Modena: Domenica 14 Novembre – Vermi Inermi

“VERMI INERMI” – Drammetto grottesco orecchiabile

 Domenica 14 novembre ore 21 – LA SCINTILLA, Strada Attiraglio 66, 41122 Modena

– Dalle 17.00 Dibattito Aperto con Stefano Boni (amico, compagno, docente di antropologia all’università di Modena) riguardo governance d’eccezione e paradigmi tecno-scientifici: La pandemia catalizzatore di rinnovati modelli discriminatori e repressivi.

– Alle 19.00 OSTERIA VEGANA, (a)pericena con ortaggi di stagione.

– Ore 21.00 “VERMI INERMI”. Drammetto grottesco orecchiabile di e con Cinzia e Simone dalla compagine irriducibile del Prinz Eugen (storica compagine torinese).

Per un teatro Semplice, per un teatro Clandestino, per un teatro Necessario

Recensione Andrew

Caro Simone, accolgo il gentile invito a scrivere qualcosa sul “drammetto grottesco orecchiabile” Vermi Inermi, tentando un esperimento. Come ben sai, ho assistito allo spettacolo che hai messo in scena con Cinzia Laganà in qualità di attrice e il contributo artistico-scenografico di Claudio Fade Fadda, due sole volte: una prova aperta qualche settimana prima del debutto e una replica all’interno di uno storico centro sociale autogestito di Torino. Non ho avuto l’opportunità di rivederlo per scrivere queste righe e quindi proverò a farne un “ritratto a memoria”. Lo racconterò accostando i frammenti o, in linea con il linguaggio pittorico, i particolari (ciascuno degli elementi minuti, dei dettagli che costituiscono l’insieme di un fatto, di un’opera, di un oggetto), che si sono imposti a distanza di tempo – un paio di mesi, circa – anche a costo, ed è bene, per onestà, sottolinearlo, anche a costo di falsificarne in assoluta buona fede la verosimiglianza, o l’esattezza descrittiva, accettando quindi il rischio, implicito in un esperimento del genere, di raccontare e descrivere un altro spettacolo, quello rielaborato appunto dalla nostra percezione e memoria selettiva e creativa.

Cercherò insomma di ricostruirne il senso a partire da quello che ho trattenuto, custodito, ma anche, inevitabilmente, rimaneggiato, rielaborato e, assai probabilmente, temo, travisato. Proprio come nel “ritratto a memoria”: l’artista ha visto e conosce il soggetto ma non l’ha davanti a sé al momento di ritrarlo, e tenta, sulla base delle informazioni in suo possesso e della sua sensibilità, di ricrearlo, sia nella fisionomia sia nel carattere, secondo il concetto che si è formato circa quella personalità determinata. Si affida alla memoria per ritrarre la persona che non ha davanti a sé, a casa, nel proprio studiolo, ma deve far rivivere attraverso la rielaborazione dell’effetto, se così posso esprimermi, che quella persona ha esercitato su di lui. Da un lato, il ritratto potrebbe anche risultare non somigliante, o non somigliante in tutto al soggetto da ritrarre, ma d’altro canto, dentro una speranza che custodisce sempre in sé qualcosa anche di vagamente mesmerico, esoterico, potrebbe persino rischiare di mettere in luce l’essenza, o la verità, del soggetto ritratto, ancor più, forse, che se fosse in tutto e per tutto somigliante al modello.

