E’ uscito DARDI n°11 – Foglio anarchico aperiodico

Riceviamo e pubblichiamo:

EDITORIALE

“Nell’alba, nel sole, sul mare sorrideva la libertà, dietro era la galera spaventosa, dietro era la morte.”

Dopo innumerevoli tentativi, l’anarchico Clément Duval, nell’aprile del 1901, dopo quattordici anni di reclusione, riuscì ad evadere dal famigerato bagno penale della Guyana francese, dove vi era condannato a vivere ai lavori forzati fino alla morte.

Se scomodo qui il nome del noto anarchico, che con i suoi incendi vendicava i lavoratori sfruttati ed umiliati dai capitalisti e con i suoi furti promuoveva la stampa anarchica, non è per cantarne le lodi o esporne una superflua biografia. Piuttosto vorrei soffermarmi sulla temerarietà con cui Duval tentò di evadere dall’ inferno terrestre, non senza subire feroci rappresaglie, fino ad ottenere l’agognata libertà. Quali mezzi aveva a disposizione per andarsene? Ben pochi, alcuni alberi abbattuti, delle tavole di legno o di metallo e del cordame con cui costruire una zattera, alcuni arnesi da fabbro con cui compiva il lavoro giornaliero di deportato, un gommone o uno scafo sottratto di soppiatto ai guardiani, la distrazione dei sorveglianti, la fiducia ben riposta in alcuni compagni di sventura. Oltre a ciò la sua forza d’animo e la buona sorte.

Per quanto le sue possibilità fossero apparentemente esigue, per quanto la sua salute tendesse a deteriorarsi col tempo, per quanto il suo destino sembrava relegarlo a quella genna pestilenziale fino al suo ultimo respiro, non si rassegnò. Non attese un miglioramento dei tempi, un aiuto dall’esterno o l’occasione perfetta. Afferrò con risolutezza ogni singola possibilità che gli si presentò. Fallì e ne pagò le conseguenze, ma appena l’occasione gli bussò alla porta, tentò nuovamente. Ogni fallimento lo portò a migliorare le sue valutazioni, a diffidare di chi era vile per mancanza di coraggio, a riconoscere e sfruttare al meglio le sue possibilità di successo, a tirarsi indietro quando non vi era ragionevolmente alcuna possibilità, per poi rilanciarsi appena l’occasione si faceva allettante e il suo stato di salute glielo permetteva, fino al giorno della sua fuga.

Chi si gioca la vita non può permettersi di sbagliare senza che ciò comporti gravi ripercussioni, e queste si accompagnano in genere all’insuccesso dei propri propositi, nonchè alla delusione nel constatare che i propri progetti sono andati in fumo; ma solo accettando la possibilità di un errore, così come del fallimento, si è in grado di perseverare fino in fondo, di affrontare la partita al pieno delle proprie possibilità. Chi prepara le proprie mosse ossessivamente, accumulando nozioni e materiali, aspettando il momento perfetto, che non esiste, si accorgerà ad un certo punto che la partita è ormai persa, che la scialuppa ancorata alla vedetta di guardia è stata portata via dagli sgherri, che il cumulo di tavole, tessuti e cordame nascosti è stato scoperto nell’angolo del giardino coloniale, che le voci di un tentativo hanno già cominciato a diffondersi tra i reclusi irresponsabilmente e tutto quel tempo passato a pianificare è stato speso inutilmente. Solo l’esperienza permette di affacciarsi sul mare in tempesta della qualità, chi resta sull’isola a rammaricarsi dei tentativi evaporati non potrà che scorgere i promontori della terraferma dalla lunga distanza. Solo mettendo piede su una barca si impara a riconoscere l’orientamento ottimale della randa, a riconoscere i segnali di una tempesta in arrivo, a sopportare i malesseri della navigazione. Ogni minuto passato a esaminare le condizioni con cui prendere il largo, a prevederne le conseguenze e prevenirne gli errori è assai prezioso, ma quando il vento increspa le onde, annunciando la marea, non c’è tempo da perdere, è il momento di mettere in saccoccia tutto ciò che si è raccattato e salpare verso la deriva.

DARDI N°11 PDF