Liberazione animale e anarchia

Articolo tratto da Fenrir, pubblicazione anarchica ecologista, numero 4

Accennare all’importanza della lotta per la liberazione animale, nell’ottica di una prospettiva rivoluzionaria di liberazione totale, viene talvolta considerato da alcuni/e anarchiche/i un’ingerenza non richiesta nell’etica di ognunx, una questione di scelte o gusti “personali”, qualcosa di non politico, quasi la questione fosse riducibile a un fattore di preferenze culinarie, paragonabile alla scelta della squadra di calcio preferita. Si fa appello allora alla libertà di determinare la propria vita, di essere liberx da autorità e ingerenze esterne, o “morali” di alcun tipo.

Per quanto ci riguarda, la lotta per la liberazione animale è la logica conseguenza della nostra repulsione verso ogni forma di dominazione e sfruttamento. Il veganesimo non è altro che il tentativo di non rendersi complici, per quanto possibile, dello sfruttamento animale portato avanti sistematicamente dalla nostra civiltà. Un tentativo, appunto, più che una certezza, dal momento che nella società in cui viviamo i prodotti derivanti dal dominio sugli animali sono presenti ovunque intorno a noi e nelle nostre vite, ed è illusorio pensare di poterli evitare completamente. Il fatto che una coerenza totale con le nostre idee non sia possibile in un mondo che ha le sue basi nello sfruttamento e nel dominio e che non lascia spazi di respiro, non significa che non sia giusto andare il più possibile in quella direzione. Evitare i prodotti derivanti dallo sfruttamento animale, così come cercare di limitare il più possibile il proprio impatto sul pianeta recuperando gli eccessi/scarti del sistema o coltivandosi le proprie verdure (rubare nei supermercati non è la stessa cosa, pur essendo apprezzabile, in quanto continua comunque a far girare l’economia e fa soltanto perdere pochi euro al supermercato) significa soltanto applicare alla quotidianità della propria vita la propria lotta contro il capitalismo ed il dominio in generale. Moltx compagnx preferiscono invece sostenere l’inutilità del boicottaggio (chi ha mai parlato di boicottaggio e di efficacia, infatti?) ingurgitando CocaCola, arrostendo capretti o mangiando al fastfood, nella più totale indifferenza rispetto alle proprie scelte personali; per loro la coerenza è troppo “politicallycorrect”, e ritenendo il veganesimo o il recupero del cibo una “moda”, anziché delle scelte politiche, pensano sia più anticonformista cibarsi dei prodotti spazzatura delle multinazionali, sfondarsi di prodotti chimici e industriali o vantarsi di mangiare carne, rientrando così esattamente in quel modello dominante che da un altro lato sostengono di criticare e combattere.

Non abbiamo alcuna volontà di sovradeterminare o porre dictat morali sulla vita di altrx compagnx, ogni persona è libera di agire come meglio crede, dal momento che le nostre scelte sono prima di tutto una presa di posizione politica che facciamo per noi stessx, in coerenza con le nostre idee, nel rifiuto di essere complici di quella che vediamo come una forma palese di dominio. D’altronde crediamo che qualunque rivoluzione sia prima di tutto interiore, che una lotta non abbia senso se non mette prima di tutto in discussione noi stessx e la nostra acquiescenza con il potere, se non riguarda profondamente anche noi stessx e le nostre scelte, in quanto individui. Quello che possiamo proporre è soltanto un invito a riflettere su alcune questioni.

Gli anarchici si definiscono come contrari ad ogni forma di dominazione e sfruttamento. Lo sterminio sistematico e massificato compiuto dagli esseri umani nei confronti di miliardi di animali ogni anno è palesemente una forma di dominazione e sfruttamento.

Sfruttamento economico nel senso che gli animali vengono utilizzati in qualunque modo sia possibile estrarne un profitto, allo stesso modo in cui vengono sfruttate le risorse del pianeta su cui viviamo; ignorando il loro essere individui, vivi, che provano sensazioni, trattandoli unicamente come oggetti e merci. Questo risponde esattamente alla visione meccanicista del mondo propugnata dalla scienza moderna, che vede gli organismi viventi come macchine, ridotti ai loro organi, pezzi, privati di ogni desiderio, impulso, passione, vitalità.

