Dialogo/Intervista con il compagno Gustavo Rodríguez (1° parte)

Dialogo/Intervista con il compagno Gustavo Rodríguez (1° parte)

Con l’urgenza di dialogare sullo stato attuale dell’Anarchia, dal blog ContraInfo (C.I.) abbiamo effettuato un’intervista al compagno Gustavo Rodriguez (G.R.), motivato dal recente appello internazionale alla solidarietà con gli anarchici che continuano a lottare da dietro le sbarre, contro la società punitiva e rompendo la normalità imposta. Il compagno Rodriguez ha dato innumerevoli contributi all’anarchismo insurrezionale e informale e al cosiddetto illegalismo contemporaneo, evidenziando le acute analisi dei suoi ultimi contributi al dibattito in corso sulla “nuova normalità” imposta dal “Cyber Leviatano”.

C.I. Ciao Gustavo, è un piacere per noi accedere a questo scambio che ci permette di dialogare a distanza. Abbiamo notato che i tuoi contributi hanno riscosso una notevole approvazione a livello internazionale, essendo tradotti anche in diverse lingue; e logicamente, provocano anche delle reazioni contrarie, motivando così la riflessione e il dibattito all’interno del movimento. Ed è proprio con questo intento che abbiamo preparato questa intervista, con l’obiettivo di provocare uno scambio fraterno di opinioni che servirà da ponte per lo sviluppo della lotta anarchica.

In particolare nell’ambito della Settimana internazionale di solidarietà con i prigionieri anarchici e in relazione al testo da te scritto per celebrare tale iniziativa, abbiamo notato una tua critica alla Croce Nera Anarchica/Anarchist Black Cross (CNA/ABC), e un forte rifiuto nei confronti di alcune posizioni caritatevoli manifestate da alcuni gruppi che sostengono i prigionieri che non provengono da lotte anti-autoritarie. Arrivi persino ad affermare che ci sono presunte “spie” e “leader religiosi fondamentalisti” che gonfiano le liste di questi gruppi. Quando fai notare questo, stai denunciando fatti concreti o, diciamo, che è un modo generico per evidenziare l’inclusione di prigionieri che non sono propriamente antiautoritari? Pensi che sia necessario “sfoltire” quelle liste – per usare le tue parole – e concentrare i nostri sforzi sui compagni specificamente antiautoritari? Pensi che la CNA/ABC abbia abbandonato i suoi principi fondamentali e richieda una “ricostruzione” interna che rafforzi questa prospettiva?

G.R. Prima di tutto, grazie per questa opportunità di “dialogo” a distanza. È necessario, infatti, incoraggiare il dialogo e il dibattito fraterno nei vari circoli per cominciare a separare il grano dalla paglia e stabilire un piano comune (teorico e pratico) che risponda alle esigenze della guerra anarchica nel XXI secolo. Ebbene, detto questo, devo sottolineare che qui ci sono tre domande in una, ma mi sembra che siano molto ben poste, dato che questo tema è molto spigoloso, deve essere affrontato da diverse angolature. La cosa “peggiore” è che queste domande richiedono risposte lunghe, che tendono sempre a rendere le interviste molto noiose, soprattutto quando sono scritte.

Da anni denuncio il modo in cui questa storica iniziativa di soccorso e solidarietà anarchica è stata minata da una banda di umanisti liberali. Non sto generalizzando, mi riferisco in particolare al Nord America, anche se so che non è l’unica regione che si fa carico di queste pratiche caritatevoli e accetta l’imposizione di pressioni straniere sulla nostra lotta. Ovviamente, questo non è il caso della CNA in Spagna, per fare un esempio. Ma, tornando alla situazione specifica di questi luoghi, ritengo che non solo abbiano adulterato la ragion d’essere della CNA, ma che attraverso alleanze politiche l’abbiano messa al servizio di interessi contrari all’anarchia, mettendola addirittura al servizio degli Stati cosiddetti “rivoluzionari”.

Non so se questa svolta – a 180 gradi – sia stata motivata da qualche tipo di sussidio economico o se tutto si riduca allo spirito pio (umanista-liberale-democratico-socialista-cristiano) che li ispira o se risponda a principi machiavellici; cioè che siano infusi dalla massima utilitaristica “il nemico del mio nemico è mio amico”. La verità è che questo improvviso cambio di direzione va avanti da più di vent’anni. Risale a quando l’allora neocostituita Federazione anarchica della Croce Nera incluse nella sua lista dei prigionieri le cinque spie cubane allora incarcerate, usando gli stessi eufemismi del governo dei fratelli Castro, e riferendosi alle spie – che avevano anche lavorato in coordinamento con l’Fbi – come ai “Cinque Eroi”.

