E’ uscito Avis de Tempêtes Numero 12 – Bollettino anarchico per la guerra sociale (Dicembre 2018)

Più di centomila persone arrabbiate che occupano da quasi quattro settimane rotatorie e caselli autostradali, che cercano di bloccare e rallentare il funzionamento delle piattaforme logistiche di supermercati, depositi petroliferi o anche di fabbriche, che si riuniscono ogni sabato nelle città di medie dimensioni come nelle metropoli per assaltare prefetture e municipi, o semplicemente per distruggere e saccheggiare ciò che li circonda; ecco che l’autunno dà vita inaspettatamente all’ennesimo movimento sociale. Di che far accorrere tutti coloro a cui piace l’odore delle mandrie, per tentare di cavalcarle o semplicemente per essere là dove accade seguendo il vento dei lacrimogeni. Come durante il movimento sindacale contro la Loi Travail del 2016 (marzo-settembre) e le sue conseguenze contro le ordinanze nel 2017 (settembre-novembre), o quello contro la riforma della SNCF quest’anno (aprile-giugno). Solo che questa volta non è andata così.

Per una volta, un movimento è scoppiato in modo auto-organizzato al di fuori di partiti e sindacati, per una volta si è immediatamente fissato le proprie scadenze sia a livello locale che nazionale — scadenze spesso quotidiane e non al ritmo settimanale o mensile delle grandi giornate orchestrate dai leaderini e concordate in anticipo con la polizia —, definendo anche i propri luoghi e percorsi di scontri e blocchi rifiutando ostinatamente di implorare un’autorizzazione prefettizia preventiva. Insomma, un po’ di aria fresca per tutti i militanti in attesa di un grande movimento collettivo per uscire di casa. E tuttavia! Mentre le briciole reclamate da qualsiasi collettivo cittadinista, sindacalista o vittimista con il sostegno di un rapporto di forza nelle strade per aiutare i suoi rappresentanti a meglio negoziare col potere non ha mai impedito ai più di partecipare, ecco che i coraggiosi militanti antiautoritari cominciano a sezionare quelle che hanno fatto traboccare il vaso dei gilet gialli. Ah, ma è troppo reazionario arrabbiarsi per il prezzo del gas o delle tasse. Ah, ma nella loro consultazione virtuale vorrebbero contemporaneamente sia un aumento del 40% dello SMIC [salario minimo] e delle pensioni che una diminuzione degli oneri per i padroni, vorrebbero meno eletti ma anche essere consultati dal potere tramite referendum, aumentare il numero di sbirri e giudici e rimettere ospedali, treni e uffici postali nei paesi, vietare il glifosato e riaprire fabbriche ovunque, integrare gli immigrati docili e cacciare via i numerosi rifugiati a cui è stata respinta la domanda di asilo, ripristinare l’ISF [imposta sul patrimonio] ma pure che le banche smettano di vessare i commercianti. In breve, più le persone si uniscono a questo movimento e più le rivendicazioni si allungano, in un guazzabuglio eterogeneo di luoghi comuni e piccole riforme di destra e di sinistra che sono il segno distintivo degli schiavi che cercano di riverniciare la propria gabbia. Nulla di sorprendente nel chiedere un cambiamento purché nulla cambi, dopo molti decenni di spossessamento, di ristrutturazioni produttive e di addomesticamento tecnologico a partire dall’ultimo tentativo di assalto al cielo degli anni 70. Nulla di sorprendente, ma un gioco più aperto di quanto non sia stato nel corso dell’ultimo decennio, rivolto solo ai meteorologi impauriti più propensi allo status quo democratico e ben oliato che alle possibilità di uno sconvolgimento a tutti i livelli, a meno che, naturalmente, la famosa rottura non avvenga di colpo, magica e pura, gentile e senza processi o superamenti.

