può svilupparsi a partire da un determinato problema è ciò su cui dobbiamo concentrare l’attenzione. Ed è proprio la possibilità di dar vita o meno a queste esperienze, il criterio, se proprio dev’essercene uno, attraverso cui scegliere su cosa concentrare le nostre energie.

I nostri sforzi dovrebbero essere quindi rivolti a come questo conflitto dovrebbe svilupparsi. Come favorire l’autorganizzazione di chi lotta: l ’orizzontalità all’interno delle strutture organizzative e l’autonomia di singoli o gruppi al di fuori di queste. Come favorire l’emergere di pratiche conflittuali e d’iniziative d’attacco anche in base alle diverse necessità che la lotta e la strategia adottata dalla controparte impongono. Come far sì, infine, che si amplii ciò per cui ci si batte. A partire dalla considerazione che, senza quella rottura della normalità che può produrre una lotta non c’è molto spazio per la propaganda, perché la normalità, come una patina, rende le vite in buona parte impermeabili ai discorsi e agli appelli, specie a quelli rivoluzionari; d’altronde la sola esperienza vissuta rischia di restare schiacciata sui singoli problemi contro cui ci si batte, e i nostri sforzi dovrebbero tendere, nel mentre del conflitto, anche ad alimentarlo con una forte tensione utopica.

Il problema dell’utopia, che fa la sua comparsa più volte in questo testo, meriterebbe certamente riflessioni più approfondite e precise di quanto sia possibile fare ora. ci limitiamo qui ad aprire una breve parentesi a riguardo, seguendo il filo dei ragionamenti approntati finora. Il capitalismo, nel suo avanzare, costruisce un mondo che distrugge sempre più la possibilità di soddisfare autonomamente i propri bisogni, – con buona pace del progressismo marxista secondo cui lo sviluppo capitalista portava con sé le condizioni necessarie al suo superamento –. Un processo di distruzione che sembra stia superando sotto molti punti di vista la soglia di non ritorno e che soffoca quindi la capacità anche soltanto d’immaginare come vivere sulle ceneri di quest’ordine sociale. Viene così a mancare «quell’ideale positivo», di cui parlava il rivoluzionario dell’ottocento, capace di alimentare la tensione e di rinnovare costantemente le energie, anche quando le lotte stentano a prendere corpo e girano un po’ a vuoto. oggigiorno, almeno a queste latitudini, la carica utopica sembra piuttosto manifestarsi in quell’insopprimibile esigenza di una vita altra che, sotto molteplici vesti, non cessa comunque di affiorare. Laddove il termine altra si definisce però per lo più in maniera negativa, sulla base di ciò che non si vuole, della vita che non si è più disposti a condurre. Detto altrimenti, la distruzione dell’autonomia operata dal capitalismo rappresenta un problema enorme per delle ipotesi rivoluzionarie, visto che non c’è libertà senza autonomia ma, al contempo, non è possibile vivere senza soddisfare una serie di esigenze. Un’impossibilità di cui le lotte dovrebbero tenere conto, evitando di operare una separazione netta tra la sfera delle necessità e quella della libertà, sia sul piano esplicitamente discorsivo sia riguardo al discorso che emerge invece da ciò che si fa.

Tornando alle lotte, possiamo dire che la nostra intenzione è quella di eliminare le cause dei problemi prodotti dal capitalismo che angustiano noi e gran parte degli uomini e delle donne ammassati in questo pianeta, e pensiamo che uno dei modi migliori per farlo sia quello di lottare contro problemi specifici e circoscritti, prestando una grossa attenzione a come farlo. È questo come che può far la differenza tra ipotesi riformiste e rivoluzionarie. Le prime si limitano a voler far fronte a questioni specifiche e impostano il da farsi in vista esclusivamente di queste, le altre ritengono invece che la lotta contro un singolo problema, affrontata in un certo modo, possa consentire di far fronte a questo e alle cause che l’hanno generato. Se ciò che maggiormente dovrebbe interessarci in una lotta sono le modalità con cui questa può svilupparsi e ciò che può produrre al di là dell’oggetto del contendere, dovremmo forse fare uno sforzo per guardarci attorno, ed essere pronti a cogliere le tante potenziali occasioni di conflitto che la quotidianità ci offre. Se ad esempio, il già citato reparto ospedaliero venisse chiuso a pochi passi da dove viviamo, quale sarebbe la nostra reazione rispetto al fatto di dover fare magari diversi chilometri per sottoporci a una visita o a delle cure? Probabilmente la notizia ci creerebbe fastidio e rabbia, ma ben difficilmente tenteremo di ragionarvi, passateci l’espressione, da anarchici. Una dinamica abbastanza particolare, segno di quanto possa essere profonda, in certi casi, la separazione tra la nostra vita quotidiana, con i suoi problemi e con i comportamenti e le soluzioni che adottiamo per farvi fronte, e la sfera, passateci ancora una volta il termine, militante.