Allo stesso modo della maggior parte degli animali, vengono ritenute risorse da sfruttare anche alcune categorie di persone, da cui viene estratta forzalavoro come fossero macchine, senza alcun rispetto per la loro individualità e la loro vita, e poi gettate via (per es. deportate) quando sono in sovrappiù o non funzionali al sistema capitalista. Per quanto riguarda gli animali, parte della loro “sfruttabilità” sta, più che nella loro forzalavoro (questo avveniva più in passato, pensiamo agli animali da tiro, oggi sostituiti dalle macchine), nel possibile utilizzo di pezzi dei loro corpi morti, che tramite complessi processi di lavorazione meccanici vengono poi trasformati in cibo (carne, formaggio, burro, gelatina animale, ecc.) o capi di abbigliamento (pellicce, cuoio, piumini d’oca, lana). Questo presuppone però l’uccisione di questi individui.

Con la rivoluzione industriale, la diffusione dei sistemi di trasporto e del commercio su scala globale, l’aumento esponenziale della popolazione mondiale (passata dal miliardo di abitanti del 1830 ai sette miliardi e più attuali) e l’uniformazione degli stili di vita e consumo su tutto il pianeta portata dal capitalismo, la sussistenza delle popolazioni ha cominciato a dipendere non più dalla produzione locale ma dalla produzione massificata e intensiva e quindi dalla continua esportazione e importazione di merci e prodotti. Anche il consumo di prodotti di origine animale si è espanso ulteriormente e ha reso necessaria la creazione di un sistema di produzione intensivo basato sulla massimizzazione del profitto: allevamenti che rinchiudono fino a migliaia di individui, cicli di produzione molto rapidi, sfruttamento e sofferenza indicibili per gli animali. Chiunque è entrato in uno di questi allevamenti sa che si tratta di luoghi veramente infernali, veri e propri carcerilager in cui questi individui trascorrono la loro intera vita in prigionia senza mai vedere la luce del sole, in condizioni di sovraffollamento estremo, privati di ogni piacere e soprattutto di ogni libertà. Credo che la nostra critica al carcere, per essere completa, dovrebbe espandersi e prendere in considerazione anche i carceri per animali, se ci si permette di ignorare l’esistenza di questa pervasiva realtà è solo per un pregiudizio specista.

Dietro i prodotti animali od ottenuti sfruttando gli animali che troviamo in commercio si celano industrie miliardarie e multinazionali che creano morti e devastazione, e che lo sfruttamento lo mantengono a 360°: quelle dell’alimentazione e del fastfood, quelle farmaceutiche, cosmetiche, quelle del divertimento preconfezionato, ecc. Le stesse industrie e multinazionali, protette dai governi, che sfruttano anche i loro stessi lavoratori, saccheggiano le risorse dei paesi più poveri,contribuiscono al neocolonialismo e alla povertà diffondendo in tutto il mondo lo stile di vita capitalista occidentale.

Questo sfruttamento nei confronti degli altri animali è reso possibile solo grazie alle giustificazioni morali che gli esseri umani hanno ideato per difenderne la legittimità (in maniera simile a come accade in altre forme di sfruttamento o dominio): ovvero sostenendo la superiorità intellettuale della specie umana sulle altre specie animali, che sarebbe dimostrata dall’avanzato livello di “progresso” e complessità strutturale a cui è giunta la società umana. Peccato che la realtà del sistema tecnologicoindustriale, e l’addomesticamento delle nostre vite, sia esattamente quello che critichiamo nelle nostre analisi, suona quindi quantomeno incoerente accettare le spiegazioni del sistema quando queste fanno comodo, e rifiutarle in altri momenti. Le giustificazioni addotte per spiegare la superiorità intellettuale dell’essere umano cozzano completamente con la critica che proprio noi anarchiche/i facciamo a questo esistente, che vogliamo vedere distrutto e rivoluzionato completamente, immaginando nei nostri “sogni utopici” una realtà in cui gli esseri umani non siano più addomesticati e costretti a vivere in queste gabbie di cemento chiamate città. Un animale della foresta che potesse osservarci, ingrigiti, schiavizzati e stressati nelle nostre metropoli, con ogni probabilità ci chiederebbe: “E voi sareste quelli intelligenti?”.