In questa stessa ottica, c’è ora il caso promosso dalla CNA di Philadelphia, che chiede solidarietà per la prigioniera Ana Belén Montes, che viene presentata come una “prigioniera di coscienza”. Al di là del fatto che non è una compagna anarchica, forse è opportuno ricordare al gruppo di Philadelphia che esiste già una coalizione con fondi propri dedicati alla sua liberazione; inoltre, tutta la solidarietà intorno al suo caso ha il sostegno economico diretto del governo cubano.

È davvero spiacevole vedere che, a nome della CNA, si continuino a fare campagne a favore delle spie, piuttosto che concentrare i nostri pochi fondi su prigionieri anarchici. In questo momento, ci sono circa cinque compagni d’armi qui; più tutti/e le/i prigionieri anarchici sparsi nel resto del mondo. Oggi abbiamo compagni in prigione in Bielorussia, in Cile, in Grecia, in Spagna, in Italia, in Iran, in Russia, solo per citare alcune paesi. E lo stesso vale per le campagne che la CNA ha intrapreso in solidarietà con i leader religiosi. C’è il caso dell’imam Jamil Abdullah Al-Amin (Hubert “Rap” Brown), che non ha mai avuto un minimo approccio all’anarchismo. È un ex leader del Partito della Pantera Nera (BPP) che si è convertito all’Islam, come molti dei discendenti africani nelle prigioni nordamericane, ma cosa diavolo c’entrano il Partito della Pantera Nera e la religione con l’anarchia? Naturalmente non dobbiamo dimenticare che l’Imam ha tutta la solidarietà dei suoi parrocchiani e ha un proprio fondo di sostegno.

Ecco perché credo che sia necessario sfoltire queste liste come dico in “Mano alle polveri!”  Non capisco perché dovremmo dirottare la solidarietà verso persone che non fanno parte della lotta anarchica e non concentrarsi invece sul sostegno ai nostri Gabriel Pombo Da Silva, Dinos Giagtzoglou, Alfredo Cospito, Lisa Dorfer, Nicola Gai, Monica Caballero, Francisco Solar, Michael Kimble, Eric King, Anna Beniamino, Carla Tubeuf e tutti gli altri compagni che sono rinchiusi, nel resto del mondo.

Dopo queste esperienze concrete, naturalmente considero urgente la “ricostruzione” della Croce Nera Anarchica o, in mancanza di questa, incoraggiare una nuova iniziativa di solidarietà diretta con i detenuti specificamente anarchici, riprendendo il lavoro di alcuni gruppi locali – insisto, non tutti i gruppi hanno la stessa linea proto-liberale. Ma la verità è che molte sezioni in tutto il Nord America hanno cessato di essere funzionali per i nostri prigionieri. Non so se possiamo ancora “ricostruire”. Vale a dire, cambiare il corso dal di “dentro”, tracciando una linea di demarcazione per separarci da questo snaturamento della CNA. Forse sarebbe molto più “sano” dare vita a una nuova iniziativa, ripulendo la lavagna. Dopo tutto, nel corso della convulsa storia della Croce Nera Anarchica, sono sorte circostanze simili che hanno portato a rotture piuttosto forti e persino all’evoluzione del suo nome nel tempo. Ricordiamo che inizialmente non era questo il suo nome e che è stata l’infatuazione per i socialdemocratici (prima) e per i bolscevichi (poi) a dare origine all’acronimo che ora porta (1). Forse è giunto il momento di ripartire da zero.

C.I. Continuando ad approfondire il tema della lotta anticarceraria, pensi che si debba continuare ad essere solidali con i detenuti mantenendo una posizione abolizionista? Pensi che sia importante sostenere i prigionieri delle rivolte anche se non sono specificamente anarchici?

