Contro la tradizione, contro il nuovo che avanza, verso l’ignoto

CONTRO LA TRADIZIONE, CONTRO IL NUOVO CHE AVANZA, VERSO L’IGNOTO.
Riflessioni sulla socialità anarchica in vista della tre giorni all’Hanta-Yo Autogestito.

(Premesse sul linguaggio: nel tempo ci si è interrogat spesso sul come non alimentare e perpetuare la connotazione sessista della lingua italiana, tanto per cominciare l’uso del maschile neutro e la declinazione di genere binaria, maschile e femminile, che permea tutto il parlato e scritto. Abbiamo scelto, dopo vari passaggi (chi usava l “x” chi un simbolo come l’asterisco, “*” etc) di omettere le finali onde evitare di dare una connotazione di genere ad ogni soggetto. Non è la soluzione al problema, (quella è la distruzione del patriarcato!) ma la più affine al mio/nostro modo di sentire in questo momento. Abbiamo anche scelto di utilizzare il plurale e il singolare quando ci riferiamo a chi sta scrivendo per una ragione di onestà: magari le idee non sono sempre espressione del pensiero collettivo ma nemmeno ogni singola formulazione è sola farina del sacco di un individuo, perciò, per dare importanza a entrambe, si è scelto di fare un pò a casaccio. Io e noi. Noi e io. Individuale e collettivo.

Un concerto, una tattoo circus, uno o più momenti per stare insieme, fare insieme, condividere situazioni. Parlo di situazione nei termini di uno spazio vitale, emotivo, creativo nel quale gli individui possano esprimersi. Dove nulla o quasi è preconfezionato, dove non vi siano nè usufruitor ne gestor. Ci siamo domandat tanto il senso di fare una tre giorni, di organizzare un momento composto da più momenti, dove le persone (compagn di strada che da anni condividono percorsi, o sconosciut) si possano incontrare ed esprimere, dare il proprio contributo (o anche no, ma comunque essere se stess). In questo senso il benefit dovrebbe essere un pretesto, o quanto meno non il fulcro del ritrovarsi, senza nulla togliere al benefit come utile strumento di mutuo appoggio, ma se fosse “solo” per racimolare soldi necessari in un dato momento si potrebbero fare delle collette tra compagnx. Insomma vorrei che il benefit fosse pur sempre l’eco di fondo di quacos’altro, di uno “stare insieme” che diventi bellezza, amore, cospirazione, conflittualità, dibattito, esperienze…ma siamo proprio sicur che sia così?

Ecco, ci domandiamo se la nostra contro-cultura, il nostro essere-voler essere altro sia poi così in discontinuità con l’egemonia del sistema. Mi domando se la nostra socialità ci dà davvero modo (o quanto meno agevola) il nostro “libero esprimersi”. Abbiamo purtroppo risposto che, no, sempre meno le nostre situazioni assomigliano a quelle che vorremmo originare. Le motivazioni sono certamente tantissime e non sarebbe possibile elencarle tutte, ma la crescente puzza di normalizzazione è il campanello d’allarme che ci fa puntare il dito sul “male” che contiene e alimenta tutti gli altri. Normalizzazione è negazione della critica, è assenza di domande, è adesione alla corrente: non domandarsi più il senso del nostro stare insieme e creare e ricreare il simile per abitudine, più che per desiderio. L’acritica coazione a ripetere del ritrovarsi ci pare che tramuti la socialità, con tutto il suo potenziale esperienziale/conflittuale/creativo/distruttivo, in intrattenimento. Parlo qui solo dei momenti di socialità, non di spazi più militanti o politici (sempre che interessi ragionare in questi termini) come presidi, cortei, assemble etc, che meriterebbero libri e discussioni a parte.

Quello che ci spaventa è la percezione che le nostre iniziative, i nostri momenti, i nostri ritrovi (dove per nostri intendo chi si riconosce in una determinata scelta di vita: la tensione anarchica) siano sempre più di frequente delle “serate fotocopia”. Mi spiego: L’idea che il collante del nostro stare insieme non sia la voglia, il desiderio di mettersi in gioco, la tensione atta a scardinare i meccanismi sociali introiettati, ma il semplice ritrovarsi in un tempo e in un luogo, il sentirsi parte di un gruppo (ossia l’appartenenza sociale), il dare senso al proprio tempo condividendolo con i propri presunti simili. La fotocopia è la ripetizione dell’identico nella ricerca rassicurante del familiare, la riproduzione abitudinaria di qualcosa che diamo per scontata. A questa acriticità della condivisione si legano una moltitudine di aspetti e problematicità, che non voglio approfondire in questo momento per non liquidare una galassia di aspetti complessi con la banalità di un testo di poche righe. Ci preme fondamentalmente questionarci però se non siamo stat in grado di risignificare questi momenti in chiave effettivamente anarchica.