Quello che si dimentica quando si acconsente ad essere complici dello sfruttamento e della dominazione animale, e quello che manca in molte analisi, è la nostra posizione su questo pianeta. Gli esseri umani non sono che una specie tra tante altre, ma alcuni di essi (parte dell’élite dominante) si sono posti a specie dominante riservandosi il diritto di calpestare tutto quanto starebbe al di sotto, ovvero tutto il resto degli abitanti del pianeta e il pianeta stesso. Ed è quello che stiamo facendo, utilizzando il concetto di “specie” come in passato sono stati utilizzati (e lo sono ancora) quelli di razza, sesso, orientamento sessuale ecc. per creare gerarchie di valore e giustificare il dominio verso il gruppo sociale considerato come “inferiore”. Questo è il concetto di base della teoria antispecista, che di per sé non dà a mio parere una visione completa della realtà in cui ci troviamo, ma può fornire uno dei tanti tasselli importanti per la sua comprensione.

Tendiamo a pensare agli animali non umani come a un blocco unico indefinito, un’operazione mentale che tendiamo a rifiutare se si parla invece di esseri umani, di cui vogliamo mettere in luce le specificità singolari, l’“unicità”. Ci piace ritrarre “gli animali” come una massa monolitica di esseri guidati ciecamente dagli istinti, quasi delle marionette nelle mani di un misterioso burattinaio invisibile chiamato Ordine Naturale. Si cade qui in un nuovo dogma, in una nuova ideologia, nel mito della Natura come qualcosa di semidivinizzato, rappresentante del Bene (una concezione morale, quindi). In questo errore cade spesso sia chi è contrario allo sfruttamento animale che chi non vi si oppone. E’ chiaro che negando che gli animali abbiano un libero arbitrio, che siano cioè liberi di fare delle scelte e che provino sentimenti e sensazioni, è molto più semplice annullare la loro individualità e ridurli a oggetti. In passato è accaduto che degli esseri umani siano stati raggruppati in categorie “razziali” o “etniche”, da eliminare secondo alcune ideologie totalitarie, perchè ritenute dannose per l’“ordine naturale” del sangue, della nazione, del territorio o di quant’altro. Qualcosa di simile accade oggi con alcune specie di animali ritenute “nocive” perchè estranee all’ambiente in cui ora vivono, e quindi distruttive dell’“ordine naturale” e dell’equilibrio di quell’ecosistema. Solitamente questi animali non sono autoctoni ma sono stati importati dall’essere umano e si sono in seguito riprodotti e diffusi. Anche in questo caso la “soluzione” proposta dagli esseri umani è lo sterminio dell’intera specie, senza alcun interesse o riconoscimento dell’esistenza reale di individui, al di là della classificazione di “specie” che noi stessi gli abbiamo attribuito.

Ogni animale è un individuo unico. Chiunque abbia instaurato una relazione di un qualche tipo con degli animali non umani, fossero anche i più addomesticati, sa benissimo che nessun animale è uguale all’altro o dominato unicamente dagli istinti. Il solo fatto che ogni individuo animale reagisca in maniera differente al proprio set di istinti di specie determina in parte il suo carattere. Non ci interessa trovare delle spiegazioni scientifiche alle nostre parole, dettate dalla semplice osservazione e dall’esperienza diretta. Ogni animale, a seconda del carattere, della situazione e da molti altri fattori, compie continuamente delle scelte sulla propria vita, prova sentimenti di vario tipo, come evidenziato dal comportamento che ne consegue (tristezza, depressione, ansia, rabbia, gioia, eccitazione, allegria, ecc.) ed ha desideri e bisogni che non sono unicamente quelli funzionali alla sopravvivenza e alla riproduzione (voglia di giocare, di affetto, amicizie o relazioni affettive tra individui della stessa o di diversa specie, dello stesso o di diverso sesso, temporanee o prolungate nel tempo), ha carattere diverso (timido, estroverso, ecc.). Ovviamente queste sono definizioni umane, una nostra interpretazione di un linguaggio corporeo certamente diverso dal nostro, ma che con un po’ di esperienza possiamo imparare a comprendere, con diversi livelli di difficoltà a seconda che quell’individuo animale sia più o meno simile a noi nell’espressione dei propri comportamenti. Probabilmente anche un rospo vivrà una gamma di sensazioni differenti, ma essendo la sua espressione corporea e il suo linguaggio intraspecie molto differenti dai nostri, difficilmente riusciremo a interpretarli. Questo non vuol dire che il rospo sia stupido o non provi sensazioni, ma unicamente che noi non siamo in grado di decifrare il suo linguaggio. Questo fatto ci inganna, e dall’alto della nostra superiorità tendiamo a sostenere la tesi che tanto più un animale è diverso da noi, e quindi incomprensibile, tanto più è inferiore e meno sviluppato. Ovviamente se l’essere umano posiziona sé stesso in cima a una piramide di valore che parte dalla perfezione e scende verso il basso, scala di cui lui stesso è il giudice, tanto più considererà inferiori gli individui che si differenziano da lui.