Suppongo che l’esperimento, comunque vada, date le premesse potrà risultare più utile a te, come prova della ricezione di un tuo, un vostro lavoro, su uno spettatore tendenzialmente attento, che non  come presentazione o lettura interpretativa, cosa che spetterebbe a uno studioso, a un critico di professione…

Lo spazio – particolare numero uno – è un luogo di condivisione, una stanza in bianco e nero, arredata con dei quadri antinaturalistici, delle immagini che riproducono, mi par di ricordare, volti o sezioni anatomiche attraverso l’accostamento, e talvolta la sovrapposizione, di linee e forme geometriche. La condivisione pone spettatori e attori – un’attrice, in particolare – sullo stesso piano, riguardo sia la disposizione all’interno dello spazio sia nel significato che a quello spazio viene attribuito. È una sorta di aula di studio, un laboratorio di qualche facoltà medico-scientifica, al cui interno si tengono lezioni dedicate alla sezione anatomica di un determinato caso clinico. Ma potrebbe anche trattarsi allo stesso tempo, o meglio, in tempi e situazioni diverse suggeriti dalla scansione del racconto, della sala d’attesa di uno studio medico ove chi osserva viene a sua volta osservato, auscultato, analizzato, diventa, a seconda dei punti di vista, poiché anche sul piano della narrazione proprio il punto di vista è in continuo mutamento – diventa osservatore e osservato, soggetto e oggetto dell’analisi in essere. È ancora lo spazio a definire non solo i ruoli fra chi agisce e osserva, ma anche i tempi e i modi, a scandire i momenti in cui siamo tenuti a svolgere la nostra tradizionale, codificata funzione di spettatori e destinatari del discorso critico su un futuro distopico che nella messa in scena viene posto come già molto vicino, presente – “un mondo”, leggiamo nelle note, “fatto di tele-medicina, Dad, telelavoro, e-commerce, tele-polizia, conferenze immateriali, vaccini, modificazioni genetiche degli umani e distanziamento” – e i momenti in cui la vicinanza e il dialogo con chi agisce sulla scena si fa diretto, privo di mediazioni, nella provocatoria infrazione non solo della elementare regola che impone una parete invisibile fra chi osserva e chi agisce, ma nell’osare una vicinanza fisica, prossemica, umana, in una fase del disastro pandemico prossima e tuttavia non ancora vincolata alle rassicurazioni formali scaturite da un certificato di sana e robusta vaccinazione.

Veniamo alle presenze sceniche – particolare numero due. Ho pensato di chiamare così gli attori,  ovvero Cinzia, presente dall’inizio alla fine, e tu, Simone, che compari e scompari, se ben ricordo, in due punti, all’inizio e sul finale –  una specie di traghettatore in quest’inferno che, sembra vogliate avvertirci, stiamo costruendo con le nostre mani. Troviamo anche qui quest’alternanza continua di ruoli, intesi non solo in senso tradizionale come “personaggi” ma anche, daccapo, come punti di vista. La forte e intensa, tridimensionale presenza di Cinzia Laganà ci consente di vedere agire in scena i due volti conflittuali di questa vicenda, l’imputato e la vittima, giacché ci troviamo in una sorta di processo o j’accuse rivolto alla spersonalizzazione di massa che caratterizza l’universo horror qui rappresentato, all’interno del quale la medicalizzazione forzata dell’individuo ci consente di vedere in azione i tecnocrati e burocrati della sanità mediatica, con i loro paramenti (la veste bianca dell’infermiera o della brava crocerossina, i tailleur minimali e rassicuranti della buona, e còlta borghesia illuminata), il loro lessico specialistico e nichilista da rotocalco pomeridiano, perfino il buon vecchio latinorum… Ma vediamo anche, come dall’altra parte dello specchio o spostandoci solo con il pensiero in un altro punto, in un’altra prospettiva di questa stanza che è forse anche la nostra mente o la nostra (cattiva?) coscienza, vediamo anche la vittima, o quello che si vuole la vittima, il “malato disciplinato”, disteso nel letto del reparto-prigione, oggetto non solo degli interessi speculativi (nella doppia possibile accezione) delle autorità mediche ma anche, all’interno della messa in scena, di una bizzarra e drammaticamente esilarante filastrocca in rima baciata sull’aria della “Danza delle ore”. Col nitore proprio del linguaggio fanciullesco, ma in quanto tale più efficace e incisivo di qualsiasi proclama, esprime tutto il senso ultimo, definitivo, del discorso o dell’analisi, o ancora, meglio, della sentenza – una “Vispa Teresa” affacciata sul baratro della contemporaneità che ha già fatto fuori la speranza senza tanti saluti o cerimonie: “Ad essere sani non c’è alcuna convenienza, ce lo dice la scienza”. Il “sugo”, lor signori, è questo.