G.R. Secondo l’antiquata ottica “classista”, i cosiddetti prigionieri sociali o “comuni” – come ama definirli il sistema, denigrandoli – sono stati concepiti come “vittime del capitalismo” e quindi hanno sempre contato sul nostro sostegno, facendo eco di tutte le loro denunce sulle condizioni di vita carcerarie subumane. In questo momento, con la pandemia di Covid-19, possiamo vedere come le prigioni stiano eseguendo un vero e proprio sterminio su base razziale che uccide neri, latinoamericani, indigeni e poveri, e lo stesso accade in ogni parte del mondo, mettendo in atto una pulizia etnica degli esclusi in stile nazista. Tuttavia, queste specifiche denunce, non possono essere confuse con la retorica della religione laica degli umanisti liberali, che idealizza il prigioniero di per sé. In parole povere, ho sempre trovato dietro le sbarre lo stesso animale umano che vive fuori, le prigioni sono il riflesso della società con tutti i suoi diversi animali, ognuno con virtù e difetti e con le proprie esigenze e ambizioni. Questo ci obbliga – così come in strada – a creare legami di affinità con coloro che coincidono con i nostri desideri e condividono la nostra pratica.

In questo senso, dopo l’illegalismo anarchico, abbiamo sempre avuto legami con i detenuti che il più delle volte non conoscevano nemmeno lontanamente le idee anarchiche, ma che provenivano da una pratica molto più antiautoritaria di alcuni di quelli che frequentano i nostri circoli. In innumerevoli occasioni, quando questi prigionieri entrano in contatto con la teoria e la pratica anarchica, si identificano pienamente con essa. Ma non voglio generalizzare. Parlo di casi molto specifici, altrimenti cadrei nelle stesse fantasie degli umanisti liberali.

Credo che il ruolo caritatevole debba essere lasciato alle diverse confessioni religiose che ogni giorno si litigano un posto da parrocchiano nelle carceri. La rivolta tra gli evangelici , i musulmani, i mormoni, i cattolici, i metodisti, gli scientologisti e i testimoni di Geova è comprensibile, ma non capisco perché ci siano “anarchici” che si uniscono a questa competizione per le “anime perdute” e che aspirano a salvarle dal purgatorio. Naturalmente, questo delirio si adatta anche a questo punto di vista “classista”. Un’altra visione altrettanto superata che sottolineava la crescita quantitativa del cosiddetto “movimento rivoluzionario” e cercava di catturare a tutti i costi nuovi “militanti”, alimentando il ruolo di “predicatore” della chiesa libertaria in perenne disputa con le altre sette religiose.

Forse è ovvio, ma non superfluo, ribadire che come anarchici siamo per la demolizione delle carceri, che non va confusa con la carità obbligatoria verso tutti i prigionieri del mondo, dimenticando che dietro le sbarre ci sono anche femminicidi, stupratori e neonazisti, a dir poco. E lo stesso vale per quello che dicevo prima a proposito delle spie e dei capi religiosi. Non potremo mai essere solidali con le spie israeliane imprigionate a Teheran, pur conoscendo le condizioni subumane imposte dalla Sharia e dal Consiglio dei Guardiani nelle prigioni iraniane.

Tuttavia, per quanto riguarda la dottrina abolizionista, vorrei fare alcuni commenti a rischio di annoiarvi ancora una volta. Di recente, nei nostri circoli è tornato in auge il discorso sull’abolizione delle carceri e – negli ultimi giorni – la questione dell’abolizione della polizia. Esiste infatti un gruppo anarco-bolscevico che si fa chiamare il Movimento Abolizionista Rivoluzionario (RAM). Credo che tutta questa retorica debba essere affrontata a partire dalla riaffermazione della teoria e della pratica anarchica, per liberarsi di queste concettualizzazioni aliene. Quando parliamo di “abolizione”, ci riferiamo all’annullamento di leggi, istituzioni e/o consuetudini che sono “moralmente inaccettabili” per la società. In altre parole, chiediamo l’intervento dello Stato. Evidentemente, questa azione riformista è completamente opposta alla pratica anarchica. Le riforme contribuiscono solo al consolidamento del dominio. Non c’è modo di voltare pagina. Non so a che punto la confusione sull’abolizionismo sia stata esacerbata in alcuni dei miei colleghi – e qui includo persone che mi sono vicine, come Rodolfo Montes de Oca – o in quali circostanze la porta sia stata aperta a tutta questa spazzatura riformista.

C’è un libretto, disponibile su Act For Free, che tratta di questo tema in modo sintetico, intitolato Prigione: Abolire o distruggere? Inizia con una frase lapidaria: “È stato detto, senza dubbio, che le persone che fanno più male in questo mondo sono quelle che cercano sempre di fare del bene” e questo è proprio il ruolo degli abolizionisti.