E’ il classico schema della discriminazione del diversodasè, portata avanti da secoli e millenni anche per giustificare il dominio dei popoli bianchi occidentali sui popoli di diverse etnie, dell’uomo sulla donna, ecc.

Gli animali hanno quindi un’intelligenza, sanno valutare le situazioni e prendere decisioni conseguenti, sono felici quando conducono un’esistenza soddisfacente che risponde ai loro bisogni e desideri, in compagnia o da soli, mentre soffrono quando si trovano in ambienti artificiali e vedono negata dalle circostanze la soddisfazione dei loro bisogni. Esattamente come noi. Ovviamente soffrono quando sono rinchiusi in gabbie, capannoni, stalle, stabulari, quando non possono mai uscire all’aria aperta o stare su un prato, quando vengono separati dai propri figli o genitori, quando vengono privati della possibilità di avere rapporti sessuali o relazioni affettive, quando vengono mutilati, spremuti con dei macchinari, quando vedono stravolti i loro ritmi naturali (luci artificiali 24 ore su 24), quando vivono in spazi ristretti senza mai potersi muovere, quando vengono trasportati ammassati in camion per ore sotto al sole, con la fame e la sete, quando sentono le urla di paura e dolore delle proprie compagne che in fila davanti a loro, al mattatoio, vengono uccise, e infine quando vengono storditi con la pistola elettrica e dissanguati. Sentimenti che proveremmo con ogni probabilità anche noi esseri umani.

Anche gli animali (specialmente quelli più addomesticati) hanno uno spirito di adattamento, questo spiega la rassegnazione che alcuni animali provano quando rinchiusi negli allevamenti. Quando nasci già in una gabbia o in un edificio senza mai uscirne, nonostante i tuoi istinti spingano per la libertà, rimangono soprattutto infelicità e rassegnazione. Allo stesso modo la maggior parte degli individui umani rinchiusi per lungo tempo nelle carceri, o anche solo in una vita ripetitiva, monotona e priva di stimoli quale è quella della società moderna (comprensiva di diversi carceri/gabbie quotidiani: fabbrica, scuola, ufficio, ecc.), a un certo punto si adeguano e non si ribellano più, pur continuando a vivere spesso nell’insoddisfazione e lontani da un’idea di felicità. Da questo punto di vista sembra anzi dall’osservazione che la maggior parte degli esseri umani siano più “rassegnati” alla prigionia rispetto agli altri animali: anche quando potrebbero disporre di una relativa libertà, spesso si vanno a rinchiudere volontariamente.

La complessità della gamma dei sentimenti e delle sensazioni che può provare un qualunque animale è molto ampia, anche se probabilmente non è così ampia come quella di un essere umano, ma per un motivo molto elementare: la vita degli esseri umani è molto più complessa, essendo ingranaggio di un sistema molto più grande di loro, che loro stessi hanno creato ma che ormai li sovrasta. E’ questo un vantaggio o un segno di superiorità? Siamo sicuri che essere liberi dall’influenza delle infrastrutture e istituzioni create dalle società umane (e che non esistono nelle società animali), per dedicarsi solo al godimento della propria vita, alle relazioni con gli altri e al soddisfacimento dei propri desideri sia uno svantaggio? Ma non è esattamente quello per cui noi stessi lottiamo, quel livello minimo di libertà (considerata come assenza di costrizioni esterne da noi stessi) che sogniamo?