Due parole ancora sul particolare numero tre – l’allestimento sonoro. I particolari da descrivere sarebbero molti di più, ma lo spazio a mia disposizione è, per auto imposizione, digià terminato. Il presente ritratto a memoria infatti non può e non deve superare in lunghezza “Guerra e pace”. Segnalerò dunque, in via assai breve, come ancora una volta ho riconosciuto e apprezzato la tua capacità di usare la musica in senso drammaturgico, una tessitura complessa che dialoga con il testo e ne rafforza e amplifica il significato senza mai – vade retro! – spiegarlo. Ricordo in particolare una No Surprises dei cari vecchi Radiohead a incorniciare l’abbraccio tenero e allo stesso tempo disperato fra un uomo e una donna – due sopravvissuti o candidati all’estinzione. Un abbraccio proibito – se non l’ho sognato o forse desiderato vederlo, ma credo proprio ci fosse un abbraccio mentre andava quella struggente canzone dei nostri anni giovani – un gesto di trasgressione che è forse, a mio avviso, l’atto più sovversivo e romanticamente titanico di questa rappresentazione grottesca e “da incubo” di un universo alla deriva osservato con la lente d’ingrandimento d’un lucido mad doctor che, ingigantendo un po’ tutto, finisce anche col deformarla, a lungo andare, la realtà.  Tanto che i  vermi, in definitiva, sembreranno anche inermi, come vuole il titolo (richiamo, in assonanza, al primo bellissimo album solista di Marc Almond) ma per un irriducibile appassionato non tanto degli happy end (a quest’età, andiamo…), semmai dei finali aperti, eventualmente sì, anche al peggio, come il tuo amico Andrew, la speranza mai del tutto abbandonata sull’orlo di quel precipizio distopico che qui si celebra è che, tolta via la lente e restituita all’occhio umano la dignità dell’approssimazione, quei vermi inermi possano tornare a essere osservati, un bel giorno, per quel che onestamente sono e continueranno, finché c’è vita, a essere: umani.

(Dimmi poi quante cose ho sbagliato e travisato e abbi fede, pazienza e carità per questo scritto sconclusionato e frammentario.  Il quale ha voluto mostrarsi così, praticamente in pigiama e con la barba in disordine, ancora da fare, in quanto non amerebbe esser confuso con una recensione, ché di brave persone al mondo ce ne sono anche  troppe…).

Tuo Andrew

 

Recensione Ingrid

Vermi Inermi!

Ouverture di un Atto unico: In principio fu il dissenso

 “Se il teatro come i sogni è sanguinario e inumano, […] lo è per manifestare ed imprimere indelebilmente in noi l’idea di un perpetuo conflitto e di uno spasimo in cui la vita viene troncata a ogni minuto, in cui ogni elemento della creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione di esseri definiti.”

