Introduzione
Sloggiati il rigore e la precisione dal campo delle umane attese di ogni giorno, riconosciuta l’impossibilità di una prospettiva pienamente organizzata in tutti i suoi dettagli, una prospettiva di vita capace di dare indicazioni operative sul che fare quotidiano, il bisogno di ordine e di sicurezza si è trasferito nella sfera dei desideri. Qui, costruita in tutta furia una roccaforte di ultima difesa, si è attestato per l’ultima battaglia. Il desiderio è sacro e inviolabile, è quello che alberghiamo nel cuore, il figlio dei nostri istinti e il padre dei nostri sogni. Su di lui possiamo contare, non ci tradirà mai.
Di questa fenomenologia irrazionale sono piene le fosse più recenti, quelle che riempiamo ai margini dei cimiteri di periferia. Diamo ascolto a fondamenti che prima ci avrebbero fatto ridere, assegniamo condizioni di stabilità e pulsioni che sappiamo, in fondo, non essere altro che il vago ricordo di un benessere passeggero, l’ala fugace di un gesto nella nebbia, il frullìo di ali mattutine che scomparvero ben presto di fronte alle necessità del ripetersi, del ripresentarsi ossessivo e irrispettoso del burocrate che si annida dentro di noi, in qualche angolo oscuro dove seleziona e codifica sogni come qualsiasi altro imbrattacarte nelle sale anatomiche della repressione.
Fugaci balenii attestano comportamenti eroici, di qualche compagno, di qualche ribelle, a volte sogguardato con sospetto prima che la storia non sigilli immota il suo marchio a fuoco nelle carni martoriate a puntino. Non siamo sbalorditi osservatori di televisioni inguardabili, non siamo lettori d’appendici ormai relegate nel polveroso catalogo delle biblioteche. Siamo vivi e per la vita, quindi ci cibiamo di esperienze dirette. Non appena un segno vitale appare qua e là, lo stacchiamo con la punta dell’unghia e lo collochiamo nel segreto portafogli del nostro cuore, dove ricaviamo una breve icona con cuoricini e nontiscordardime.
In fondo anche noi, i duri e gli impavidi della durezza refrattaria alle scelte di comodo, anche noi che non ci siamo scoraggiati né di fronte alle minacce delle istituzioni, né di fronte a quelle, ben più terribili, dell’imbecillità camuffata da ribellione, abbiamo bisogno di alimentare le nostre iconografie, ed è per questo che collezioniamo ricordi, simpatie, amicizie, semplici strette di mano, a volte, non più di questo, caricandoli nella memoria come condivisione e sostegno, quando non al di là, come partecipazione diretta. In questa fase allucinatoria, molti di noi hanno sfondato casseforti di banche e di ministeri del tesoro, realizzato effettivamente espropri radicali, tolto terre ai latifondisti e ucciso nemici in scontri a fuoco cruenti sul far della sera. E leggendo, e annotando emozioni di letture, e ricordando racconti attorno al fuoco, quando la vecchia nonna riportava nella giusta luce le gote arrossate di Cappuccetto Rosso, sviluppiamo per conto nostro, nell’ambito delle fantasie più accese, quei fatti realmente accaduti, di cui non siamo stati che compartecipi alla lontana (nel migliore dei casi), e vi collochiamo la parte più viva dei nostri desideri. E tanto ci è sufficiente. Mentre l’antica critica ad occhi aperti, quella che in fondo vedeva il lupo e non la bambina, e per il primo parteggiava e non per la seconda, se ne rimane in soffitta. Nessuna scienza rigorosa è possibile: non vi ricordate? Quindi perché dovrebbe essere possibile mettere un po’ di criterio nelle nostre fantasie? Ma lasciamole a briglia sciolta. Lontani dalla scepsi che ha frastornato a sufficienza nel passato più o meno recente, riscaldiamo il nostro cuore come pietanza fredda alla fioca sorgente di questi racconti d’avventure, di cui ne presentiamo uno, per altro neanche tanto mal fatto.