A fianco di chi si ribella: per una visione intersezionale e non paternalista della liberazione animale 

Articolo di Stefania Cappellini, Luigia Marturano, Marco Reggio 24 maggio 2014, Verona Liberazione Generale 2

E’ la sproporzione di forze ad essere incommensurabile. Forza indicibile, materiale ed ideologica, delle strutture del potere umano  sugli animali. Ma tutti i prigionieri vorrebbero essere liberi, animali compresi. E i continui tentativi di evasione dai furgoni diretti ai mattatoi, dai recinti di terra e d’acqua lo dimostrano. Nella maggior parte dei casi si concludono con l’”abbattimento”. Non si parla neppure di uccisione, forse perchè si “abbatte” un ostacolo, qualcosa che s’è inceppato nel meccanismo inesorabile dello sfruttamento animale. Talvolta la reazione umana è di simpatia nei confronti di chi, anelando alla libertà, riesce anche solo per poco tempo a conquistarla ed arriva un’insperata “grazia” e la possibilità di vivere in un rifugio. Ma, rispetto ai tentativi dall’esito quasi sempre drammatico, quante saranno le serrature che non hanno ceduto ai morsi, gli steccati insormontabili misurati con i salti, le corde che hanno retto agli strappi? Quanti i tentativi di difesa della propria vita che non hanno portato nemmeno a varcare la soglia della prigione e vengono ormai soltanto urlati fra le lamiere dei camion e nei macelli? Nell’attesa che ogni gabbia venga aperta per sempre, cerchiamo almeno di cambiare prospettiva. Riconosciamo agli animali la ferma volontà e la capacità potenziale di autoliberazione. Non pensiamoci, pur nel nostro necessario ed urgente agire per gli animali, come i soli eroi liberatori, generosi campioni d’altruismo, ma come compagn* affiancat* nella lotta.

Gli animali soffrono una doppia discriminazione: quella dello sfruttamento istituzionalizzato e diffuso nelle pratiche quotidiane, a partire dall’industria della carne e dall’abitudine di cibarsi di loro; ma anche quella in cui incorriamo tutt* noi (nessuno escluso), quando li guardiamo come si guarda una “vittima”, un soggetto “debole”, qualcuno da salvare, un oggetto della nostra generosa benevolenza.

«Siamo la voce dei senza voce». Questo slogan sintetizza bene unaspetto dell’animalismo condiviso da diverse tendenze: zoofile, protezioniste, in parte persino abolizoniste e liberazioniste. Questo tipo di retorica ha un nome, ben noto a chi vive lo sfruttamento e il dominio sulla propria pelle: paternalismo. Un paternalismo certamente comprensibile, difficile da superare, ma non per questo inevitabile.

Un cambio di prospettiva si rende necessario per vari motivi. Per scrivere da capo la storia dei rapporti di potere, che ha visto sì crescere il dominio, con un’accelerazione impressionante nell’ultimo secolo, ma non senza una resistenza sotterranea, continua e talvolta incisiva da parte degli oppressi di tutte le specie. La stessa storia del movimento per i diritti animali e successivamente per la liberazione animale è in parte una storia di mobilitazione umana a partire dalla resistenza dei non umani, dalla protesta, dal sabotaggio, dalle ribellioni degli schiavi costretti a dare la propria forzalavoro per trainare i carri, il proprio corpo per fare indumenti e carni, le proprie funzioni riproduttive e i propri figli per produrre latte.

Trascrivere la storia della rivolta animale significa leggere in modo diverso il presente e il potenziale di cambiamento. Significa attaccare ulteriori residui di antropocentrismo, di quella gabbia che contiene tutte le altre, che è da abbattere per distruggerle tutte e che si insinua, subdola e inquinante, in ogni terreno.

Significa soprattutto declinare in modo coerente l’idea di solidarietà, una solidarietà attiva con i prigionieri che evadono (a qualsiasi specie appartengano), con i reclusi che manifestano il dissenso come possono, spesso disperatamente, senza successo, e con modalità di cui ancora fatichiamo a comprendere la portata politica.

Intravediamo alcune potenzialità, per esempio, nella capacità di denuncia delle pratiche di tortura e sfruttamento da parte degli animali ribelli: le loro storie, che abbiamo il compito di amplificare e di liberare dalla spettacolarizzazione mediatica, possono dire molto più chiaramente di tante parole che cosa realmente desidera un recluso per se stesso, chiedendo a chiunque di prendere una posizione chiara.

