Dialogo/Intervista con il compagno Gustavo Rodríguez (3° e ultima parte)

Dialogo/Intervista con il compagno Gustavo Rodríguez (3° e ultima parte)

Potete leggere la 1° parte dell’intervista QUI e la 2° parte QUI

C.I. Abbiamo visto che hai contribuito al libro ” Come viviamo dall’anarchia ai disordini e alla lotta per il potere in Bolivia”, smascherando il “pachamismo” intellettuale e il ruolo degli anarco-socialisti della regione. In Bolivia, sembra che sotto la bandiera nera ci siano solo gruppi neoplatonici e pachamama che accarezzano la sinistra, con pochissimi compagni critici su questa deplorevole vicenda. Dicci di più sul tuo contributo e su cosa ti ha spinto a scrivere il prologo per questo libro, recentemente edito dai boliviani.

G.R. Fin dagli inizi degli anni Ottanta, mi sono tenuto in contatto con alcuni ambienti antiautoritari della regione. Ho anche avuto l’opportunità di partecipare ad alcuni incontri durante i miei soggiorni in Bolivia, che mi hanno permesso di avvicinarmi a diversi sviluppi libertari. Parlo dei tempi di Líber Forti e (un po’ più tardi) dell’amato Boris. Tuttavia, come quasi in tutta l’America Latina, nella regione boliviana a partire dagli anni ’50 ci sono state innegabili carenze dal punto di vista anarchico; un’epoca in cui il sindacalismo libertario, oramai logoro, finì i suoi giorni assorbito dalla verbosità nazionalista e fu integrato (senza molta considerazione) nella Centrale Operaia ufficiale boliviana (COB), lasciando alcune espressioni marginali al di fuori del controllo dello Stato, senza alcuna pretesa di protesta. Per finire, con il fiorire antiautoritario degli anni ’60 e ’70, non è riuscito ad andare oltre l’essere considerato un aneddoto senza grande importanza, in quanto la regione si è trovata immersa nel dilatarsi e restringersi della guerra fredda, dove tutte le lotte sono state subordinate al cosiddetto antimperialismo e alle strategie di decolonizzazione e di liberazione nazionale, delineate all’Avana, a Pechino e a Mosca. Come se non bastasse, alla Bolivia fu affidato proprio il compito di essere la sede sperimentale del Foquismo e la terra che avrebbe dato sepoltura al venerato San Ernesto de la Higuera. Circostanze determinate e circoscritte ad uno scenario storico che condannava all’ostracismo ogni possibilità di incidenza realmente anarchica.

Solo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta la “A”, che circolava nell’estetica punk, avrebbe guadagnato presenza, dando vita a piccoli sviluppi libertari e di controcultura che, in seguito, si sarebbero susseguiti, allargando le loro arterie dopo il fallimento del “socialismo realmente esistente” e l’arrivo di un’intera fauna di accademici marxisti e indigeni che rispolverarono senza scrupoli l’immagine del nonno anarco-sindacalista e si misero la maglietta libertaria in cerca di nuove borse di studio per la ricerca e il finanziamento delle loro pubblicazioni, che si trattasse della Banca Centrale o della Banca Mondiale, in quanto non avevano alcuna ponderatezza. In questo senso, ricordo un documentario – all’inizio degli anni Novanta – montato da uno di quei gruppi accademici “libertari”, sulla storia della Federazione delle donne (FOF) e, con mia sorpresa, si chiudeva con un elogio francamente ripugnante del nazionalsocialismo dei fratelli Castro.

(Non è un caso che io mi riferisca a “sviluppi libertari” e non a iniziative anarchiche. Credo che ogni parola abbia un suo peso specifico. E, nel caso della parola Anarchia, è ancora più significativo: non c’è una parola che la sostituisca. I “sinonimi” che hanno tentato di sostituirla non esprimono la stessa cosa, raggiungono a malapena innocue approssimazioni che non aggiungono la dimensione della parola e, cosa peggiore, coprono deviazioni e accomodamenti politici.)

Solo all’inizio del XXI secolo, alcuni gruppi della regione cominciarono ad assumere il ruolo di “anarchici”, molti dei quali più vicini al neopiattaformismo e all’anarchismo – importati da Montevideo (F.A.U.) e Santiago del Cile (C.U.A.C.) – come nel caso di Juventudes Libertarias. Allo stesso tempo, quelle intenzioni accademiche decoloniali, di cui ho parlato prima, e i rituali pachamamaisti di gruppi folcloristici come il cosiddetto Tojpa Libertaria, hanno ricevuto “riconoscimento” nei nostri collettivi. Logicamente, con l’arrivo al potere del Movimento verso il socialismo (MAS) e del primo presidente indiano, questi settori proto-marxisti e indigeni non hanno esitato ad assumere la tipica “solidarietà critica” con il “capitalismo andino” e ad entrare nel gioco del sistema. In questo stesso contesto, nuove distorsioni anarco-bolsceviche del tipo del “Collettivo giovanile anarco-comunista” (C.J.A.C.), dell'”Organizzazione anarchica per la rivoluzione sociale” (OARS) e della “Rete verde per la liberazione totale” hanno iniziato a prendere vita. Quest’ultimo, facendo uso di un nome molto “particolare”, usato con l’intenzione di confondere la scena insurrezionale locale.

E’ stato proprio in quell’epoca che la tendenza anarchica informale e insurrezionale ha acquisito il potere come controproposta nella regione boliviana, confrontandosi – di fatto – con il capitale e lo Stato, senza fare la minima distinzione nel colore ideologico dell’autorità al potere. Ciò ha portato non solo alla persecuzione, all’esilio e all’incarcerazione di uomini e donne solidali con la tendenza, ma anche all’accusa, al rimprovero e alla denuncia di quei pachamamaisti libertari, che hanno etichettato la conseguente pratica anarchica come “anarco-terrorismo”, come l’impresentabile Carlos Crespo e simili. Senza dubbio, l’incarcerazione del compagno Henry Zegarrundo è la prova più forte di questo infame complotto, e la prova più convincente del ruolo contro-insurrezionale di questi opportunisti.