Tralasciando il mondo della Sanità e allargando lo sguardo, quante volte abbiamo partecipato a una lotta o compiuto un’azione a partire da un nostro problema immediato, per quanto banale o minuto ci possa essere sembrato? E quante volte, pur non facendolo, abbiamo almeno preso seriamente in considerazione quest’ipotesi? Il ventaglio di esempi potrebbe essere molto ampio, dai problemi abitativi e di utenze a quelli lavorativi, fino ad arrivare ai grandi o piccoli cambiamenti urbanistici dei quartieri dove abitiamo, al problema dei trasporti o anche solo all’aumento della mensa dell’asilo dove vanno i nostri figli.

È come se ritenessimo, da un lato, che le lotte non servano a risolvere i problemi che vivere in una società capitalista comporta, e dall’altro, che l’anarchismo sia inconciliabile con tutta una serie di problematiche, incapace o disinteressato a fornire indicazioni e proposte di metodo valide. Ma come valutare la bontà delle proprie ipotesi senza calarle nella realtà e nei problemi che coinvolgono gran parte degli uomini e delle donne che ci vivono attorno? L’anarchismo non dovrebbe forse avere la pretesa di stimolare altri sfruttati a insorgere contro l’ordine costituito? E in quale altro modo riteniamo sia possibile comprendere realmente i limiti e le potenzialità delle nostre proposte, se non confrontandole con le tensioni che attraversano le città in cui viviamo? Senza questi tentativi, la tensione che ci anima rischia di produrre poco più che delle dichiarazioni d’alterità, delle ipotesi che, forse, possono risultare valide solo nel vitro dei nostri circoli. Senza esperienze reali su cui ragionare, non solo non avremmo risposte ai tanti dilemmi che tormentano, o almeno dovrebbero, i rivoluzionari, ma ben difficilmente riusciremo a comprendere quali domande dovrebbero assillarci. E la scarsa capacità che abbiamo di andare a fondo nei ragionamenti critici su ciò che facciamo, la circolarità che ci sembra caratterizzi molte delle nostre riflessioni, non dipende forse in buona parte dalla mancanza di appigli reali in grado di rendere meno fumosi i nostri pensieri? Se siamo soliti ripetere che tra pensiero ed azione debba esserci una stretta corrispondenza, è perché riteniamo che dovremmo almeno tentare di fare ciò che pensiamo e diciamo, ma anche perché, di converso, la chiarezza e bontà dei nostri pensieri dipende da ciò che facciamo. Non può che esserci una stretta relazione tra la nostra capacità di elaborazione contribuisce a determinare. Senza quell’esperienza che si accumula solo nel corso di lotte e conflitti reali, è molto difficile pensare anche solo di riuscire a problematizzare in maniera puntuale le nostre scelte. In mancanza di queste esperienze si rischia di rimanere intrappolati in una dinamica in cui il pensiero e l’azione possono diventare il morso e la coda del celebre cane che gira in tondo.