Infine, abbandonare la posizione dell’attivista generoso ci obbliga a considerare ogni singolo schiavo come un soggetto in grado di autodeterminarsi, di negoziare i rapporti di potere e le condizioni di vita in una società antropocentrata. Ci suggerisce di farlo istituendo dei nessi non più esclusivamente “teorici”, ma esplorati a partire dalla nostra stessa condizione di individui che vivono sulla propria pelle diverse forme di normalizzazione che, con modalità specifiche, trovano assonanza in uno degli atti più violentemente normalizzanti che ci sia: l’abbattimento di un animale che ha “osato” evadere dal proprio status di carne macellabile.

BIBLIOGRAFIA:

Barbara X, Fuga per la sconfitta, in «Antispecismo.net», maggio 2011.

Stefania Cappellini, Marco Reggio, Quando i maiali fanno la rivoluzione. Proposte per un movimento antispecista non paternalista, in «Liberazioni», n.16, primavera 2014, pp. 4361.

Serena Contardi, Madre Coraggio, settembre 2012 (delmangiarfiori.wordpress.com).

Massimo Filippi, Filippo Trasatti, «Toc toc», in Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera, Milano 2013.

Jason C. Hribal, Animals Are Part of the Working Class: a Challenge to Labor History, in «Labor History», vol. 44, n. 4, 2003, pp. 435453.

J. Hribal, Animal, Agency, and Class, in «Human Ecology Review», vol. 14, n. 1, 2007, pp. 101112.

Michael Loadenthal, Operation Splash Back!: Queering Animal Liberation Through the Contributions of NeoInsurrectionist Queers, in «Journal for Critical Animal Studies», vol. 10, n.3, 2012.

Agnese Pignataro, Chi sono le donne? Chi sono gli animali? Economie dei corpi e politiche degli affetti, abstract dell’intervento al Blog feminist camp il 29 ottobre 2011 (www.womenews.net).

SITOGRAFIA:

«Resistenza Animale – storie di schiavi ribelli»: resistenzanimale.noblogs.org

Lasciamo il veganesimo sugli scaffali e riprendiamo la lotta 

Articolo tratto da: informa-azione

Abbiamo scritto il testo che segue non per dare vita ad un dibattito in seno al movimento antispecista (morto e sepolto dal peso delle sue stesse chiacchere, dei suo sedicenti portavoce e della sua retorica filosofica) ma per sottolineare che esistono individualità all’interno del movimento di liberazione animale mosse da una tensione rivoluzionaria che hanno sentito di indirizzare verso lo sfruttamento animale.

Lasciamo il veganesimo [1] sugli scaffali e riprendiamo la lotta

Sebbene il veganesimo possa essere considerato come il rifiuto della sofferenza metodica e dello sfruttamento degli animali e quindi l’astenersi dalla complicità verso chi li massacra sistematicamente, crediamo che esso sia solo un primo passo verso quello che riteniamo un percorso per la liberazione animale e da ogni tipo di dominazione. Assistiamo sempre di più alla tendenza che spaccia il veganesimo come mezzo per la Liberazione Animale ma esso si occupa solo del potere simbolico e sociale della carne e dei derivati animali. Nessuno può essere seriamente convinto che la sua dieta abbia inflitto un serio colpo all’industria dello sfruttamento animale; di fatto il vegnesimo agisce contro un immaginario collettivo.

Essere vegani (seppure etici) pensando così di poter annientare lo sfruttamento animale e persino di LIBERARE altri animali è fuorviante e pericoloso perché è un tentativo di pacificazione della resistenza. Sarebbe come credere che astenendosi dal votare si possa sovvertire il sistema. Se noi non andiamo a votare è perché abbiamo deciso di non delegare le nostre scelte e le nostre vite. Se non andiamo a votare è perché rifiutiamo questo sistema. Ma credere che il solo atto di astensione possa spostare l’ago della bilancia a nostro favore sarebbe ingenuo.

Invece di alimentare nuove scintille si soffia a pieni polmoni sulla flebile fiamma dell’azione rivoluzionaria per la liberazione animale portandola ad esaurirsi proponendo il veganesimo come atto politico di opposizione. Mentre esso è un atto di consapevolezza e coerenza verso la propria coscienza intesa come percezione della realtà circostante, a cui alcuni attribuiscono una valenza politica perché hanno deciso di analizzare i rapporti di potere che si instaurano all’interno della società in cui ci troviamo; ma non è un gesto di rivolta. E’ il rifiuto di una pratica di sfruttamento, non una resistenza concreta, che si inserisce inevitabilmente nello spettro delle scelte alimentari e per questa sua caratteristica assorbibile dal sistema capitalista. L’unica possibilità che abbiamo davanti a questo impasse è dare vita ad un conflitto irrecuperabile realizzabile solo se, analizzando le dinamiche di dominio che promuovono un determinato sfruttamento, si riescono ad identificare non solo le strutture ma anche i ruoli che sullo sfruttamento costruiscono e mantengono il loro potere (economico e sociale) colpendo il meccanismo capitalista che produce la distruzione degli animali. [2]