Da due decenni ormai, gli abolizionisti chiedono l’eliminazione delle carceri e la loro sostituzione con un sistema correzionale più “umano”. Infatti, qui in Amerikkka, dal 2015, l’Ordine Nazionale degli Avvocati sta spingendo verso questa riforma. Naturalmente, questa proposta non è una novità. L’abolizionismo è sempre stato promosso da religiosi, riformatori sociali e filosofi moralisti. Ricordiamoci che sono stati gli abolizionisti di un tempo a dare origine al panopticon e all’ortopedia sociale attuale, abolendo l’impalcatura e la prigione. Ora, i nuovi abolizionisti insieme ai riformatori della giustizia, insieme alla quarta e alla quinta rivoluzione industriale, stanno aprendo la strada alla “nuova normalità” del controllo. Questo è già qui. Gli Stati lo stanno attuando in questo momento in tutto il mondo, con differenze in termini di tempi di esecuzione, ma la chiusura dei complessi carcerari e l’implementazione di sistemi di controllo all’avanguardia sono già in corso. La pandemia è stata un fattore importante per esporre i “pericoli del sovraffollamento”, con una certa perversione, ovviamente. Sappiamo che non disturba il dominio lasciare che migliaia di persone escluse muoiano in prigione prima di compiere il passo finale e presentarlo come un trionfo della democrazia attraverso le riforme sociali. Senza dubbio, la fine delle prigioni così come le conosciamo è vicina. L’istituto penitenziario cambierà nome e, le strutture di massima sicurezza saranno molto scarse, riservate a una manciata di persone irriducibili, che saranno “curate” come pericolosi psicopatici in asettici edifici sotterranei che non renderanno brutto il paesaggio delle smart cities; grazie alle buone intenzioni abolizioniste. Non dimentichiamo che nel 1865, con il Tredicesimo Emendamento, la schiavitù fu messa al bando negli Stati Uniti, ma i proprietari degli schiavi furono gli unici ad essere compensati dal governo. Con l’abolizione, gli schiavi non erano più “merci umane” da comprare e vendere, ma la schiavitù non fu abolita, diventando una risorsa che poteva essere sfruttata a morte. Basta un rapido sguardo alla storia delle carceri per provarlo, per non parlare del ruolo del lavoro degli schiavi a metà del XX secolo, utilizzato su larga scala nella Germania nazista, nella Russia comunista, nella Cina maoista, nella Kampuchea democratica di Pol Pot, nella Cuba di Castro con i suoi campi di lavoro forzato per omosessuali e intellettuali dissidenti, sotto l’eufemismo delle “Unità militari a sostegno della produzione”.

Per quanto riguarda la solidarietà con i prigionieri della rivolta, ritengo inutile l’intervento diretto della CNA. Generalmente, in questi casi, vengono incoraggiate iniziative specifiche, dedicate a porre l’attenzione sulle persone rinchiuse in carcere. Sta accadendo proprio in questo momento nei confronti di migliaia di detenuti durante i recenti disordini contro il governo Trump e contro la violenza della polizia nelle città del Nord America. Molti dei detenuti sono liberali anabolizzati, democratici radicali, leader religiosi e militanti delle mille e una setta leniniste. Con il passare dei giorni si verificherà una scrematura naturale che ci permetterà di individuare chi sono i compagni anarchici caduti nelle grinfie del sistema durante gli scontri e, immediatamente, la CNA concentrerà su di loro tutte le sue risorse. Le altre strutture politico-religiose hanno la loro macchina della solidarietà, e la mettono subito in moto per sostenere la loro.

C.I. Recentemente si è svolto a Madrid un ciclo di dibattiti intorno al tuo testo sul Covid 19: “L’Anarchia ai tempi della pandemia”, il 7 all’Ateneo Libertario de Vallekas, il 21 al Local Anarquista Motín, il 28 agosto al CNT-AIT, il 19 settembre all’Espacio Okupado Anarquista La Emboscada, e il 23 ottobre all’Ateneo Libertario Carabanchel-Latina, dove sono stati dati aggiornamenti sulla situazione locale e internazionale della repressione anti-anarchica. Cosa ne pensi di questa iniziativa?