È proprio in questi contorni dello sviluppo della tendenza anarchica informale nella regione, e dell’attacco sistematico dei libertari al servizio del miglior offerente, che è stato concepito il libro “Come viviamo dall’anarchia ai disordini e alla lotta per il potere in Bolivia”, per cui avevo molte ragioni per acconsentire volentieri a scriverne il prologo e per sostenere, dalle mie limitate possibilità, la sua intuizione. Così potrei dire, senza pentimenti, che le mie motivazioni sono incentrate al cento per cento sull’affinità, sulla solidarietà diretta e, soprattutto, sul mio più sincero riconoscimento di quel pugno di compagni che hanno aperto la strada all’insurrezionalismo nelle condizioni più avverse ma che, nonostante ciò, hanno continuato (e continueranno) a diffondere il fuoco anarchico.

C.I. In tutti i tuoi testi insisti sulla necessità di un nuovo paradigma sovversivo per dare vita all’anarchismo del nostro tempo, in contrapposizione a quello che chiami “anarchismo ottocentesco”. Chiedi l’attuazione di un “anarchismo contemporaneo” che risponda alle esigenze della lotta anarchica del XXI secolo. Questa distinzione ha causato una certa confusione tra alcune persone, che hanno visto nella tua proposta un allontanamento da quello che si potrebbe chiamare “anarchismo classico”. Lo hanno interpretato come un allontanamento dall’Idea, nel senso dei principi originali. Che ne pensi?

G.R. Sono molto dispiaciuto che le mie preoccupazioni stiano causando ad alcuni colleghi una certa inquietudine. Sicuramente non ho saputo spiegarmi bene. Quando ho sostenuto il motivo per cui comprendo la necessità di un nuovo paradigma anarchico, ho incitato alla confusione involontaria. Un’altra possibilità che potrebbe alimentare questa confusione è il bagaglio teorico-pratico da cui questi compagni partono; cioè, qui è essenziale sapere da quale “bagaglio” estraggono le loro posizioni. Senza dubbio, questo ci aiuterebbe a capire cosa motiva la loro confusione. Se le loro convinzioni riposano al sicuro nella scatola dei ricordi, è molto probabile che assumano “l’Idea” – come dicevano ai tempi dei miei nonni – come una sorta di dogma indiscutibile e, pertanto, gli viene impedito di riflettere sulla scadenza di molti dei postulati dell'”anarchismo classico”.

Nel contesto babilonese in cui si colloca il “movimento” attuale, è comune trovare le posizioni più varie che si possano immaginare, ma è quasi sempre una costante che tutte queste posizioni rimangano bloccate al capezzale della tradizione; cioè nell’ortodossia. E quando si vive immersi nel dogma e nell’ortodossia, si ricorre spesso al sospetto e persino al disprezzo, invece di impegnarsi in scambi e feedback. È un vero peccato, ma questo è l’atteggiamento di molti colleghi nei nostri collettivi, che impedisce loro di rendersi conto di quanto siano obsoleti i loro postulati e dell’innocuità del loro attivismo. Se così fosse, dovremmo raccomandare la loro ubicazione nel trapassato prossimo. Una volta che ci troviamo nel presente, è molto più facile spogliarsi di tutti i concetti pre-etichettati e abbandonare l’inerzia che guida questa lotta circolare.

E sì, vado sicuramente ben oltre un allontanamento dall'”anarchismo classico”; tuttavia, la mia proposta è un esercizio senza compromessi di riaffermazione anarchica che riprende la nostra critica radicale di tutto il potere, e ratifica il nostro impegno per la liberazione totale. Difendo la tesi di un anarchismo contemporaneo, emancipato dal passato e alieno da ogni tentativo di resuscitare strategie e concezioni obsolete.  Sono a favore dell’oblio; del fare tabula rasa.

Se davvero aspiriamo alla distruzione di tutto ciò che esiste, dobbiamo ripartire da zero e abbandonare ogni speranza utopica. È urgente scrollarsi di dosso il cristianesimo laico e lo scientismo marxiano che abbiamo ereditato dal XIX e XX secolo. Dobbiamo dare una chance al secolo scorso per poter agire nel presente, assumendo il carattere permanente di distruzione anarchica, abbandonando la visione apocalittica – così integrata nei nostri collettivi con un mimetismo rivoluzionario -, sempre in attesa dell’evento salvifico che porterà il nuovo regno della libertà dopo la distruzione del vecchio mondo. Solo se siamo consapevoli del fatto che il potere si rinnova costantemente, possiamo intraprendere la nostra lotta, qui e ora.

Per questo motivo ritengo molto importante sviluppare il dibattito all’interno dei nostri collettivi. E non mi riferisco all’universo anarchico in generale, ma alla nostra galassia, a livello della stessa tendenza informale e insurrezionale, dove talvolta ci scontriamo con ogni arcaismo pietoso. Proposte degli anni Sessanta e Settanta ispirate al Foquismo e a masturbazioni simili, ancorate al millenarismo laico: vere e proprie trincee che ostacolano l’impulso della lotta anarchica dei nostri giorni. Fortunatamente, non sono l’unico ad avere queste preoccupazioni. Un’intera orbita di affinità anarchiche intorno al pianeta ha preoccupazioni simili e riconosce anche l’urgenza di un nuovo paradigma anarchico, ragion per cui la possibilità di gettare le basi di un paradigma rinnovato non potrà che rafforzarsi in una rete multidimensionale e irregolare, in cui possano convergere nuovi sviluppi teorici e pratiche distruttive anarchiche, nel contesto della nostra attuale storicità.