Certamente non tutto ciò che ci capita può offrire le stesse possibilità di conflitto, sia riguardo il livello di scontro, sia rispetto al tipo di intervento che si può ipotizzare. In base a una serie di fattori, tanto esterni quanto interni al gruppo o ai singoli compagni, per contrastare il distacco dell’acqua in un condominio si può pensare di promuovere una lotta insieme a chi condivide e ha a cuore il problema oppure di agire autonomamente, andando a colpire i responsabili dei distacchi, ritenendo sia questo il contributo migliore per stimolare altri individui. o ancora tentar di tenere assieme le due modalità. Il punto è sforzarsi di riprendere a guardare la realtà come una fonte di occasioni di conflitto, da intraprendere in tanti, in pochi o da soli, di giorno o di notte, a seconda delle valutazioni e inclinazioni individuai e collettive. E in ogni caso tentando di affrontare in maniera combattiva i problemi di tutti i giorni, anche quelli più minuti, difficilmente avremmo perso tempo. Anche quando non riusciranno a svilupparsi chissà quali lotte o momenti di scontro, quei piccoli tentativi ci avranno aiutato a comprendere un po’ meglio le tante sfaccettature della realtà che altrimenti sarebbero rimaste nascoste e a conoscere o stringere relazioni con altri uomini e donne a partire da un ipotesi conflittuale. Relazioni che ci aiutano a capire chi abbiamo intorno e permettono al contempo agli altri di capire un po’ più precisamente chi siamo noi. Un aspetto tutt’altro che secondario, specialmente in un arco temporale abbastanza lungo.

E il tempo è un elemento rilevante nell’elaborazione di una progettualità rivoluzionaria. Un elemento che, per tornare velocemente alla questione iniziale, ha certamente un suo peso anche sul carattere generazionale dei nostri ambiti di movimento. Come tutti gli uomini e le donne che abitano questo pianeta, anche gli anarchici sono animali storici, profondamente condizionati dai caratteri dell’epoca in cui vivono. E di questi tempi le esperienze sono un particolare tipo di merce da consumare con altrettanta voracità delle altre, per poi abbandonarle e sostituirle quando si dimostrano diverse da come la nostra immaginazione le aveva idealizzate e cominciano quindi ad annoiarci. E forse i tanti percorsi, tentativi di lotta o progetti editoriali che hanno vita breve o muoiono praticamente sul nascere, sono in parte spiegabili anche da questa frenesia da consumatori che caratterizza molto spesso il nostro agire. Di contro, non sono molte le esperienze dotate di quel respiro in grado di garantire una certa continuità a ciò che facciamo, così che i primi moti di scoramento e le prime difficoltà, destinate inevitabilmente a presentarsi, non mettano fine ai nostri tentativi. Una mancanza di continuità che rende molto difficile anche solo il ragionare su errori, limiti e potenzialità inespresse degli stessi, in un circolo vizioso in cui le mancanze pratiche e teoriche si alimentano reciprocamente impedendo di fare passi in avanti. Il fiato corto dei nostri percorsi rende poi più difficoltoso anche il riavvicinarsi di quei compagni che i casi della vita hanno portato ad allontanarsi per un certo periodo, e che magari a un certo momento potrebbero tornare a dare il loro contributo, ma non trovano più un contesto con cui relazionarsi.

Una cornice entro cui immaginare il proprio agire potrebbe essere quella di un gruppo di compagni che tenta di essere una presenza viva in un determinato contesto, promuovendo lotte e iniziative in base alle proprie analisi e tentando al contempo di affrontare in maniera conflittuale i tanti problemi che la realtà propone, e si sforza di esserlo per un periodo di tempo abbastanza prolungato, al di là della durata dei singoli percorsi e al di là dei momenti di scoramento e di bassa in cui tante volte inevitabilmente si incapperà.

Se pensiamo a una sollevazione che abbia oggigiorno carattere insurrezionale, che abbia cioè un certo livello di organizzazione e produca una rottura della normalità di una certa rilevanza a livello spaziale e temporale, riteniamo che difficilmente questa possa essere il frutto di un singolo percorso di lotta, per quanto ampio e conflittuale riesca a diventare. ci sembra piuttosto che la si possa immaginare come il non lineare succedersi e intrecciarsi di diversi percorsi di lotta, azioni e momenti conflittuali. Alcuni magari capaci di raggiungere una certa forza ed estensione, altri che non riescono invece a superare le prime avversità, tutti però potenzialmente in grado di sedimentarsi, di lasciare qualcosa che continua a covare, al di là della percezione immediata che possiamo averne.