G.R. In realtà, sono sorpreso. Non ero a conoscenza di questa iniziativa e non ho avuto contatti con i colleghi organizzatori; il che indubbiamente dona a queste giornate un’ atmosfera anarchica molto affascinante. Quel che è certo è che sono stato molto contento di vedere la presenza di complici dall’altra parte dell’Atlantico e, non lo dico per il possibile “consenso” che questo testo può aver avuto, ma per la conferma delle affinità volte a favorire la riflessione come passo necessario verso l’abbandono di questa inerzia che ci ha colpito. Allo stesso tempo, credo che questo sforzo venga potenziato quando si intreccia con gli aggiornamenti specifici della repressione anti-anarchica a livello locale e internazionale.

Se c’è qualcosa da aggiungere, vale la pena sottolineare l’importanza di questi dibattiti nei quartieri di Vallecas, Tetuán e Carabanchel; nello specifico, in questi giorni in cui crescono le proposte di “secessione” dal discorso “comunista” e dal situazionismo tardivo, equivalente alla fuga in campagna e alla costruzione di “isole felici” – come giustamente sottolinea il compagno Cavalleri – invece di affrontare il dominio nella sua tana. La guerra anarchica deve avvenire nella metropoli, ancor più ora che le città intelligenti si stanno imponendo su di noi. Lo sviluppo dell’insurrezione permanente ci spinge alla “secessione” ma, quando parliamo di secessione dal punto di vista della tendenza anarchica informale e insurrezionale, intendiamo “cessare di essere”. Cioè, smettere di far parte…, smettere di lavorare, lasciare il branco, “disaccoppiarsi”, uscire dall’obiettivo della macchina fotografica, interrompere la sequenza. Si tratta di muoversi nell’assoluta illegalità nel cuore delle città. E questo è possibile solo assumendo la competenza delle termiti: distruggere, distruggere e distruggere, nel buio totale della notte ma, senza assumere sacrifici inutili per un futuro incerto, ma armati di piacere nell’eccedenza anarchica. Questo è il ruolo dei solitari e dei gruppi di affinità ai nostri giorni.

La demolizione del palazzo di Monsieur Domination avverrà solo divorandone la struttura; finché un giorno, con un semplice sbattere della porta, l’intero edificio crollerà. Naturalmente, costruiranno un’altra villa con caratteristiche molto più resistenti e utilizzeranno metodi sempre più letali di fumigazione, ma la nostra demolizione sarà permanente. Per allora ci saranno nuove fauci – resistenti alle fumigazioni – pronte a continuare a divorare notte dopo notte, fino a indebolire i pilastri del nuovo edificio.

C.I. In questo contributo, nel quadro della “nuova normalità” imposta dalla necropolitica del capitalismo ipertecnologico, siamo invitati a “porci nuove domande – prima di assumere risposte – sulla validità dell’immutabilità del fuoco”. Qual è l’intenzione di questo testo? Ha raggiunto il suo obiettivo?

G.R. L’unica cosa che sto cercando di fare è di scuotere, muovere il comodo tappeto su cui siamo in piedi, incitando alla pratica anarchica.

Questo testo è (o almeno finge di esserlo) una riflessione contro la marea di tutto ciò che è “politicamente corretto” intorno alle particolarità della “neonormalità” che ci vengono imposte – di pari passo con la IV e la V Rivoluzione Industriale – con il suo conseguente processo di isteresi e il consolidamento del capitalismo cognitivo.

Purtroppo – a parte qualche onorevole eccezione – l’anarchismo dei nostri giorni, oltre a frammentarsi in mille identità con l’accettazione di tutto il brodo che la prigione “identitaria” implica (che delimita e opprime l’individualità dalla truffa del politicamente corretto), è degenerato in una posa minacciosa. È diventata una posizione estetica, una specialità accademica e, nella produzione letteraria – che si tratti di narrativa, filosofia, storiografia, antropologia, sociologia o fumetto -; in altre parole, vediamo molti testi e pochissima pratica. Quando in realtà l’anarchia è pensiero-azione: quella che i marxiani chiamano “prassi”. Senza pratica non c’è anarchismo, perché la teoria anarchica si nutre proprio della pratica. Naturalmente, mi riferisco alla pratica concreta come azione refrattaria, non alla “pratica” degli insurrezionisti da tastiera e alla virtuale “guerra sociale”.