A tal fine, lanciamo Anarchic Correspondences, un sito web multilingue che non vuole diventare un nuovo “soggetto” organizzativo, ma vuole essere uno “spazio” di dibattito e un “luogo d’incontro” internazionalista che faciliterà lo sviluppo della tendenza informale e insurrezionale a tutte le latitudini. Con questo obiettivo, è stata redatta a più mani una proposta di Manifesto anarchico per il XXI secolo, che è già stata tradotta in diverse lingue (spagnolo, basco, italiano, inglese, francese, greco, francese e polacco) e che sarà accessibile sul sito web per essere esaminata e discussa all’inizio del prossimo anno (2021). Forse, sulla base di questi dibattiti e di possibili approcci successivi, questo paradigma anarchico, e le sue pratiche immediate, potranno essere concretizzate. Tuttavia, sono consapevole che sarà un compito arduo, tenendo conto dell’abisso teorico-pratico che separa le due correnti predominanti all’interno del cosiddetto insurrezionalismo dei nostri giorni. Rimangono ancora – nel cosiddetto insurrezionalismo classico – vecchie concezioni, legate alle ebbrezze marxiane del secolo scorso e a tutta la broda comunista ereditata dal comunismo di Dauvé e da simili cadaveri, con la loro fede laica nella realizzazione del comunismo libertario.

C.I. Un’altra preoccupazione che sorge in molti compagni è il tuo impegno a favore dell'”anarchismo distopico”, come hai scritto nel tuo libro “L’esplosione della rabbia: l’anarchismo nel XXI secolo”, pubblicato in Cile dai compagni delle Edizioni Internazionali Nera. In particolare, cosa intendi con l’espressione “anarchismo distopico”?

G.R. Prima di tutto devo chiarire che non ho mai fatto alcun riferimento all'”anarchismo distopico”.  Apparentemente, questa “inquietudine” nasce da una rapida lettura del testo. Naturalmente, la parola “distopico” ha una definizione molto ristretta secondo i censori della lingua spagnola. Se consultiamo il dizionario del RAE, vedremo che esso specifica: “rappresentazione fittizia di una società futura con caratteristiche negative che causano l’alienazione umana”. Ma tutti noi sappiamo che questa mostruosità prescrittiva e misogina – come dicono i compas dello Stato spagnolo -, “è come un pugno nell’occhio”. Logicamente, da quel significato la parola è stata usata nella letteratura di fantascienza, ed è anche molto ricorrente quando si descrive l’attuale società ipercapitalista come un’epoca segnata dall’introiezione della tecnologia nella nostra psiche e dalla colonizzazione delle macchine, dove l’unica resistenza possibile, e l’ultimo rifugio, è la schizofrenia.

In realtà, mi avvalgo di un’invenzione idiomatica senza pretese. In “The Explosion of Rage: New Anarchic Sedition in the 21st Century”, uso l’espressione “tensione distopica” per descrivere l’Anarchia ai nostri giorni, come un potere emancipatorio negativo, che supera tutte le classificazioni utopiche. Forse avrei dovuto mettere la parola “distopico” in corsivo o, in mancanza, separarla con un trattino (dis-utopico) per evitare di confonderla con “distopico” o “distopia” in una lettura veloce. Certamente, in questo caso uso il prefisso “dis” che indica la separazione invece della negazione. Vale a dire, nello stesso senso delle parole “distrarre” e “diffondere” e non nel senso della negazione o del contrario, come nelle parole “malcontento”, “disgusto” o, “distopico”. Quello che cerco è un chiaro allontanamento dai progetti utopici, e mi è sembrato conveniente usare questa espressione in un’unica parola, dove questa intenzione era implicita.

C.I. A seguito dei dibattiti generati dalla lettura del tuo opuscolo “Covid 19: Anarchia in Times of Pandemic”, alcuni colleghi mettono in guardia da un certo “pessimismo anarchico” nelle tue parole, in particolare nell’ultima sezione del testo (“La capacità euristica dell’Anarchia”), con approssimazioni al nichilismo. In questo contributo dai anche una strizzatina d’occhio alla “prospettiva anarco-nichilista queer”, mettendo in evidenza i contributi di Jack Halberstam, Lee Edelman e della rivista Baeden. Hai optato per un certo “pessimismo anarchico”? Questa intenzione nichilista, che alcuni hanno sottolineato, è realmente presente ne tuo testo?

G.R. È curioso, recentemente, in uno scambio epistolare con il compagno Costantino Cavalleri, ha commentato di aver notato un certo “pessimismo” nelle mie parole. Credo che questo pessimismo di cui sono accusato, sia più legato alla nostalgia del passato – che tanto ripudio – e, alla nuova etichetta “anarco-pessimista”. I neo-pessimisti, si servono di tutto un pasticcio teorico che va dalle idee del romanticismo, alla paglia cosmica di Eugene Thacker, alla lettura veloce del vecchio Labadie (così veloce, che conservano solo il titolo di una delle sue più recenti riedizioni), al volantino sulla decolonizzazione, alle istruzioni non per costruire una potente bomba, ma una capanna di legno. Tutta questa minestra, naturalmente, viene degustata con in sottofondo il suono di un tamburo azteco, perché il tempo passato è sempre migliore del presente.

Credo che chi mi accusa di un certo “pessimismo” nelle mie parole confonda il pessimismo con lo scetticismo.  Questo è il mio contributo, si nota un “anarchismo scettico”, in senso etimologico. Questo è proprio quello che cerco di incoraggiare sempre. Vale a dire, un anarchismo riflessivo, motivato dal sospetto e dalla diffidenza nei confronti di quell’anarchismo progressista che si presume sia il coronamento della “marcia dell’umanità”; quell’anarchismo concepito come un sistema socio-politico che fantastica sul suo impianto rivoluzionario. Anarchismo scettico, aspira a mantenere viva la tensione disutopica, attraverso l’insurrezione permanente e la diffusione dell’illegalismo.

Per quanto riguarda il “cenno” alla “prospettiva anarco-nichilista queer” e i contributi di Jack Halberstam, Lee Edelman e della rivista Bæden, si dovrebbe iniziare separando il grano dalla paglia. In altre parole, dobbiamo scoprire chi è chi. In questo senso, la rivista Bæden si dichiara anarco-nichilista e Halberstam – nonostante il suo lavoro nell’ambiente accademico – mostra un’affinità con le posizioni anarchiche, cosa che non è sicuramente il caso di Edelman (né di Heather Love), anche se è necessario riconoscere la sua insistenza sulla negatività, il rifiuto alla riproduzione, alla famiglia, al genere, al futuro, e il suo incitamento alla queerness antisociale e, anche se tutti questi fattori vengono chiaramente esacerbati, vanno ad influire direttamente sul dominio e a ledere i principi civilizzatori. Tuttavia, anche se è evidente che su queste posizioni esiste un’abbondante produzione teorica, con alcune onorevoli eccezioni, c’è una certa mancanza di coerenza nella pratica.