Ma ora, il militante antiautoritario pur abituato ad ingoiare tutto in materia di rivendicazioni riformiste per mescolarsi ai movimenti di lotta, questa volta non vi rileva sufficienti luoghi comuni conosciuti. Passi per il rifiuto dei licenziamenti o la chiusura di una fabbrica che macina vite ed avvelena — sapete, è la lotta di claaasse. Passi per le case popolari e le altre gabbie amministrate in centri specifici (per i senzatetto, i richiedenti asilo, ecc.), sapete, è urgente togliere i poveri della strada. Passi per un processo e delle perizie eque con l’aggiunta di qualche sbirro in carcere, sempre che venga detto in altro modo e portato avanti da famiglie. Passi per il rifiuto dell’ingresso selettivo nel meccanismo che formerà i futuri dirigenti, è l’opportunità di interrompere dei corsi senza intaccare la gerarchia sociale. Passi per il rifiuto di una nocività perché troppo così o non abbastanza colà, purché il e il suo mondo non arrivi ad infrangere la bella composizione cittadinista coi pianificatori dell’esistente.

In tutte queste occasioni e in molte altre, dal militante che traina il suo programma a quello che rompe vetrine mirate, in genere stanno attenti a difendere la propria attività facendo una distinzione fra il vertice e la base del movimento, fra le tristi richieste degli organizzatori e la collera dei presenti, si cerca di bilanciare il pretesto iniziale per rialzare la testa con le possibilità di rompere la routine dello sfruttamento, si soppesano gli ingredienti del casino per far crescere la propria parrocchia. Insomma, si fa politica in dialettica con la sinistra: si sensibilizza, si radicalizza, si socializza, si dilaga, si recluta e si fa il brutto anatroccolo della grande famiglia progressista. Qualche volta si sogna persino di destituire il Presidente per poter fare a meno di una rottura rivoluzionaria violenta. Ma che fare quando non c’è una base o un vertice e nemmeno rivendicazioni educate ed unitarie, ma una proliferazione di rabbia diffusa (dai pensionati ai liceali, dai blocchi diurni alle sommosse serali)? Quando non c’è un soggetto politico da sostenere o su cui contare? Quando Facebook diventa un sostituto dell’assemblea ed il corteo di testa non ha più il monopolio dello scontro in manifestazione? Quando le parole che vengono fuori sono più volgari, gli argomenti più confusi ed i simboli più rozzi? Perché all’improvviso, col movimento dei gilet gialli, il militante antiautoritario riscopre il mondo che lo circonda! Lui che ieri andava in estasi davanti alla cosiddetta Primavera araba, senza che l’abuso «interclassista» della parola «popolo» («il popolo vuole la caduta del regime» era uno degli slogan più presenti) e la profusione di bandiere nazionali costituissero un ostacolo irrimediabile, oggi è disgustato dagli stessi limiti dalla sua parte del Mediterraneo. Lui che ieri si era mobilitato contro la Loi Travail o durante lo scorso Primo Maggio senza ritenere la propria presenza incompatibile con quella di bandiere infiorettate di falci e martelli, o con quella di striscioni di testa parigini a volte ambigui (con punchline di rapper, reazionari da ogni punto di vista) rimane oggi stordito dallo stupore per i tricolori e gli slogan populisti.