Credo che l’aspetto più preoccupante di tutta questa esuberanza letteraria che ci sta invadendo sia il riduzionismo delle visioni sottostanti, che fanno svanire ogni tentativo di riflessione e, soprattutto, le opportunità di concretizzare la lotta anarchica dei nostri giorni. Penso che sia importante prenderne coscienza, aprendosi alla possibilità di “autoesplorarsi” e vedendo fino a che punto – magari senza rendersi conto di quando e come – molti di noi alimentano anche questa assenza di pratica anarchica nei nostri ambienti, sostituendo l’attacco al dominio con l’iperattivismo comunitario e, lasciandosi trascinare dall’inerzia di modelli di lotta ormai superati.

L’anarchismo senza la sua conseguente pratica si riduce a un insieme di orientamenti di valore condannati alla degenerazione ideologica. Detto questo, non è impossibile tentare un cambiamento in questo senso, partendo dal presupposto che si voglia porre rimedio a questa miserabile situazione di fondo. Ogni tentativo di incitare all’azione del pensiero e di frenare l’inerzia che la fede nelle metodologie arcaiche proietta, deve essere orientato all’attacco concreto contro ciò che esiste e, per questo, è indispensabile andare oltre la “guerra” su Internet e, naturalmente, il discorso pamphletary, l’attacco ai simboli e l’antiquata visione militaristica e il suo conseguente potere populista. Questo è il sottotesto di “Anarchia ai tempi della pandemia”: un appello alla coscienza / un appello all’azione.

Apparentemente il testo ha raggiunto il suo scopo, ma questa è la mia valutazione. In realtà, spetta ai compagni informali e insurrezionalisti esprimere le loro opinioni e rispondere a questa domanda.

  1. Le origini della CNA risalgono alla Russia zarista. Nata come Croce Rossa Politica (CRP), con l’intento di distinguersi dall’organizzazione medico-umanitaria fondata da Henry Dunant di Ginevra, che operava nei territori dell’Impero russo dal 1867 e che si dedicava ad aiutare i soldati feriti in battaglia e le vittime della guerra – nel rigoroso rispetto del diritto internazionale. Fin dai suoi primi giorni, la Repubblica Popolare Cinese era orientata verso il soccorso dei rivoluzionari anarchici e socialisti, e fu presto rilevata dai socialdemocratici. Questo cambiamento si riflettè immediatamente nella mancanza di sostegno ai prigionieri anarchici, e portò i compagni – a metà del 1906 – a scindersi e ad unirsi alla Croce Rossa Anarchica (CRA), raddoppiando il sostegno ai compagni anarchici in prigione e in esilio in Siberia. Entro il 1907, la CRA avrebbe istituito sezioni a Londra e New York, dedicate alla raccolta di fondi per aiutare i detenuti e le loro famiglie. Con l’instaurazione della dittatura bolscevica, alcuni “anarchici”, sedotti dalla verbosità rivoluzionaria del fascismo rosso, rinunciarono ai loro principi e si unirono al branco, unendosi al fascino delle istanze antiautoritarie di lotta. La Croce Rossa anarchica non fece eccezione, finendo anch’essa sotto controllo rosso. A quel punto, molti dei suoi leader erano già nelle prigioni comuniste o erano stati deportati in Siberia, il che spinse i compagni che riuscirono a fuggire in esilio a ricostituire l’iniziativa sotto un nuovo nome che ne chiarì la posizione teorica e pratica: la Croce Nera Anarchica (CNA). Anche i gruppi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti adottarono il nuovo nome, rimanendo attivi e solidali con i prigionieri anarchici fino alla metà degli anni Trenta. Solo nel 1966 l’opera della CNA fu ripresa su iniziativa del compagno Stuart Christie in collaborazione con Albert Meltzer. Stuart, che era stato ospite nelle prigioni fasciste di Franco, accusato di “terrorismo”, fu un instancabile promotore del progetto, portando l’iniziativa a livello internazionale nell’estate del 1968 durante i giorni del Congresso Anarchico Internazionale nella città di Carrara. Lì, invitava i presenti a formare sezioni della Cna in tutto il mondo e faceva eco alla situazione degli anarchici imprigionati nelle prigioni spagnole, rivelando anche la repressione degli anarchici cubani sotto il regime dei fratelli Castro e dando notizia della fucilazione di un compagno dell’isola. Nel 1980, c’erano sezioni della CNA in quasi tutte le parti del pianeta, ad eccezione degli Stati sotto la morsa di ferro delle dittature militari.

Fonte: ContraInfo

Traduzione (dallo spagnolo): Inferno Urbano