Sullo stesso piano dell’anarchismo queer – inteso come tensione costante contro la normalità e la narrativa etero/patriarcale/monogama e religiosa dominante – si devono includere anche espressioni come Bash Back o FBI, e individualità come Flower Bomb e altre, che sono fautrici dell’insurrezione del genderfuck e dell’illegalismo contemporaneo. La grande sfida è far convergere questi nuovi sviluppi teorici, e tutte le pratiche sovversive, in un nuovo paradigma anarchico capace di portare ossigeno alla teoria anarchica e di colpire dove fa male.

Infine, vorrei fare un paio di osservazioni sul presunto “intento nichilista” dei miei contributi. Prima di tutto, dovremmo essere molto precisi sul significato del termine nichilista ai giorni nostri. L’anarchismo non è sicuramente un’entelechia recente; al contrario, questo concetto è presente nei nostri collettivi fin dai primi anni del XX secolo. Basti citare i colleghi della statura di Abele Rizieri (meglio noto come Renzo Novatore) e Bruno Filippi; non va però confuso – come spesso accade – con il mal definito “nichilismo russo”. È deplorevole che nei nostri circoli sia stato dedicato tanto inchiostro e carta ai Narodniki, confondendo il movimento populista russo degli anni Settanta e Ottanta con la teoria e la pratica nichilista. Questa distorsione ha origine nella letteratura russa, con il romanzo “Padri e figli” di Turgenev e, molto più tardi, con la narrazione moraleggiante del conte Tolstoj, ma in realtà il vero nichilismo – come l’anarchismo – è l’antitesi del populismo russo. Senza dubbio, il populismo è l’essenza del fascismo; non per niente il bolscevismo ha nutrito i suoi ranghi con le sue legioni.

Il vecchio Bakunin, con la sua visione intuitiva, ne era già consapevole, ed è per questo che ha finito per dire a Nechaeyev di andare all’inferno, anche se non è riuscito a liberarsi completamente del populismo. Ma è stato Kropotkin, che ha aperto le porte dei nostri circoli al cosiddetto “nichilismo russo”, che dal suo intrinseco nazionalismo ha affermato la confusione, ratificando i populisti russi come “nichilisti” e, glorificando le virtù di quei borghesi liberali che idolatravano le miserie del villaggio e desideravano fondersi con il popolo (Vnarod!).

Ciò che è più penoso è la rivendicazione contemporanea dei Narodniki sulle loro presunte posizioni anarco-individualiste. Un’autentica aberrazione; i Narodniki sono, come indica il loro nome, “amanti del popolo”. Tutta la retorica romantica dell’intellighenzia populista, con la sua Marcia al Popolo, che esalta i valori della comunità contadina, i costumi egualitari e l’intrinseca moralità del contadino che “ha rinunciato all’egoismo, alla sua individualità, esprimendo nel comune accordo il vero amore tra fratelli” – come afferma il gruppo Volontà del Popolo -, dovrebbe essere francamente ripugnante per qualsiasi individualista anarchico di tutti i tempi.

C.I. Nel tuo testo “Le ribellioni della miseria”, affermi che “Lontano dalla retorica di sinistra che insiste contro ogni evidenza che “finché ci sarà miseria ci sarà ribellione” (…) È sempre più assiomatico che la “miseria” produce solo “miseria”. Vale a dire la servitù, l’accattonaggio e persino la perdita di ogni dignità. Come dice il proverbio, “la fame è un cattivo consigliere”. (…). Ecco perché, invece di creare ribelli e refrattari, la miseria genera malattie, malnutrizione, mortalità, paura, sfruttamento sessuale, corruzione, soldati, polizia, delatori ed elettori: la miseria umana. Ecco perché la miseria viene esaltata dalla sinistra, perchè sa che fra le sue fauci si sta preparando il futuro, cioè si stanno contando i voti futuri”.

Queste parole hanno suscitato molte reazioni tra i compagni cileni, e sono state addirittura motivo di indignazione, dal momento che una gran parte dei gruppi e degli individui antiautoritari hanno come baluardo di lotta proprio la frase “finché esisterà la miseria ci sarà la ribellione”. Come ti poni di fronte all’indignazione dei compagni antiautoritari della regione cilena?

È noto il ruolo svolto da alcuni fronti extraparlamentari di sinistra come il Movimento Mapu Lautaro, il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR) e il Fronte Patriottico Manuel Rodríguez (FPMR) nella storica lotta contro la dittatura di Pinochet, e successivamente contro il regime democratico imposto dal neoliberismo, e come la loro esperienza insurrezionale sia servita come base per il successivo consolidamento dell’attuale movimento antiautoritario nella regione, passando il testimone della lotta ai nuovi gruppi di giovani ribelli.

G.R. Recentemente, alcuni amici cileni mi hanno scritto commentando che questo testo – estratto dall’opuscolo “The Aroma of Fire: The Rage of Despair in a Triple World” – ha causato un grande rifiuto da parte di alcuni gruppi sovversivi antiautoritari, che hanno identificato un “piano d’attacco” nelle mie parole, che ha dato origine a una sorta di riaffermazione di quello slogan (“finché esisterà la miseria ci sarà la ribellione “) in tutte le note e i comunicati pubblicati dopo il mio contributo.

Come si diceva nel mio quartiere: mi pare si stia confondendo la ginnastica con la magnesia. Innanzitutto, devo chiarire che la mia intenzione, non è mai stata quella di attaccare coloro che diffondono questo motto, ma di incitare alla riflessione sul suo significato, orientando i nostri passi verso un dialogo fraterno alla ricerca di nuove posizioni veramente innovative, che permettano di far vivere la vita dell’Anarchia, e impediscano qualsiasi recupero sistemico. Tali intenzioni, infatti, sono state espresse nella trilogia “Lettere a un cileno sulla situazione attuale (Parte I, Parte II, Parte III)”, un testo che ho dedicato anche al compagno Joaquín García Chanks e a Marcelo Villarroel Sepúlveda, al quale si attribuisce la paternità dello slogan.