Ed è l’affastellarsi nel tempo di comportamenti, esperienze e relazioni che permette a tanti di vedersi, e vedere la realtà che ci circonda in un certo modo, stimolando la disponibilità a battersi: chi in prima fila davanti alle truppe statali, chi partecipandovi più da lontano, magari soltanto aprendo i portoni a chi ha bisogno di un rifugio.

Riavvolgiamo ora il filo del discorso per ritornare alla questione da cui ha preso le mosse questo testo. Lo sforzo di rompere quella separazione tra vita quotidiana e sfera “militante” cui abbiamo accennato, favorirebbe certamente la possibilità che un certo gruppo di compagni riesca a promuovere, o comunque esser parte, di un ampio ventaglio di situazioni conflittuali che si sviluppano in un determinato territorio. Tentar di affrontare con un certo piglio i tanti problemi della vita, che in alcuni casi finiscono per toglier tempo ed energia ai compagni e per allontanarli dalle lotte, potrebbe quindi moltiplicare le occasioni di lotta e al contempo favorire quell’incontro tra le diverse generazioni che oggi manca.

Nel riuscire a mettere in moto una simile dinamica, emergerebbero sicuramente un buon numero di criticità, e punti di forza, che oggi non siamo in grado di immaginare. A venir modificati sarebbero sicuramente i tempi e gli spazi di incontro e organizzazione che i compagni hanno. Non è infatti pensabile, e neanche auspicabile, che una lotta contro l’aumento di una mensa scolastica, contro il distacco dell’acqua di alcune palazzine o per il miglioramento delle condizioni lavorative dei riders di un’azienda di food delivery, sia seguita con costanza da un intero gruppo di compagni. E un aspetto interessante e ricco di insidie è proprio il come, nel tempo, possano relazionarsi i compagni impegnati in una singola lotta perché direttamente coinvoltivi, e il resto del gruppo di cui i primi fanno parte o con cui hanno rapporti. Sarà ad esempio importante imparare a capire come, da un lato evitare che “gli esterni” si sentano solo manovalanza e favorire anzi il loro contributo pratico e analitico, – data la maggior lucidità che alle volte può avere uno sguardo esterno, – e dall’altro riuscire a calibrare la loro presenza e iniziativa in maniera tale che non soffochino i faticosi percorsi d’autorganizzazione dei diretti interessati. I compagni direttamente coinvolti nella lotta, perché genitori di chi va all’asilo, abitanti morosi del condominio o fattorini in bicicletta di Foodora, si troveranno invece nella possibilità di comprendere un po’ più a fondo le scelte di chi inizia un percorso a partire da problemi specifici e non per ragioni etiche o ideologiche. Quali timori di perdere tutto o peggiorare la propria situazione possono emergere nel corso di una lotta, consigliando prudenza e un passo indietro, e quali sentimenti possono invece spingere a comportamenti particolarmente audaci, capaci di sorprendere tanto la controparte che gli stessi rivoluzionari. Un modo insomma per guardare più da vicino, senza quelle lenti ideologiche che spesso deformano ciò che si osserva, aumentandone talvolta i pregi talaltre i limiti, che tipo di essere umano il capitalismo sta tentando di plasmare, e quali modalità di resistenza a questo processo una lotta può mettere in moto.

Se spesso si ripete che quando scoppia una rivolta gli ultimi ad accorgersene sono proprio i rivoluzionari, non sarà forse perché i compagni, con le loro proposte, i loro progetti e i loro sogni sono un corpo sempre più separato dal resto degli uomini e delle donne? E il mancato incontro tra le generazioni, il carattere giovanile e alternativo dei nostri spazi, non sono forse uno dei tanti riflessi di questo stato di cose? Affrontare, o per lo meno tentare di farlo, i problemi che assillano le vite di tanti e in primo le nostre, quei problemi che dai più minuti ai più gravi rendono questo mondo una merda, affrontarli tentando di farne occasioni di conflitto vuol dire tentar di rompere questa separazione.

Una sorta di ginnastica rivoluzionaria in grado, se non altro, di aiutarci a comprendere cosa bolle in pentola. o, per esser più precisi, in grado di farci percepire il palpito che ha l’acqua prima che inizi a bollire.

Torino, Novembre 2018

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Fonte: Macerie