Questo racconto parla di un ladro. Un ladro con le sue illusioni egualitarie. Un anarchico con i suoi sogni. Ma con una particolarità: quest’uomo, insieme ai suoi compagni, apriva veramente le casseforti dei ricchi e con questo semplice fatto dimostrava realizzabile un attacco, sia pure parziale, alla ricchezza sociale.
Che questa sia la cosa più interessante di tutto il racconto potrà sembrare troppo poco, ma non è così. L’aspetto spettacolare dell’attività di Jacob e dei suoi compagni, l’inverosimile elenco dei loro furti, il modo in cui questi furono elegantemente perpetrati, non sono gli aspetti più importanti. Ma possono essere quelli che più colpiscono la fantasia del lettore, perfino di quello anarchico. In fondo chiediamo anche noi oggi, come ieri, che qualcuno costruisca per nostro conto l’iconografia di cui non riusciamo a fare a meno. Il paragone con Arsenio Lupin valga per tutti. Maurice Lebanc fu un noto scritto d’appendice, Bernard Thomas è un giornalista d’appendice. I due generi vanno a braccetto.
Ma Jacob e gli altri erano qualcosa d’altro. Erano, prima di tutto, dei compagni. Ed è qui, in questo campo di scelta del loro agire, che dobbiamo cogliere il significato più profondo delle loro imprese. La descrizione, che nel racconto è implicita nel fascino di un fare al di là di quel livello quotidiano che tutti, più o meno, sopportiamo, non rende fino in fondo i livelli di coscienza che sono stati necessari, gli oltrepassamenti affrontati e condotti a termine, tutto quello che di straordinario, veramente e non come fatto mitico, Jacob e gli altri affrontarono per portare a compimento le loro azioni di attacco. Procedure e metodi, rigidità di comportamenti e morale anarchica nel rapporto con i rappresentanti della classe dominante, sono solo alcuni aspetti del racconto, al di là, volendo andare più a fondo, si deve mettere da canto la descrizione, quindi la favola d’appendice, e accedere alla riflessione.
Che vuol dire mettere le mani sulla proprietà altrui? Per rispondere a questa domanda, e quindi esaminare diversi errori che vengono sistematicamente commessi da molti compagni, oltre a quelli specifici attinenti alle illusioni di Jacob, occorre fare alcune riflessioni non proprio piacevoli. La prima di tutti è che il furto, l’appropriazione in genere, fatta con la forza o con l’astuzia, e non con la cessione della propria attività lavorativa, non può mai diventare arma di livellamento sociale. Per quanto ingenti siano queste appropriazioni, che possiamo definire “fuorilegge”, rimangono pur sempre una minima cosa di fronte all’accumulazione più o meno selvaggia che il capitale rende agevole ai padroni della finanza, ai possessori presenti della ricchezza, ai gestori delle grandi intraprese pubbliche, ai signori della guerra e della mafia di ogni genere. L’appropriazione di cui parliamo, che tanto ebbe a fare tremare i cuori dei pasciuti borghesi dell’impero francese, è semplicemente un mezzo da fare fruttare altrove, per mettere in moto quella generalizzazione dello scontro che resta per gli anarchici lo scopo principale di ogni attività rivoluzionaria. Ingenuità permettendo, credo che questo punto sia chiaro una volta per tutte.
Un altro luogo comune che bisogna sfatare è che queste azioni possano rappresentare un modello per gli oppressi, una maniera sbrigativa e semplice per rientrare in possesso di quello che è stato estratto con la forza dello sfruttamento e della repressione. Il concetto stesso di esproprio proletario, muovendo dagli iniziali e, in fondo, banali raid nei supermercati, non ha più senso di una sceneggiatura per film della vita di qualsiasi rivoluzionario espropriatore: da Durruti a Bonnot, da Sabate e Facerias, da Di Giovanni a Pollastro. La fruizione passiva di comportamenti eroici è sempre produttrice di miti, di favole per adulti, che condizioni di vita frustrante richiedono a getto continuo, protesi che aiutano a vivere allo stesso titolo dell’alcol o dei sonniferi. Le condizioni complessive dello scontro possono, in un dato momento, a certe condizioni specifiche di natura sociale ed economica, produrre movimenti di grandi masse all’interno dei quali gli espropri, generalizzandosi, finiscono per diventare pratica quotidiana, ma tutto ciò germina spontaneamente e non ha bisogno di modelli.