Evidentemente, non gli dedicherei mai un testo, né mi metterei mai in “dialogo” con il sedicente “Comandante Ramiro” (Mauricio Hernández) o qualsiasi altra merda del genere, non importa quanta esperienza abbia (nel Partito comunista) o quanti anni sia stato in prigione. Se il progetto rivoluzionario a cui aspira Hernandez fosse stato realizzato – invece di dichiararsi in bancarotta – la lista dei compagni anarchici da fucilare sotto i suoi ordini sarebbe stata sicuramente più significativa. So che queste sono verità scomode per alcuni, ma non possiamo coprire il sole con un dito; ancor meno quando siamo impegnati nell’estensione della teoria e della pratica anarchica ai nostri giorni.

Ritengo inutile approfondire l’ineludibile distinzione che faccio con Marcelo, Juan Aliste e altri sovversivi antiautoritari che, a partire dagli anni Novanta, hanno rotto con il partito politico-militare autoritario in cui erano attivi e hanno iniziato un processo di evoluzione verso la teoria e la pratica antiautoritaria; prova di questa indiscutibile trasformazione sono stati il Collettivo Libelo (prima) e Kamina Libre (poi).

Ho sempre riconosciuto l’impatto che questa rottura ha prodotto su un’intera generazione di giovani che – insieme a loro – hanno iniziato a mettere in discussione l’autoritarismo implicito nella sinistra militarista e i suoi obiettivi dittatoriali post-rivoluzionari, optando per il percorso insurrezionale anarchico verso la liberazione totale. In questo senso, ritengo che assumere un “piano d’attacco” nelle mie parole, impedisca a priori ogni possibilità di dialogo fraterno, riducendosi alla catarsi di tirare fuori la lingua e continuando a spingere – per inerzia – la ripetizione di uno slogan della sinistra allendista, senza porsi ulteriori interrogativi.

Proprio in quel paragrafo, spiego esplicitamente perché non possiamo scommettere sulle “ribellioni della miseria”, indicando ciò che produce veramente la miseria. Una produzione significativamente lontana dall’affermazione dei ribelli e dei refrattari. Inoltre, esibisco chiaramente le ciniche intenzioni della sinistra riguardo ai miserabili, intenzioni che hanno sempre facilitato il recupero sistemico di questo tipo di “ribellioni”. Poi cerco – nei miei limiti teorici – di mostrare in modo sistematico quelli che sono stati i risultati delle “ribellioni della miseria” nel corso della storia delle lotte. Poi, è molto difficile per me capire il presunto “reato” e il presunto “attacco”, che essi identificano nelle mie parole che, in realtà, non sono altro che una conseguente ratifica di alcuni principi.

Per quanto riguarda le organizzazioni politico-militari ultra-autoritarie di cui parlano e il loro ruolo nella lotta contro la dittatura fascista del generale Pinochet, e la “democrazia a cartuccia” della Concertación, dobbiamo cominciare a chiarire chi è chi, e fornire un contesto storico per questa narrazione epica prima di prendere posizione su di essa. Innanzitutto, dobbiamo ricordare che il colpo di Stato contro il governo socialdemocratico di Salvador Allende e la sua “Unità Popolare” è stato progettato a Langley dalla Central Intelligence Agency (CIA) e, guidato dalle forze armate cilene, nel contesto del confronto tra i due imperialismi (URSS contro USA) nella cosiddetta “guerra fredda”. In questo stesso scenario si è sviluppata la risposta militare del blocco contrapposto, cioè all’interno di questa stessa logica di “confronto ideologico bipolare”, dove presero forma i guerriglieri che si opponevano al regime fascista. La seconda cosa che dobbiamo sottolineare è che i tre partiti sopra elencati hanno partecipato attivamente al governo di Chicho Allende. Nel caso specifico il Partito Unitario di Azione Popolare (MAPU), il Partito Unitario di Azione Popolare Operaia Contadina (MAPU/OC o MOC) e il Partito Comunista Cileno – dal quale il Fronte Patriottico Manuel Rodríguez (FPMR) è emerso molto più tardi come “ala armata” – facevano parte della coalizione elettorale dei partiti politici (Unità Popolare) che hanno portato Allende alla presidenza.

Ad eccezione del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (MIR) che, fin dalle sue origini, è stato concepito come un’organizzazione politico-militare di orientamento castro-guevarista, destinata a consolidarsi come partito di massa e ad essere l’avanguardia del settore operaio e contadino, nello sviluppo della lotta armata volta a prendere il potere politico e a stabilire la dittatura del proletariato; gli altri partiti, hanno optato per la via elettorale in sintonia con la proposta stalinista del “fronte popolare”, per non ricorrere alla “lotta armata” fino al rovesciamento del governo. Va anche sottolineato che il MIR, nonostante la sua retorica di guerriglia, all’arrivo di Allende, ha abbandonato la clandestinità e ha accettato di sospendere ogni azione armata e – su richiesta dei leader dell’Avana – ha iniziato a integrarsi nei “compiti” del nuovo governo, organizzando i “Fronti intermedi di massa” e mettendo la sua struttura militare al servizio della sicurezza di Allende.

Ad eccezione dei MAPU-Lautaro, un’organizzazione che pur con la sua marcata adorazione per la dittatura dei fratelli Castro, ha mantenuto una certa autonomia politica e, soprattutto, economica (nella sua fase paramilitare, come conseguenza della sua estrazione cattolica, si è dapprima allineata in modo strisciante ai postulati della teologia della liberazione e, molto più tardi (dopo il Congresso di Lima, 1983), ha assunto tutta la verbosità del Sentiero luminoso della “guerra popolare prolungata”, promuovendo lo slogan “Con la ribellione popolare, la presa del Cile va”) tutti i partiti paramilitari cileni sono stati finanziati e consigliati dai governi dell’Avana e di Mosca, e si sono sottomessi agli ordini dei fratelli Castro al servizio dello scacchiere politico della guerra fredda.