Volontariamente cieco, non aveva mai notato i numerosi tricolori nelle iniziative di France Insoumise nel corso delle ultime elezioni (a Place de la Bastille a Parigi il 18 marzo 2017 o nel Vieux Port di Marsiglia il 9 aprile 2017), né quelli srotolati da centinaia di migliaia di persone nelle strade durante la vittoriosa epopea dello spettacolo calcistico del luglio 2018 (sventolati all’unisono da giovani poveri delle città e da vecchi ricchi razzisti). No, il militante è una persona semplice come la sua ideologia da supermercato bio. Un emblema immondo = un fascio, punto. Sì al vandalismo militante nel corso di manifestazioni inquadrate, gomito a gomito all’interno di black bloc con stalinisti, maoisti o neo-blanquisti organizzati, ma non nel corso di raduni sparsi senza organizzatori né percorsi definiti, dove logicamente potrebbero essere presenti dei fascisti organizzati. Per i militanti più allergici ai fascisti organizzati che agli stalinisti organizzati, più ai partiti che ai sindacati, il prurito sembra essere piuttosto a corrente alternata, a meno di rivedere il concetto delle prospettive antiautoritarie, beninteso. A corto di argomenti per tenere a distanza questo movimento incontrollato, non è nemmeno sorprendente che alcuni limitanti siano venuti a balbettare, come banderuole disorientate, il classico ritornello del potere: quando per riflesso condizionato capita loro di mescolarsi al casino di un movimento sindacale o di sinistra, imprecano contro chi li accusa di «recuperare il movimento» o di essere «elementi esterni». Diamine, no, loro portano semplicemente il proprio contributo alla sommossa. Ma allorché dei liceali, degli anarchici o dei teppisti si azzardano a farsi vedere nell’attuale baraonda iniziata dai gilet gialli per agire a modo loro e a proprio piacimento, riprendono a propria volta l’antifona sugli pseudo-recuperatori di un «movimento intrinsecamente proto-fascista». Nella corsa alle categorie del potere, i cacciatori-raccoglitori (ops, i «vandali-saccheggiatori») sono per forza qualcos’altro! E noi che credevamo ingenuamente che un movimento fosse innanzitutto ciò che ognuno fa e ciò che realmente vi accade, al di là delle sue rappresentazioni e dei soggetti politici fantasticati.

Alla fine, per una settimana o due, è sembrato più prudente restare su un terreno familiare a diversi antiautoritari, mosche cocchiere del famigerato campo del progresso sociale, foss’anche sindacalista della CGT-guardie carcerarie o SUD-Interni, tendenza patriottarda della Repubblica o politicante degli Indigeni, piuttosto che affrontare l’imprevisto di una contestazione aperta senza dirigenti né schemi prefissati. Prima ovviamente di gettarsi dentro, ma nel modo in cui erano usi fare prima, aggiungendo pietra su pietra, tag su tag, e così via. E poi, molto rapidamente è comparsa quella magica locuzione, «situazione pre-insurrezionale», che da sola giustifica il salto operato, anche tappandosi un po’ il naso. Immergersi con gaudio nel gregge rosso o tuffarsi a malincuore nel gregge giallo, partecipare per influenzare o restare spettatori per mantenere le mani pulite, ecco un buon esempio di false dicotomie, perché i termini stessi della questione sono falsati. A nostro avviso, la questione in effetti non è mai se partecipare o meno ad un movimento, se esserne attori o spettatori, ma unicamente agire per distruggere l’esistente in ogni circostanza, con o senza un contesto particolare di lotta, sia che gli altri si muovano per questa o quella briciola iniziale più o meno (in)interessante, purché lo si faccia con le nostre idee, pratiche e prospettive. Dentro, fuori o vicino a un movimento, a contatto con esso o molto alla larga. Da soli o con molti altri. Di giorno come di notte. Quanto alla questione insurrezionale, è vero che se si vuole abbattere lo Stato e distruggere ogni autorità, appare una premessa indispensabile, che non sarà comunque opera dei soli anarchici e dei rivoluzionari (d’altronde è per questo motivo che gli autoritari neo-blanquisti trascorrono il loro tempo a cercare di cavalcare lotte e movimenti, per trovare una massa da manovrare, o che altri tentano costantemente di reclutare seguaci). Le rivolte e le insurrezioni scoppiano già senza di noi, e quando non si ha né desiderio di dirigere tali movimenti né disprezzo per gli schiavi che si ribellano per le proprie ragioni, la domanda interessante da porsi diventa: cosa vogliamo fare noi? Agire già senza aspettare nessuno, qui ed ora, non esclude infatti la possibilità di farlo a maggior ragione quando esplode una situazione di casino caotico. In ogni caso non quando abbiamo già riflettuto un minimo sulle nostre prospettive. Quando si è quindi in grado in piena autonomia di cogliere le occasioni che si presentano per cercare di realizzare i nostri progetti sovversivi.

Fonte: Avis de Tempetes