Per un altro verso, e riflettendo bene sulla realtà che sta di fronte al compagno anarchico che si pone il proprio che fare da un punto di vista rivoluzionario, il problema si pone con più ampi dettagli. Qui occorre risolvere nel modo più chiaro possibile il proprio rapportarsi con la realtà, e quest’ultima è rigidamente incarcerata in condizioni di vita che ritmano i tempi della produzione e del consumo. Certo, come tutti sappiamo, ci si può parzialmente chiamare fuori (fino ad un certo punto), racchiudersi nelle idilliache condizioni di una comune provvisoria, ricca di spaventevoli autosfruttamenti e di frustranti condizioni di vita all’aria libera sotto l’ombrello di una natura fittiziamente incontaminata. Oppure cercare, fino ad accoltellarsi, nel chiuso di un numero ragionevolmente grande di rapporti interpersonali, realizzando quelle condizioni soggettive e oggettive che permettano di uscire fuori dalle regole della comune convivenza, tristemente contrassegnata dai classici limiti della coppia. Tutto questo è possibile, e a volte è perfino bello, ma non è tutto. Procedendo oltre, al di là, sempre più in là, si trovano i primi segni del problema vero e proprio: che vogliamo fare della nostra vita? Vogliamo viverla interamente, per quello che ci sarà possibile fare, oppure vogliamo consegnarne una parte, una considerevole parte, in contraccambio di un salario più o meno velato, più o meno camuffato da prestazione economica?
Oggi esistono molti modi per camuffare questa contropartita: il volontariato è uno di questi. Gli impegni molteplici nel sociale, alla coda di nuovi modelli politici di intervento, diretti a garantire la pace sociale, abbondano, e tutti forniscono contropartite che lasciano una fascia a volte insospettabilmente consistente di “tempo libero”. Il potere si è reso conto che deve attirare nella fascia del controllo, con mezzi sempre più intelligenti, proprio quelle fasce di disadattati sociali che altrimenti in modo troppo violento reagirebbero alle condizioni classiche dell’utilizzo lavorativo. E, in questa direzione, molto stanno facendo per rendere più allettante il compromesso. Ma nessuna condizione di privilegio può renderci padroni di noi stessi. Il lavoro, anche quello volontario (si fa per dire), ci mangia l’anima, in breve diventiamo quello che facciamo, siamo quello che produciamo, e se produciamo accondiscendimento e accettazione, pace sociale in primo luogo, siamo noi stessi infettati di pace sociale, di accondiscendimenti e di accettazione. Siamo noi stessi il poliziotto che sta all’angolo della strada e perfino il torturatore in camice bianco o il custode delle carceri che stringe nella mano guantata il mazzo di chiavi.
Se non vogliamo farci mangiare l’anima, seguendo Jacob dobbiamo allungare la mano sulla proprietà altrui, non c’è altro da fare. Ma per allungare la mano dobbiamo portare chiarezza nella nostra coscienza, altrimenti faremo soltanto più o meno vistosi trasferimenti di ricchezza, nient’altro. Il ragionamento corretto diventa quindi quello che propone all’espropriatore, a colui che da un punto di vista rivoluzionario recupera mezzi per fare quello che va fatto, un maggiore spazio di libertà operativa. Non la libertà, che nessuna vera libertà potrà venire da una maggiore disponibilità di denaro, ma una maggiore capacità operativa, una maggiore disponibilità di tempo per realizzare il proprio progetto rivoluzionario. Tutto questo, come si vede, ha poco di mitico e di affascinante, si tratta semplicemente di rendere possibili progetti rivoluzionari che in caso contrario verrebbero tarpati da una scarsa disponibilità di mezzi. Il mondo in cui opero con la mia attività rivoluzionaria coinvolge tutto me stesso, non c’è, da un lato, il me stesso che vive la sua vita e, dall’altro lato, la mia attività rivoluzionaria. Per questo semplice motivo non posso che soffrire delle conseguenze di una dicotomia assurda quale è quella che mi dilacera come lavoratore e rivoluzionario, obbligato, da un lato, a produrre ricchezza per gli sfruttatori, dall’altro, a combattere questi ultimi e quindi quel flusso stesso che io, con il mio lavoro, contribuisco a produrre.