All’inizio degli anni ’70, ho incontrato alcuni dei futuri combattenti della FPMR, che sono stati ospitati durante la loro formazione ideologico-militare presso la Scuola del Partito Comunista (nel quartiere di La Coronela all’Avana), e più tardi ho incontrato alcuni di loro sulle montagne del Nicaragua durante i primi anni del governo sandinista. Coloro che non potevano sopportare il controllo e la manipolazione del governo castrista – anche senza rinunciare ai loro principi – fuggirono in Messico, negli Stati Uniti e in Europa. In realtà, era umiliante accettare le condizioni imposte. Ricordo aneddoti molto particolari di vedove di militanti CP e/o MIR a cui era proibito avere nuovi partner sessuali o risposarsi, perché dovevano essere mostrate al mondo come “le vedove della barbarie”.

Fu proprio questa “singolarità” che caratterizzò i MAPU-Lautaro, che mi permise di interagire negli anni ’80 con piccoli gruppi di giovani membri del MJL nei quartieri meridionali di Santiago, che erano arrivati nelle loro file delusi dall’autoritarismo del MIR o della Gioventù Comunista, e presto identificarono lo stesso marchio su questo partito. Ecco perché trovo poco plausibile l’affermazione che fanno nella loro domanda, perché credo che non ci possa essere un consolidamento del movimento antiautoritario sulla base della “esperienza insurrezionale” di queste organizzazioni ultra autoritarie, tanto meno, possiamo ricevere “il loro testimone”. La loro lotta non è la nostra lotta e i loro obiettivi sono diametralmente opposti ai nostri. Non c’è niente da ereditare o imparare, tanto meno imitare, da queste organizzazioni paramilitari. Né c’è nulla che li riconosca, se non l’imperdonabile infamia di aver trascinato migliaia di adolescenti e giovani alla morte, per soddisfare le pretese politico-ideologiche e le ambizioni di potere della casta dominante. Non possiamo farci ingannare dalle strategie di reclutamento del fascismo rosso. Dobbiamo uscire e affrontarli per quello che sono: i nostri eterni nemici.

Per anni ho denunciato questa strategia di reclutamento nei nostri circoli. A conferma di ciò, è disponibile un opuscolo, pubblicato in Cile da Ediciones Crimental, che è stato redatto in maniera piuttosto coinvolgente, con frammenti di discussioni e interventi miei in diversi forum su Internet all’inizio degli anni 2000. In quell’opuscolo, faccio apertamente notare come un intero residuo di “rivoluzionari professionisti” che una volta erano impiegati (e/o volontari) al servizio dell’URSS, della RDT, dell’Albania o di Cuba, vedendosi ideologicamente disoccupati dopo il crollo del comunismo realmente esistente, non avevano avuto altra alternativa che avviare un progetto di penetrazione – non solo in gruppi anarchici, ma anche in organizzazioni indigene – ponendosi come “rinnovatori” teorico-ideologici della “nuova” insurrezione, pronti a passare il testimone ai più giovani (e politicamente inesperti). Infatti, alcuni di questi opportunisti venivano chiamati per nome e cognome, come l’ex-mirista Jaime Yovanovic Prieto, meglio conosciuto all’epoca con il suo nome artistico (Profeso J.).

C.I. Dalla fine di maggio, in seguito all’assassinio di George Floyd da parte della polizia razzista nella città di Minneapolis, si è scatenata un’ondata di rabbia in tutti gli Stati Uniti, con grandi proteste del movimento Black Live Matter (BLM), tra cui ci sono stati numerosi scontri con le forze dell’ordine e gli apparati repressivi, attacchi ai simboli del potere e alla proprietà privata, e incendi dolosi. Trump stesso, come rappresentante della supremazia bianca al potere, ha indicato gli anarchici e gli Antifa come gli artefici di queste rivolte. Come hai vissuto questa situazione in queste terre? Come la vedi dal punto di vista insurrezionale anarchico? Come visualizzi questa sorprendente crescita del movimento anarchico e antifascista, e il suo grande protagonismo in queste lotte?

G.R. Inizierò rispondendo alla terza domanda che, in un certo senso, mi permetterà di rispondere anche alle domande precedenti, dando continuità alla strategia delle tre domande in una della vostra intervista.

Prima di tutto, penso che questa “sorprendente crescita del movimento anarchico e antifascista” che voi citate non corrisponda alla realtà dei fatti. Ciò che è curioso di questo “fenomeno” è che questa percezione di “crescita” si è registrata soprattutto all’interno di quei gruppi che utilizzano lo slogan del cosiddetto “anarchismo organizzato” e sostengono l’affermazione del “People’s Power” in Nord America. Come ho recentemente affermato in una lettera aperta indirizzata a un vecchio compagno di viaggio, diventato un guru dell’anarchismo in queste terre: sono preda dell’effetto Pigmalione. In altre parole, hanno creduto al mito. Trump non solo ha reso di moda il termine “anarchismo” – dandogli una popolarità senza precedenti in Nord America – ma ha anche etichettato l’intera sinistra liberale (che ha un piede nel Partito Democratico e l’altro nell’attivismo comunitario e nella “politica dell’identità”) sotto quell’etichetta, oltre a indicarli come il principale “nemico pubblico”. Non sorprende che questo discorso sia stato ingigantito nei media dell’alienazione di massa, attraverso canali come Fox News e altre emittenti televisive e radiofoniche alienate dal fascismo trombettista. Ma il paradosso di tutto questo, è che nel loro delirio quantitativo, questi gruppi hanno finito per credere al discorso che il nemico gli vende, affermando tale “crescita” e dando per scontato un aumento delle “tendenze libertarie” del movimento.

Hanno addirittura sovradimensionato lo stesso movimento Black Lives Matter come “movimento per l’emancipazione dei discendenti africani nella lotta contro il suprematismo bianco”; quando in realtà gran parte di questo è stato una messa in scena del riformismo afroamericano in collusione con il Partito Democratico che, ancora una volta, utilizza le uccisioni razziste della polizia al solo scopo di accrescere la propria influenza politica e posizionarsi nella nuova agenda democratica. Come sottolinea Flower Bomb, un anarchico di origine africana, “Molti politici d’identità sono più interessati a sfruttare il “senso di colpa bianco” per un guadagno personale (o anche finanziario) che a confrontarsi fisicamente con il modello organizzativo della supremazia bianca.” Certamente, questa è la triste storia dei leader della comunità, Jesse Jackson (padre e figlio) e nuovi opportunisti come Hawk Newsome e sua sorella Chivona, solo per citare un paio di nomi della nuova generazione. Certo, chiamare le cose con il loro nome non è politicamente corretto per questi raggruppamenti pseudo-anarchici che cercano avidamente “alleanze” e, con tali intenzioni, vedono “pratiche libertarie” in tutti i movimenti popolari.