Se cioè, nonostante i sinceri tentativi (o la vuota retorica!) non stiamo facendo altro che dare una tinta diversa alle stesse modalità socializzanti imposteci dal sistema di dominio. L’idea che la socialità, per il solo fatto di essere in uno squat o in una TAZ o di essere accompagnata dalle note del punk hardcore sia liberata dagli schemi sociali è una delle normalizzazioni preoccupanti che vogliamo smontare. Lo stare insieme, il conoscersi tra persone, l’incuriosirsi, il creare o il distruggere insieme non sono attitudini-modalità-pratiche che, dal momento che ci si proclama anarchic e si frequenta “il giro” divengono antiautoritarie, antisistema, antisessiste, antisocietarie (nel senso di rottura con le regole imposte dalla società). No. Esattamente come tutto il resto. Ed esattamente come tutto il resto, dall’imparare a difendersi dalla repressione, all’esercitare il consenso nelle relazioni al sabotare gli ingranaggi del dominio, si apprende e si sperimenta.

Questo è il cuore del nostro discorso.

Vorrei che la socializzazione “nel giro” venisse ridiscussa ricominciando a discutere e a creare, a stravolgere i tempi e i modi dello stare insieme. I tasselli che compongono la socialità sono tantissimi (l’uso di sostanze, il cibo che mangiamo/vendiamo, la musica che suoniamo, il linguaggio che abbiamo e l’immaginario che esprimiamo, l’abbigliamento, i corpi, lo spazio…tutto!) e di pochissimi di questi si dibatte apertamente nel “giro”. Quando accade è spesso in maniera emergenziale: un esempio tra tutti, quando si consumano episodi di violazione del consenso e/o di molestia sessuale da parte di compagn in situazioni collettive.

Essere anarchici per chi scrive non è essere conseguenti con un dato pacchetto di pratiche, idee, attitudini, linguaggio che fa di me un appartenente al giro; essere anarchic è prima di tutto la distruzione di ogni imposizione, anche mascherata o borchiata da libera scelta, da senso di appartenenza, che altro non è che uno dei meccanismi di riproduzione sociale. La normalizzazione è la più ferrea alleata della pacificazione, che è a sua volta la colonna portante del privilegio. Non discutere/ridiscutere i termini del nostro stare insieme immobilizza le individualità in dei ruoli (ruoli che portano in sé oppressioni agite e/o subite) e fa sì, o per lo meno ha fatto sì nel tempo, che gli spazi smettano di essere belli, agevoli (non diremo sicuri perchè non cerchiamo sicurezza, ma reciproca sensibilità, cura e attenzione) per ogni individualità che li voglia attraversare.

Sentirsi a nostro agio è più importante di quanti soldi facciamo per la cassa antirepressione. Sentire che si respira una bella aria è più importante di far venire più persone possibili così che il numero dia ragione al nostro fare. La finalità della socialità è la finalità della mia vita: farla finita col dominio in tutte le sue forme, stare bene, far star bene. E visto che l’impossibile non ha ricette, né priorità, né coordinate, mettiamo sullo stesso piano l’insurrezione e l’amore liberato, la gioia distruttiva e la chitarra, il massaggio e lo scassinare, la vita e la vita. Le anarchie. La libertà.

Come fare a scardinare la norma? Come gettarsi nell’ignoto?

Sfortunatamente o fortunatamente di risposte non ve ne sono. Ma crediamo che prima di tutto vi sia un’altra domanda (il dubbio prima di tutto) da porsi: ho voglia di farlo?! Nel dibattito tra anarchic sentiamo spesso la mancanza di un grande assente, il desiderio. Se scelgo la vita che scegliamo, se creiamo situazioni in cui trovarci, se voglio accollarmi anche le sbatte e i rischi e prenderci impegni nell’organizzare momenti di socialità è per la voglia di farlo. Per la voglia di sperimentare e per il desiderio di avere affianco persone amiche, per la curiosità di conoscere nuovi complici. Ma anche, e soprattutto, per il desiderio di praticare, quanto più possibile, quell’ignoto che ci affascina, che ci spinge a sfidare il mondo del dominio, che ci fa vivere, nonostante tutto. Non è detto che chiunque partecipi a un concerto punk o a una festa abbia voglia di ridiscutere i termini del suo stare insieme, non diamo affatto per scontato che in ciascun di noi vi siano le stesse tensioni di conflittualità contro il sistema e le sue logiche introiettate. Nessuna gerarchia di valori o di priorità, solo la chiarezza onesta del dirsi verso quale direzione tendiamo per valutare insieme quale e quanta strada vorremo fare fianco a fianco. Vivere le situazioni collettive serve (anche) a questo, conoscersi, darsi il tempo, accorciare le distanze che nella quotidianità ci separano.

E visto che credo nella parola, nell’immaginario, nel dibattito, il primo passo che muoverò sarà di far circolare queste proposte, queste idee; di smetterla di pormi dei divieti di spessore precludendomi delle possibilità etichettando come “fricchettonate” o “non in linea” dei sentieri. Non c’è nessuna linea, ma un’infinità vagante e vorticosa e inquieta di punti e spirali ed esplosioni e saette che tracciano la costellazione nera del mio desiderio.

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Fonte: roundrobin