Una classica obiezione è quella che anche il furto è un’attività lavorativa, e quindi un produrre ricchezza, e anche Jacob e i suoi compagni cedettero a questa interpretazione definendosi “Lavoratori della notte”. Ma io ho sempre letto in chiave ironica questa etichetta, che contribuì ai suoi tempi a incutere maggior paura ai borghesi, che non avevano dimenticato i giorni del Settantuno. Invece l’obiezione in se stessa non manca di una certa fondatezza. Il fuorilegge, se non altro, produce il giudice, una parte considerevole del carcere, un gran lavorìo di avvocati e impiegati di tribunali, tutta una mentalità repressiva che dai depositari della ricchezza scende giù fino alla vecchietta che teme di essere scippata della sua piccola pensione. E tutto questo fa senza dubbio parte del gioco. Il furto costituisce, con tutti i suoi annessi, una attività lavorativa che impiega migliaia di operai dell’illegalità, i quali, sollevandosi appena dalla miseria, vengono sistematicamente derubati, a loro volta, da un sistema che li spinge verso un corteggio di brillanti proposte di consumo. Se il rivoluzionario dovesse (come sembra temere Malatesta) cadere in questa trappola, sarebbe un imbecille indistinguibile dal poveretto che riconsegna il proprio bottino, frutto di onestissime rapine, al primo concessionario di costose automobili. Non voglio nemmeno pensare a questa eventualità che, in ogni caso, per quel che può valere la mia personale esperienza, non è cosa molto comune.
Ma resta l’altro aspetto del problema. Il furto non è attività che s’improvvisa: richiede professionalità e impegno, puntualità, precisione e sangue freddo, conoscenza della psicologia umana e delle tecniche più avanzate di prevenzione e controllo. Richiede infine tempo. Non è pertanto né un generoso regalo, né un’avventura esaltante. Quasi sempre si trasforma in routine meticolosa che sfianca il migliore dei compagni. Spesso si commettono errori in un senso o nell’altro: nel presupporre quest’attività più facile di quanto sia, come nel presupporla più complessa e fantastica. Tenere fermo il complesso di problemi che la caratterizzano è importante, e nessuna narrazione agiografica può aiutarci in questo. Così, dopo una approfondita riflessione critica si può arrivare alla conclusione che questi sforzi possono, a certe condizioni e in certe situazioni, costituire la soluzione più efficace per portare a termine un progetto rivoluzionario.
So bene che queste conclusioni non soddisferanno molti compagni incapaci di cogliere quello che spinge molti ribelli verso l’identificazione del nemico. Mi dispiace, ma non essendo mai stato un ribelle, non saprei da dove cominciare. Spero solo che quei pochi rivoluzionari, ai quali queste considerazioni sono dirette, sappiano almeno leggerle per quello che sono: una riflessione critica e l’antefatto di un progetto operativo.
Catania, 10 ottobre 1999
Alfredo M. Bonanno
Bernard Thomas – Jacob Alexandre Marius PDF
Prima edizione italiana: Centrolibri, Catania 1985
Traduttore: Andrea Chersi
Seconda edizione italiana: Anarchismo, Catania 1989
Terza edizione italiana: Anarchismo, Trieste 2008
Quarta edizione italiana: Anarchismo, Trieste 2015 Biblioteca di Anarchismo — 15
2008, 3a ediz., pagine 230, euro 10,50