C’è un settore del cosiddetto post-anarchismo (principalmente associato alla sfera accademica) che, riprendendo (e reinterpretando) alcune deviazioni dall’anarchismo classico, insiste nel prendere in considerazione altri movimenti contemporanei che accolgono nella loro retorica (non nella loro pratica) alcuni concetti con un chiaro marchio, come “azione diretta”, “sostegno reciproco” o altri concetti che non sono così anarchici ma che, grazie alle forti influenze marxiane – in particolare quelle della seconda metà dell’ultimo secolo -, sono state gradualmente incorporate nel nostro lessico e sono arrivate ad essere considerate a pieno titolo come “autogestione” e “autonomia” o, in tempi molto più recenti, come “potere popolare”, “democrazia diretta” e “autogoverno”.

Da questo punto di vista “populista”, questo settore vede (a torto) l'”opportunità” di sviluppare un “progetto rivoluzionario” di tendenza anarco-comunista, che metterà fine allo sfruttamento capitalistico in Nord America, attraverso il generalizzato “People’s Power”. Certo, si tratta di una proposta obsoleta, di chiara matrice stalinista, che è stata riciclata in modo precario per un consumo “libertario”. Mi riferisco a sette come la Federazione della Rosa Nera e iniziative virtuali del tipo It’s Going Down, che in assenza del vantato “soggetto storico” hanno perso terreno e, nel caso specifico qui, hanno finito per fare la campagna elettorale al Partito Democratico, o in Cile a promuovere una nuova Costituente o formare un partito politico (Sinistra Libertaria) ed entrare nel circo elettorale.

Sul tema dell'”Azione antifascista” (Antifa), bisogna fare alcune considerazioni, molto dolorose, a parte. La sua “visibilità” in Nord America è anche il prodotto della pubblicità che Trump gli ha dato, dichiarando questo gruppo – praticamente inesistente – una “organizzazione terroristica”, con il chiaro obiettivo di dare un “volto” al caos generalizzato, dopo l’attentato alla Stazione di Polizia di Minneapolis e quindi, minimizzare le manifestazioni di nichilismo, che andavano ben oltre la negazione infra-politica, articolando tutte le passioni represse. Superando anche l’opportunistico riformismo del Black Lives Matter, e la correttezza politica della “polizia della solidarietà”, cioè di quei promotori della “colpa bianca” – Flower Bomb, dixit – che hanno consegnato ad agenti federali compagni anarchici e manifestanti “incontrollabili”, accusandoli di essere “provocatori”, mentre chiedevano una protesta pacifica e politicamente recuperabile.

Per cominciare, l'”antifascismo” come identità politico-ideologica è sempre stato (ed è) una farsa al contrario. Altrimenti si troverebbero ad affrontare anche il fascismo rosso, invece di identificarlo come un “alleato”. Conosciamo già la storia degli Antifa, che in realtà non ha mai fatto molto per nascondere il logo originale, ereditato dal Partito Comunista Tedesco (KPD). È un segreto di Pulcinella che questa organizzazione stalinista è apparsa in Germania a metà degli anni Venti, e all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso – con finanziamenti diretti da Mosca – con l’obiettivo di affrontare il fascismo bruno nella sua eterna disputa per conquistare seguaci e militanti tra i lavoratori. Dopo la vittoria dell’Armata Rossa e l’occupazione sovietica della Germania orientale, gli stalinisti fecero rivivere il termine “antifascista” nella cosiddetta “guerra fredda” come sinonimo di “antimperialismo”, con l’intento di legittimare l’ideologia di Stato riaffermando la loro opposizione a tutto ciò che non era esplicitamente filosovietico. Negli anni Settanta, nell’ambito delle proteste contro la guerra del Vietnam, nella “Germania Ovest”, ci fu un altro tentativo di resuscitare gli Antifa, in quell’occasione i suoi architetti furano la Lega comunista maoista. La sua successiva apparizione fu 57 anni dopo, all’inizio del 1990 – prima dell’enorme aumento del neonazismo tra i giovani dell’ex Repubblica Popolare Tedesca (RDT) che (come reazione antitalinista) si dichiararono fieri eredi del, fino ad allora, nazismo illegale-; prese poi nuovamente forma sotto il nome di Autonome Antifa (M) all’Università di Gottinga, finanziata da alcuni reduci dell’epoca comunista, rilanciando la sua tradizione stalinista dopo la caduta del Muro di Berlino e la “riconciliazione tedesca”.

Qui in Nord America, l'”antifascismo all’americana”, che ha fatto notizia negli ultimi giorni, condivide gli stessi “geni” stalinisti dei suoi omologhi europei. La persona che sta veramente dietro questa versione rimasterizzata dell'”antifascismo” è il Partito Comunista Rivoluzionario Comunista Maoista (RCP). Proprio il “Rifiutare il fascismo” è una delle sue nuove facciate. Nella logica stalinista del “Frenetismo”, hanno inventato mille “coalizioni”, tra le quali: Refuse & Resist; La Resistencia; Not in Our Name; The World Can’t Wait; No Business As Usual e Refuse Fascism. Cambiano solo il nome ma ci si imbatte sempre nelle stesse facce. Cinque o sei membri del Comitato Centrale, che hanno assunto il ruolo di factotum a capo delle organizzazioni del fronte per “i diritti civili e le libertà democratiche”, “contro l’oppressione di genere o di orientamento sessuale”, “contro la pena di morte”, “contro la brutalità della polizia”, “per l’abolizione delle carceri”, “per la liberazione del popolo afroamericano”, “contro la deportazione degli immigrati latinoamericani”, “contro la distruzione della natura”, ecc. La strategia è quella di attingere il loro potere attraverso mille fronti eterodossi, nutrendosi di tutti gli stolti utili che sono e saranno utili alla loro causa. Come sottolineò Stalin: “L’eterodossia è un buon strumento nella lotta per il potere. Ma una volta conquistata, l’arma del potere è l’ortodossia. Certo, come direbbe il cantore, “se non fossero così temibili ci farebbero ridere, se non fossero così dannosi ci farebbero pena”, ma chi conosce la storia del maoismo sa quanto poco rispetto abbia sempre avuto per la vita e la libertà. Questi fascisti rossi hanno massacrato interi villaggi, riempito prigioni e campi di concentramento, torturato e mutilato persone per deviazioni ritenute “borghesi” (leggi i diversi orientamenti sessuali) e devastato la natura.