A.Artaud

Un corpo, divenuto messaggio, si muove nello spazio ristretto di un semicerchio; Non c’è palco, non c’è distanza, le voci dei presenti tacciono e i loro sguardi cadono su pannelli che raffigurano organi e membra dissezionate. Poche luci, ben scelte, creano giochi di ombre degni di nota. E’ l’inizio di una narrazione, quella in cui il teatro traduce il reale e rovescia il tavolo da gioco del dover essere. Gli schemi si frantumano, saltano i canoni, le regole, i dogmi. Lo spettacolo di Cinzia e Simone ripiega i concetti e li riformula in critica; come artigiani della parola e del movimento, i protagonisti ci raccontano un’assenza, quella della verità assoluta, tanto cara ai paladini dell’ordine costituito. Nella rappresentazione di Vermi Inermi, balza all’occhio subito la celebrazione della crisi, una crisi necessaria, che taglia e spezza l’ordinaria indifferenza di cui siamo portatori sani. La voce di Cinzia, nella sua magistrale  recitazione, pare invitare i presenti a smettere di essere semplicemente pubblico, non solo a teatro, ma nella vita intera. Ci consiglia, con la sua presenza gravida di domande, di uscire dalla passività del quieto vivere, di liberarci dall’accettazione, senza riserve, di un racconto scadente. Non è da tutti riuscire a mettere a nudo gli errori di valutazione e le contraddizioni che alimentano questo sistema ma Simone e Cinzia ci riescono perfettamente, conservando quell’ironia necessaria a preparare l’azione politica. Il teatro adesso è altrove: in questa stanza, attraversata da musica e copione, restiamo Noi. Noi divenuti ormai lotta e crisi.

Cinquantaquattro minuti di spettacolo in cui i corpi parlano dell’esistenza di un Storia altra e le parole smettono di essere solo retorica per trasformarsi in picconi, pronti a demolire i muri di certezze in cui affondiamo la nostra quotidianità. Vi piace la comodità delle smart city? Vi piace credere di essere accuditi e coccolati dallo stato che prima vi ammala e poi vi cura male? Vi piace elemosinare il pane e barattare la vostra dignità per guadagnare una morte lenta? Vi piace il mondo che luccica e stordisce, fatto di schermi e reti virtuli, in cui non puoi nemmeno scegliere come crepare? Vi piace la dittatura del pensiero e la narcotizzazione digitale? Inermi, lo siamo davvero e vermi pure, visto che strisciamo compatti ai piedi di quel grande libro scritto male che è il Potere. Noi , adesso,abbiamo bisogno di strappare l’ago della flebo di anestetico che ci hanno infilato nel braccio fin da bambini, Noi abbiamo bisogno di bellezza, drammatica, ironica, grottesca a tratti, come quella che Vermi Inermi ci dona.

Partecipare a questo spettacolo ci da la possibilità di non essere solo “degli invitati” ma di diventare complici a tutti gli effetti di un ‘atto che crea dissenso. I ruoli, in Vermi Inermi, si annullano, le carte si mischiano e possiamo dire di essere diventati noi stessi Teatro. Simone, Cinzia, il pubblico, le musiche, la scenografia e tutti gli elementi che compongono il corpo in azione dell’opera si confondono e ci confondono, aprono varchi, insinuano dubbi e ci lasciano soli ad affrontare la crisi ma armati a sufficienza per tenere testa anche allo smarrimento più profondo.

Conclusione: Raccogliere macerie o dell’incertezza come esplosione di vita. Ci vuole coraggio ad ammettere che ci siamo fatti fregare da chi ci dovrebbe proteggere ma ce ne vuole ancora di più a smettere di aspettare che qualcuno o qualcosa ci protegga.Il salto, il buio, l’abisso come sottotraccia che squarcia il mondo calcolato e calcolabile che vorrebbero creare è ciò che ho visto rappresentato in Vermi Inermi. Questo breve spettacolo lascia un segno enorme e risveglia grottescamente il pericoloso desiderio di essere qualcosa di più che cavie da laboratorio o stupidi numeri da scannare e scannerizzare. La paura,ci dice questo drammetto pazzesco, non può e non deve uscire dallo stretto perimetro dell’emozione individuale. Non può e non deve diventare legge, come è accaduto oggi, altrimenti si rischia di essere risucchiati in un sonno senza fine. Ricacciamo il terrore nella gabbia degli istinti e riprendiamoci la gioia dell’incertezza, quale migliore espressione della cifra umana.

Ingrid