Il portato rivoluzionario della questione animale si realizza se siamo in grado di affrontarla con i giusti strumenti: la liberazione animale tratta la questione dello sfruttamento degli animali come primo passo per una complessiva messa in discussione di un più ampio sistema

autoritario.Uno dei punti di forza del movimento di liberazione animale è sempre stato quello di farsi difensore di pratiche radicali, che promuovevano un alto livello di conflittualità contro chi si riteneva responsabile dello sfruttamento degli animali;  una conflittualità permanente, capace di arginare il recupero di certe pratiche da parte delle istituzioni. La lotta per la liberazione animale ha sempre sostenuto apertamente ogni attacco compiuto contro coloro che venivano riconosciuti come responsabili del perpetrarsi dello schiavismo degli altri animali.Una lotta che riconosce nelle istituzioni, la prima forma garante di specismo e antropocentrismo,i legittimatori del nostro e altrui annientamento individuale e per questo motivo non potrà mai dialogare con esse parlando due lingue differenti. [3]

In questo senso nessun processo di mercificazione e consumer grabbing potranno mai trasformare una lotta radicale in moda né tanto meno in prodotti da supermercato o ristorante (poco importa se le aziende siano o meno vegane perché rifiutiamo a prescindere il ruolo di consumatori). Ingenuo credere che la parola vegan possa esprimere l’assenza di crudeltà: nulla in questo assetto societario è privo di sfruttamento. Nessuno può tirarsi fuori dal mondo in cui viviamo. Neppure un vegano che non compra prodotti al supermercato. O si sostiene il genocidio o lo si comabatte. Alternative non ne esistono. Non si può disertare neppure attraverso la scelta oculata nell’acquisto dei prodotti. Tacere non è possibile, in caso contrari si diventa complici. Denunciare è possibile ma col fare ciò non si è ancora disertato. Oltre la denuncia resta l’attacco contro gli uomini e le strutture responsabili del genocidio. Svilluppando il concetto etico da cui partono le lotte animaliste si arriva allo scontro rivoluzionario, vero e proprio, contro chi ci opprime e ci domina. [4]

Dovremmo indirizzare lo sguardo ad un mondo in cui di ogni luogo di produzione (qualsiasi produzione anche vegancruelty free) non sono rimaste nemmeno le macerie, un mondo in cui non ci sarenno più prodotti eco (logici,sostenibili, solidali) perché non ci saranno più produttori.E questo mondo non è possibile se prima non distruggiamo quello in cui ci troviamo. Ma per farlo dobbiamo ridare dignità alla lotta per la liberazione animale ricollocandola all’interno di un percorso rivoluzionario (non in senso filosofico ma di pratiche radicali) in cui idea e azione diretta sono strettamente collegate e sono terreno fertile per altri percorsi di conflittualità permanente.

Se la preoccupazione del movimento antispecista è che la linea di demarcazione netta che sussiste indiscutibilmente fra “veganismo etico” e “veganismo alimentare” sia precisa e chiara allora visoni, starne, quaglie, cinghiali, fagiani e compagnia bella devono ingegnarsi un qualche modo di scontro ed evasione autonoma. Perchè i vegani etici sono più proccupati alla loro purezza ideologica che all’azione diretta e alla creazione di una cultura di supporto e divulgazione di quest’ultima.

Mononoke

PS: Se i supermercati e i vari naturasì forniscono vari prodotti a base vegetale allora ciò che l’occhio vede la mano afferri ci verrebbe da suggerire.

NOTE:

[1] Non siamo filosofi e non ci preme discutere della distinzione tra veganesimo e veganismo, riteniamo abbia poca importanza ai fini del nostro discorso.

[2] A. Bonanno “Di quale natura parliamo?” ed. Anarchismo 2015

[3] Incontro di Liberazione Animale 2015

[4] Idem nota 2

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