Tuttavia l’equilibrio dalla prospettiva anarchica informale e insurrezionale va oltre l'”antifascismo all’ americana”, la retorica maoista, l’illusione quantitativa e la visione populista delle sette neopiattaformiste, l’opportunismo del Partito Democratico, il vittimismo riformista del Black Lives Matter, e altre pratiche simili che non fanno altro che convalidare il dominio, l’autorità e persino la supremazia bianca; sono innumerevoli le situazioni che ci hanno dimostrato ancora una volta che la “non violenza” è un costrutto per il recupero sistemico. È stato anche dimostrato che il potere “nero”, “meticcio”, “latino” o “bianco” è l’antitesi della libertà e che – come sottolinea Flower Bomb – “la politica dell’Identità è l’amputazione dell’individualità, rendendoci entrambi obbedienti all’autorità collettiva dell’Identità, e creduloni di fronte al mito nazionalista della supremazia”. Allo stesso tempo, la leggenda – così radicata in Amerikkka – dell’impossibilità di affrontare il dominio, di ridurre in cenere una stazione di polizia o di diffondere l’illegalità è stata smantellata. Allo stesso modo, è stato abbattuto il mito della “lotta finale” e del “trionfo rivoluzionario” utopico, a conferma che l’insurrezione è (e sarà) permanente e che solo il fuoco può darci l’anarchia realizzabile. Tornando a Flower Bomb: “La rivolta non è avvenuta a causa degli insegnamenti di Mao o dei messaggi divini di Dio. Gli incendi, i saccheggi e gli attacchi alla polizia non hanno avuto bisogno del marxismo, né di una copia della prossima Insurrezione, né di un corso universitario di Storia dell’Anarchismo. Bastava solo l’espressione caotica della rabbia contro tutte le rappresentazioni dell’autorità. Fuori dai riflettori e lontano dalle prime pagine dei giornali, ci sono state innumerevoli espropriazioni di carattere chiaramente anarchico e innumerevoli attacchi al dominio; dal sabotaggio delle parabole satellitari e dei relè, all’incendio di furgoni di Amazon e delle auto della polizia. Tuttavia, abbiamo finito la benzina.

C.I. Che letture ci puoi suggerire per questi tempi così caotici?

Non sono mai stato uno che dà consigli. Ma forse ci sono alcune letture indispensabili per capire cosa sta succedendo. Penso all’opuscolo “An Obituary for Identity Politics” di Flower Bomb e alla necessità di rileggere “The Persistent Appeal of Nationalism” di Freddy Perlman, edito in spagnolo da Pepitas de Calabaza. Ritengo inoltre importante leggere “Tame Words from a Wild Heart”, una raccolta di testi del compagno Jean Weir, che, pur conservando alcune proposte dell’esperienza teorico-pratica dell’insurrezionalismo del secolo scorso, compie un passo significativo che pone le basi del paradigma anarchico del XXI secolo, abbandonando la visione utopica de “Le Grand Soir” e il risveglio delle masse, a favore di una pratica informale di attacco permanente. “Los bajo fondos en España (1960-1981)”, che è in realtà il quarto volume di “Fuera de la Ley” di True Crime Collection, edito da La Felguera. Il primo volume copre il periodo dal 1900 al 1923 e ci da molte informazioni sull’attività anarchica dell’inizio del XX secolo. Tutti e quattro i volumi sono degni di essere letti. Ho altri tre testi letterari che mi sono stati consegnati in questi giorni, e che alla prima occhiata promettono molto bene, nonostante siano politicamente scorretti. La prima è una raccolta di racconti di Guadalupe Netell, intitolata “Petals and Other Uncomfortable Stories”; la seconda è “Tales of Evil” di Alma Delia Murillo; e la terza è un romanzo di Guillermo Arriaga intitolato “Saving the Fire”. È interessante notare che tutti e tre gli scrittori sono messicani (sembra che mi stia venendo nostalgia delle tortillas). E già che siamo in tema di letteratura sbagliata, vi invito a leggere “33 Revoluciones”, un breve romanzo della mia amata Canek Sánchez Guevara, che ho letto quando era ancora un manoscritto e, nei giorni scorsi, una mia cara amica ha commentato che le è servito a scoprire quella Cuba profonda di cui è ancora proibito parlare in certi ambienti. In questo momento, mentre si avvicina il suo sesto anniversario, ho voglia di rileggerlo.

C.I. Vuoi aggiungere qualcos’altro?

G.R. Vorrei solo riaffermare che tutte le risposte che ho dato corrispondono alla mia visione dell’anarchismo del XXI secolo. In altre parole, non parlo a nome di nessuna organizzazione; inoltre, non faccio parte di nessuna struttura da più di vent’anni e sono convinto che non ne farò parte per il resto della mia vita. Io personalmente promuovo la tendenza anarchica informale e insurrezionale come un modo di lottare, cioè propendo questo particolare modo di concepire il confronto permanente con il Potere e cerco di estendere l’illegalismo anarchico ai nostri giorni. Di conseguenza, vivo l’anarchia senza dogmi e senza legami. Chiarito questo, non mi resta che ringraziarvi per l’opportunità di esporre senza censura (che, per quanto possa sembrare incredibile, è sempre più evidente nei nostri media), alcune mie considerazioni sulle possibilità di far vivere l’Anarchia, qui e ora.

Fonte: ContraInfo

Traduzione a cura di: Inferno Urbano